L’obbligo gravante sul proprietario del suolo su cui va esercitato il transito non determina la costituzione di servitù, ma si ricollega ad una limitazione legale del diritto del titolare del fondo, per un’utilità occasionale e transeunte del vicino, avente per contenuto il consenso all’accesso e al passaggio che il soggetto obbligato è tenuto a prestare.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GORJAN Sergio – Presidente –
Dott. PICCARDI Francesca – Consigliere –
Dott. BELLINI Ugo – Consigliere –
Dott. ABETE Luigi – Consigliere –
Dott. FORTUNATO Giuseppe – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 5480/2016 R.G. proposto da:
D.A., D.E., D.M., D.A., rappresentati e difesi dall’avv. Antonio Spallieri e dall’avv. Eugenio Manfredonia, elettivamente domiciliati in Roma, viale Angelico n. 97, presso l’avv. Gennaro Leone.
– ricorrenti –
contro
C.M.R., rappresentata e difesa dall’avv. Alberto Bencivenga, elettivamente domiciliata in Roma, alla Via del Mascherino n. 72, presso lo studio dell’avv. Valerio Valenti;
– controricorrente –
e V.A., V.R., V.P., V.A., V.A., V.G., P.C., P.F., P.F., V.A., S.M., S.M.;
– intimati –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli n. 3268/2015, depositata il 17.7.2015.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 25.2.2020, dal Consigliere FORTUNATO Giuseppe;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale CELENTANO Carmelo, che ha concluso, chiedendo il rigetto del ricorso;
udito l’avv. Alberto Bencivenga.
FATTI DI CAUSA
C.M.R. ha adito il tribunale di Santa Maria Capua Vetere, esponendo di esser proprietaria dell’immobile sito in via Lapillo di Maddaloni, fraz. Montedecoro, censito in catasto al fl. *****, part. *****, subb. 1, 2 e 3, confinante con un cortile in comproprietà con i convenuti A., E., M. e D.A..
Ha chiesto di essere autorizzata ad accedere all’area comune per eseguire l’intonacatura del muro posto ad est del suo fabbricato, fissando le modalità del transito e l’indennità; di accertare il diritto al ripristino della veduta diretta che, dal vano posto al primo piano, dava sul cortile (con l’apposizione di una ringhiera sulla soglia del balcone) e alla riapertura del vano porta che dal terraneo consentiva l’accesso al medesimo cortile (previa ricollocazione del precedente infisso con apertura verso l’interno), instando inoltre per la condanna dei convenuti a rimuovere gli autocarri posizionati in corrispondenza del muro a confine e sotto le vedute dirette, all’eliminazione di talune mensole di ancoraggio dei conduttori elettrici e di una fioriera sempre collocata lungo la facciata esclusiva, con risarcimento del danno da liquidarsi in separato giudizio.
I convenuti hanno eccepito l’insussistenza dei presupposti per l’esercizio del diritto di accesso e l’estinzione dei diritti di veduta per intervenuta rinuncia, chiedendo la chiamata in causa degli altri contitolari del cortile menzionati in epigrafe.
Integrato il contraddittorio ed espletata c.t.u., all’esito il tribunale, con sentenza n. 80/2011, ha autorizzato il transito sul cortile per gg. 15 consecutivi, dichiarando che l’attrice aveva titolo a ripristinare la veduta diretta dal primo piano e a riaprire il vano porta al piano terra. Ha infine ordinato l’eliminazione della linea elettrica apposta sul muro esclusivo e la rimozione delle foriere, regolando le spese.
Con sentenza 3268/2015, la Corte napoletana ha confermato la decisione di primo grado.
Riguardo alla richiesta di accesso al cortile, il giudice distrettuale ha ritenuto che la soluzione adottata in primo grado fosse l’unica possibile, dato che alla parete da intonacare era possibile giungere solo dal cortile comune.
