Corte di Cassazione, sez. I Civile, Sentenza n.213 del 09/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 5385/2014 proposto da:

Comune Montoro Superiore, in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Giovannangelo De Giovanni, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

R.F., elettivamente domiciliato in Roma, Via Del Gesù 62, presso lo studio dell’avvocato Visone Lodovico, rappresentato e difeso dagli avvocati Pagano Alessandro, Tozzi Silvano, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2528/2013 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 19/06/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/11/2019 da Dott. IOFRIDA GIULIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO ALBERTO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Napoli, con sentenza n. 2528/2013, depositata in data 19/6/2013, – in controversia concernente opposizione alla stima ex art. 54 T.U.E. promossa da R.F., nei confronti del Comune di Montoro Superiore, in relazione ad un terreno, di complessivi mq 5000, di cui il primo risultava livellario, essendo concedente l’Arciconfraternita dello Spirito Santo in Aterrana, oggetto di un duplice intervento di esproprio del Comune per la realizzazione del P.I.P. ***** (approvato nel 2004), terreno occupato d’urgenza, per iniziali mq 1900, con verbale di immissione in possesso del 2005, con decreti di esproprio intervenuti nel 2008 ed nel 2009, ha determinato l’indennità di espropriazione e di occupazione, in Euro 78.876,87 ed in Euro 25.376,00, rispettivamente, per il mappale n. *****, in Euro 2.069,37 ed in Euro 625,56, rispettivamente, per il mappale n. *****, in Euro 145.703,25, per il mappale n. 1071, ordinando al Comune il deposito, detratto quanto già versato, dei relativi importi presso la Cassa Depositi e Prestiti.

In particolare, i giudici d’appello hanno rilevato che, quanto alla legittimazione attiva del R., risultante “livellario”, in forza di contratto agrario di origine medioevale, non avendo invece egli pienamente dimostrato di essere proprietario dell’intero fondo (in difetto, nell’atto di acquisto prodotto, del 1969, di idonei riferimenti catastali ai terreni in oggetto), la stessa sussisteva, essendo riconosciuto dall’art. 963 c.c. il diritto ad agire in giudizio per ottenere la determinazione della giusta indennità di esproprio e dell’indennità di occupazione al titolare di diritto di enfiteusi ed essendo il livellario comunque titolare in via esclusiva di un diritto reale di godimento del fondo; nel merito, i terreni in oggetto dovevano essere ritenuti edificabili ed il valore, stimato dal CTU, sulla base della comparazione con atti di compravendita del 1998/2001, doveva essere fissato in Euro 43,75 alla data degli espropri (operata una media tra detta consulenza e le risultanze di altra CTU espletata in atro giudizio, avente ad oggetto altri terreni espropriati sempre per la realizzazione di area P.I.P. nel settembre 2009); la Corte, poi, ha riconosciuto il danno da esproprio parziale, trattandosi di un bene unitario che aveva determinato, in relazione alla prima espropriazione ed al mappale *****, l’azzeramento del valore del residuo mappale (essendo residuate superfici di piccole estensioni e non contigue tra loro) ed, in relazione alla seconda espropriazione, una diminuzione di valore del mappale ***** di mq 488 del 20%, a causa di maggiore difficolta di accesso e coltivazione; la Corte riteneva che non dovesse essere operato l’abbattimento del 25%, ex art. 37 T.U.E., in difetto di un intervento attuato in forza di una previsione normativa e che dovesse invece applicarsi l’aumento del 10% di cui ex art. 37, comma 2 T.U.E., essendo la modifica normativa operante per i procedimenti espropriativi in corso ed essendo i decreti di esproprio intervenuti dopo l’entrata in vigore della Novella.

Avverso la suddetta pronuncia, il Comune propone ricorso per cassazione, affidato a sette motivi, nei confronti di R.F. (che resiste con controricorso).