Ha negato la spettanza dell’indennità ex art. 843, osservando che le impalcature avevano occupato solo una parte ridotta del cortile, senza provocare alcun danno.
Quanto all’apertura delle vedute e dei balconi, la sentenza ha escluso che la C. avesse rinunciato alla servitù, evidenziando che non vi era prova che le opere per le quali era stata presentata una richiesta di concessione fossero proprie quelle risultanti dai grafici prodotti in giudizio dai ricorrenti (e che avrebbero comportato la chiusura delle aperture), negando, infine, che la servitù fosse estinta per non uso ventennale.
Ha rigettato l’eccezione di usucapione del diritto a tenere i cavi elettrici sul muro esclusivo, per carenza di prova del possesso ultraventennale, mentre, in merito alla richiesta di eliminazione delle piante poste a confine con la parete esclusiva, ha stabilito che dagli accertamenti svolti era effettivamente emersa la presenza di essenze erbacee in prossimità della parete dell’immobile della resistente, affermando che l’ordine di rimozione era perfettamente eseguibile.
La cassazione della sentenza di appello è chiesta da A., E., M. e D.A. con ricorso in quattro motivi.
C.M.R. ha depositato controricorso e memoria illustrativa.
Le altre parti non hanno svolto difese.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo del ricorso principale denuncia la violazione dell’art. 843 c.c. e l’illogica, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, lamentando che la Corte d’appello abbia autorizzato il passaggio sul cortile senza pronunciare sulla richiesta di indennità e senza svolgere alcun accertamento circa: a) la necessità del transito; b) l’esistenza di soluzioni alternative, eventualmente meno gravose; c) la liceità dell’opera cui era funzionale il passaggio; d) l’entità del pregiudizio arrecato al fondo dei ricorrenti, trascurando che l’accesso aveva comportato l’occupazione dell’area con il deposito di materiali e attrezzature e quindi l’impossibilità di parcheggiare i veicoli dei ricorrenti.
Si censura infine la condanna al pagamento delle spese processuali, sostenendo che i ricorrenti non si erano opposti al transito e non avevano dato causa al processo.
Il motivo è infondato.
Ai sensi dell’art. 843 c.c., il proprietario deve consentire l’accesso e il passaggio sul suo fondo, sempre che ne venga riconosciuta le necessità per eseguire o riparare opere del vicino o comuni. Se l’accesso cagiona danni, è dovuta una congrua indennità.
L’obbligo gravante sul proprietario del suolo su cui va esercitato il transito non determina la costituzione di servitù, ma si ricollega ad una limitazione legale del diritto del titolare del fondo, per un’utilità occasionale e transeunte del vicino, avente per contenuto il consenso all’accesso e al passaggio che il soggetto obbligato è tenuto a prestare (Cass. 5012/2018; Cass. 1908/2009; Cass. 17383/2004). E’ richiesta, a tal fine, una valutazione complessiva della singola situazione concreta, da cui deve evidenziarsi la necessità del passaggio per l’esecuzione delle opere e l’insussistenza di soluzioni alternative meno gravose.
In particolare, l’accesso non è consentito solo ove sia comunque possibile eseguire i lavori dalla proprietà di chi intende intraprenderli dal fondo di un terzo, sempre che tale soluzione risulti meno gravosa (Cass. 28234/2008; Cass. 1801/2007).
Nello specifico, la Corte di merito, dopo aver correttamente premesso che il requisito della necessità – contemplato dall’art. 843 c.c. – andava riferito non all’urgenza o indifferibilità dei lavori, ma all’indispensabilità dell’accesso al fine di eseguirli, ha precisato, con apprezzamento in fatto correttamente e logicamente motivato, che l’utilizzo del cortile, funzionale all’intonacatura delle pareti esterne dell’edificio, era l’unica soluzione concretamente praticabile o comunque quella meno onerosa, sia per l’attrice che per i convenuti, poichè la parete presso cui eseguire gli interventi era raggiungibile solo dal cortile e le soluzioni alternative avrebbero comunque comportato l’occupazione di tale area comune.
Non rileva che la sentenza non abbia valutato la liceità degli interventi alla parete dell’edificio, poichè, pur essendo tale verifica doverosa (Cass. 7768/2011; Cass. 2249/1957), il ricorso non chiarisce se e quando tale questione sia stata sollevata nei gradi di merito (non essendo menzionata neppure nella sentenza impugnata), sicchè, per la sua novità, non può proporsi direttamente in questa sede, richiedendo nuovi accertamenti in fatto, preclusi in cassazione.
La pronuncia di appello appare incensurabile anche laddove ha escluso la spettanza dell’indennità, in mancanza di prova che l’accesso avesse arrecato danni alla proprietà dei ricorrenti.
L’art. 843 c.c., delinea un’ipotesi di responsabilità da atto lecito che, sebbene prescinda dall’accertamento della colpa, esige tuttavia che il transito e l’accesso abbiano determinato un concreto pregiudizio al fondo interessato, fermo in ogni caso l’obbligo di ripristinare la situazione dei luoghi (Cass. 3796/1968; Cass. 1670/1969; Cass. 4944/1982; Cass. 7774/1982).
Nel caso concreto, il giudice di merito ha invece evidenziato che l’accesso aveva determinato l’occupazione per un periodo limitato di una parte ridotta del cortile, senza alcun pregiudizio per le facoltà di uso dell’area da parte degli altri comproprietari (cfr. sentenza, pag. 8).
Per altro verso, occorre anche ribadire che, alla luce della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (risultante dalle modifiche disposte dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito con L. n. 134 del 2012, applicabili ratione temporis al caso in esame), l’ambito di rilevanza del vizio di motivazione è circoscritto nei limiti di garanzia del minimo costituzionale, per cui è possibile contestare solo l’anomalia – che, per quanto detto, non ricorre nel caso in esame derivante dalla mancanza dei motivi dal punto di vista grafico, dalla mera apparenza della motivazione, dalla presenza di affermazioni inconciliabili o dalla contraddittorietà che non consenta di individuare l’iter logico della pronuncia, restando irrilevanti le censure di mera insufficienza o contraddittorietà della decisione (Cass. 23940/2017; Cass. 21257/2014; Cass. 13928/2015; Cass. s.u. 8053/2014).
Quanto alla condanna alle spese, la relativa pronuncia è stata assunta non sul presupposto che i ricorrenti avessero rifiutato di consentire l’accesso al cortile, ma in base all’esito finale della causa e per effetto dell’accoglimento dell’insieme domande proposte in giudizio, in piena ottemperanza al principio della soccombenza.
E’ precluso, in proposito, ogni ulteriore sindacato, posto che il controllo di legittimità riguardo alla corretta applicazione dell’art. 91 c.p.c. è limitato alla verifica che non sia stato violato il principio per cui le spese non possono gravare neppure in parte sulla parte totalmente vittoriosa, restando esclusa la possibilità di censurare la scelta di non compensare in tutto o in parte le spese processuali, in caso di parziale accoglimento della domanda, nelle altre ipotesi di soccombenza reciproca o in presenza di giusti motivi.
2. Il secondo motivo deduce la violazione degli artt. 1058,1073 e 1074 c.c. e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, lamentando che la Corte distrettuale abbia consentito la riapertura del vano porta a pian terreno e della veduta diretta al primo piano, escludendo erroneamente che la C. avesse rinunciato alla servitù.
Deducono i ricorrenti che detta rinuncia era implicita nella richiesta di concessione edilizia e nella comunicazione inoltrata al Comune in data 17.11.1990, poichè dai grafici consegnati al c.t.u. dal consulente di parte risultava l’esecuzione di una modifica dello stato dei luoghi – incompatibile con la servitù – posta in essere da epoca anteriore alla stessa comunicazione di inizio lavori del 1990, dovendo il diritto ritenersi comunque estinto per non uso.
Il motivo è infondato.
La sentenza, richiamando l’insegnamento di questa Corte (sentenza 10457/2011), secondo cui anche la presentazione di una richiesta di concessione edilizia può integrare una valida manifestazione di rinuncia ad un diritto immobiliare, ha ritenuto carente la sottoscrizione da parte della resistente di un atto di contenuto tale da evidenziare una volontà abdicativa, osservando che l’istanza presentata al Comune nel 1990 non conteneva alcuna menzione della trasformazione del balcone in due finestre o della chiusura delle aperture preesistenti e che non sussisteva alcun elemento che confermasse che i grafici depositati dal consulente dei ricorrenti si riferissero ai lavori intrapresi nel 1990 e alla relativa comunicazione, valorizzando in proposito le contestazioni sollevate dalla C. in replica alle deduzioni del c.t.p., nonchè il fatto che gli originali erano andati distrutti da un incendio.
Nel sottolineare la necessità che la documentazione fosse valutata alla luce delle dichiarazioni rese dalle parti in giudizio (come riportate nei verbali di sopralluogo), dell’assenso degli altri condomini alle trasformazioni delle aperture e delle risultanze dei grafici, il ricorso finisce per presupporre proprio ciò che la sentenza ha invece ritenuto di escludere, ossia che i suddetti grafici fossero riferibili ai lavori eseguiti nel 1990 o che attestassero la chiusura delle aperture da epoca anteriore al ventennio.
Non è ravvisabile alcuna insuperabile illogicità della sentenza per aver dato atto del deposito della comunicazione del 1990, negando – contestualmente – ogni correlazione con quanto risultante dai grafici, avendo la Corte distrettuale evidenziato in modo logico le ragioni che, a suo giudizio, deponevano nel senso di escludere il perfezionamento di una rinuncia alla servitù, conclusione cui è pervenuta sulla base degli indicati elementi di giudizio.
Resta in ogni caso che l’accertamento in merito all’idoneità della richiesta di concessione edilizia ad integrare una rinuncia al diritto di servitù costituisce tipico accertamento del giudice di merito, che, nel caso in esame, resta incensurabile in quanto adeguatamente motivato.
Quanto – infine – all’asserita valenza confessoria delle dichiarazioni rese dai difensori delle parti, il ricorso non solo non ne riporta quantomeno per sintesi – il contenuto, in violazione del principio di specificità dell’impugnazione, ma non tiene conto, inoltre, che la sentenza ha dato atto che i difensori della resistente avevano contestato proprio la riferibilità dei grafici alla comunicazione di inizio lavori e alla relativa concessione, negando quantomeno per implicito – con accertamento riservato al giudice di merito (Cass. 3524/1985; Cass. 1133/1974) – che le relative dichiarazioni avessero valenza confessoria.
3. Il terzo motivo denuncia la violazione dell’art. 2697 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, contestando alla Corte di merito di aver travisato il contenuto dell’atto di appello, diretto a contestare che il giudice di primo grado aveva ordinato la rimozione di un solo cavo elettrico, mentre andava riconosciuta a favore dei ricorrenti la servitù di elettrodotto, essendo tutti gli impianti e i cavi posizionati in loco da tempo immemorabile, come era dimostrato dalla vetustà degli impianti stessi e dall’avvenuta elettrificazione dei luoghi da epoca anteriore al ventennio.
Il motivo è infondato.
Non è ravvisabile alcuna violazione del criterio formale dell’onere della prova, considerato che la resistente, nel richiedere la rimozione dei cavi elettrici dalla parete esclusiva e nel proporre, quindi, un’actio negatoria servitutis, era tenuta a provare esclusivamente il proprio titolo di acquisto relativamente all’immobile abusivamente asservito (Cass. 8694/2019; Cass. 472/2017; Cass. 9449/2009; Cass. 1409/2007).
La contraria deduzione dei ricorrenti, diretta a far valere l’acquisto per usucapione del diritto a mantenere i cavi, sostanziava un fatto impeditivo per l’accoglimento della domanda, che essi stessi erano tenuti a dimostrare secondo il criterio sancito dall’art. 2697 c.c..
Nessun rilievo può assumere il fatto che la Corte abbia ritenuto irrilevante la condizione dei luoghi, la vetustà degli impianti o l’epoca di realizzazione della linea elettrica, competendo al giudice di merito valutare la portata delle prove, con apprezzamento non censurabile con riferimento all’art. 2697 c.c., norma che si limita ad individuare i criteri di riparto dell’onere della prova in base alla scissione della fattispecie tra fatti costitutivi ed eccezioni, senza involgere anche la valutazione degli elementi di convincimento acquisiti al processo (Cass. 13395/2018; Cass. 15107/2013).
La riscontrata carenza di prova dell’esistenza dei cavi e degli impianti da oltre un ventennio (cfr. sentenza, pag. 13) rendeva – infine irrilevante l’apparenza delle opere destinate all’esercizio della servitù, non potendo tale requisito, da solo, determinare l’acquisto del diritto a titolo originario.
4. Il quarto motivo denuncia la violazione degli artt. 100,112 e 161 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, per aver la sentenza d’appello confermato l’ordine di rimozione delle piante a confine con la parete esclusiva, dissimulando il reale contenuto della c.t.u. ed in contrasto con la pronuncia del tribunale pur in assenza di appello incidentale, dato che il consulente aveva rilevato solo la presenza di uno sterrato sul quale erano presenti essenze erbacee, ma non anche fenomeni di infiltrazione o la presenza di fioriere che potessero danneggiare l’immobile e pertanto, la sentenza di secondo grado, non considerando che il danno lamentato era solo potenziale, avrebbe adottato una condanna assunta in carenza di un interesse attuale e non suscettibile di esecuzione.
Il motivo non può essere condiviso.
Come ha chiarito il giudice d’appello, già il tribunale – in base alle risultanze della consulenza tecnica – aveva ordinato la rimozione delle piante collocate in corrispondenza della parete esclusiva (cfr., sentenza, pag. 13).
La pronuncia d’appello, oltre a confermare l’ordine di rimozione, ha condiviso integralmente le motivazioni della sentenza di primo grado, senza affatto incorrere nel vizio di ultrapetizione, dato che, come evidenziato dalla pronuncia, proprio dagli accertamenti svolti in primo grado (poi fatti propri dal Tribunale) era emersa la presenza di essenze erbacee – visibili negli allegati fotografici – individuate quali verosimile la causa non già di futuri ed eventuali fenomeni di umidità, ma di infiltrazioni di umido che il giudice di merito ha ritenuto (in fatto) già sussistenti, per quanto ricondotti in via presuntiva – sotto il profilo eziologico – alla presenza delle piante a ridosso della parete (cfr., sentenza, pag. 13).
La ritenuta sussistenza dei fenomeni di umidità rendeva attuale l’interesse della resistente ad ottenere l’eliminazione delle piante nonchè perfettamente eseguibile la successiva sentenza di condanna.
Seguono rigetto del ricorso, con aggravio di spese secondo soccombenza.
Si dà atto che sussistono le condizioni per dichiarare che i ricorrenti sono tenuti a versare l’ulteriore somma a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, se dovuto.
PQM
rigetta il ricorso principale e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali, pari ad Euro 200,00 per esborsi ed Euro 3000,00 per compenso, oltre ad iva, c.p.a. e rimborso forfettario delle spese generali in misura del 15%.
Dà atto che sussistono le condizioni per dichiarare che i ricorrenti sono tenuti a versare l’ulteriore somma a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 25 febbraio 2020.
Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2020
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