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il Comune ricorrente lamenta: 1) con il primo motivo, la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 34 e 54 T.U.E. in combinato disposto con gli artt. 100 e 107 T.U.E., nonchè l’insufficiente e contraddittoria motivazione, ex art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione alla ritenuta legittimazione attiva del livellario-enfiteuta, in difetto di prova sul possesso, legittimante alla surroga in luogo del proprietario-concedente; 2) con il secondo motivo, la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., nn. 1, 2 e 3, dell’art. 33 T.U.E., nonchè, ex art. 360 c.p.c., n. 5, l’omessa motivazione circa un fatto controverso decisivo, avendo la Corte d’appello accolto anche le domande accessorie relative a reliquati, integralmente occupati in via di fatto, integranti pretese risarcitorie collegate a vicende occupative acquisitive (in particolare, in relazione alle particelle 1002 e 1004, di complessivi mq 64, per le quali non intervenne alcuna rituale occupazione), incompatibili con il thema decidendum dell’opposizione alla stima, riservate alla giurisdizione del giudice amministrativo, ove fosse escluso il carattere usurpativo (che in ogni caso avrebbe determinato la competenza in primo grado del Tribunale ordinario e non della Corte d’appello in unico grado); 3) con il terzo motivo, la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 2697, 2699 e 2714 c.c. e degli artt. 115c.p.c. e ss., nonchè, ex art. 360 c.p.c., n. 5, l’omessa motivazione circa un fatto controverso decisivo, non avendo la Corte territoriale vagliato l’incidenza dei vincoli conformativi e degli standards attuativi di Piano, che implicavano l’inedificabilità ad opera di soggetti privati; 4) con il quarto motivo, la violazione o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 115 c.p.c. e ss., artt. 1227 e 2697 c.c., art. 34 T.U.E., nonchè, ex art. 360 c.p.c., n. 5, l’erronea ed insufficiente motivazione circa un fatto controverso decisivo, avendo la Corte di merito utilizzato valori, per il calcolo dell’indennità di espropriazione non documentati o contestati; 5) con il quinto motivo, la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 115 c.p.c. e ss. in relazione all’art. 2697 c.c. e art. 33 T.U.E., nonchè l’insufficiente motivazione, ex art. 360 c.p.c., n. 5, avendo la Corte di merito riconosciuto ulteriori importi indennitari per le particelle ***** occupate di fatto e illegittimamente ed irreversibilmente trasformate dall’Ente;6) con il sesto motivo, la violazione o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè ex art. 360 c.p.c., n. 5, l’insufficiente motivazione circa un fatto controverso decisivo, avendo la Corte proceduto ad un trattamento indennitario separato per i reliquati non occupati nell’ambito dell’esproprio parziale, nonchè avendo la Corte, al pari del consulente tecnico nominato, proceduto per la particella *****, rimasta in proprietà dell’espropriato, anzichè al riconoscimento del solo deprezzamento, al riconoscimento di un importo indennitario assimilabile al decremento totale di valore di detto reliquato; 7) con il settimo motivo, la violazione o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 196 c.p.c., in relazione all’art. 424 c.p.c. e art. 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., avendo la Corte d’appello respinto la richiesta di rinnovazione dell’elaborato peritale, pur non disponendo di altri elementi istruttori per giungere alla decisione.

2. La prima censura è infondata.

Assume il ricorrente che nella specie il R. non avrebbe dimostrato di esercitare effettivamente il possesso sul terreno in oggetto quale livellario-entiteuta.

L’art. 34 T.U.E. (Soggetti aventi titolo all’indennità) dispone, al comma 1, che l’indennità di esproprio spetta al proprietario del bene da espropriare ovvero all’enfiteuta, se ne sia anche possessore ed, al comma 3, che l’espropriante non è tenuto ad intervenire nelle controversie tra i proprietario e l’enfiteuta. L’art. 54 T.U.E., in tema di opposizione alla stima, stabilisce che la legittimazione attiva spetta al proprietario espropriato o al terzo che ne abbia interesse e l’art. 34, u.c. prevede che “il titolare di un diritto reale o personale sul bene…può fare valere il suo diritto sull’indennità di esproprio e può proporre l’opposizione alla stima ovvero intervenire nel giudizio promosso dal proprietario”.

L’art. 963 c.c. stabilisce, all’ultimo comma, nel caso di espropriazione per pubblico interesse, l’indennità si ripartisce, a norma del comma precedente, tra il concedente e l’enfiteuta in proporzione del valore dei rispettivi diritti.

Ora, come chiarito da questa Corte (cfr. per una ricostruzione completa, Cass. 7906/2012), le norme sulle espropriazioni per p.u., fin dalla Legge Generale n. 2359 del 1865, hanno attribuito il diritto a conseguire l’indennità per l’avvenuta espropriazione del bene esclusivamente al proprietario o, in caso di enfiteusi, all’enfiteuta (L. n. 2359 del 1865, art. 27, comma 2; art. 963 c.c., u.c.); la L. n. 865 del 1971 ha attribuito un’autonoma indennità c.d. aggiuntiva a favore del fittavolo, colono e degli altri coltivatori della terra ed ha facultato a proporre opposizione alla stima dell’indennità (art. 19) “i proprietari e gli altri interessati”, questi ultimi identificabili secondo la costante giurisprudenza di legittimità, nei titolari di diritti o pretese reali sul bene; il precedente quadro normativo è stato ribadito dall’art. 34 T.U.E. (cfr. Cass. 4320/1998, in tema di illecita appropriazione acquisitiva di un terreno concesso in enfiteusi ai fini del risarcimento del danno, spettante sia al concedente che all’enfiteuta; Cass. 4978/1977).

In ordine all’identità tra l’istituto del “livello”, di origine medioevale (in base al quale un lotto di terreno era concesso ad un contadino in cambio di un canone), e quello dell’enfiteusi e sull’applicabilità al primo della disciplina dettata dal codice civile, dovendosi ricomprendere anche il primo, al pari della seconda, tra i diritti reali di godimento, vi è un consolidato orientamento di questa Corte (Cass. 1682/1963; Cass. 9135/2012; Cass. 3689/2018).

Il ricorrente lamenta che non sia stata data dal R. prova del possesso, legittimante, a suo dire, all’opposizione alla stima l’enfiteuta, in luogo del concedente; in tale prospettazione difensiva, si confonde però il piano della legittimazione ad agire, nel giudizio di opposizione alla stima, spettante all’attore quale livellario-enfiteuta, per quanto sopra detto, avendo il R. documentato, con un atto di compravendita (dalle cui risultanze catastali emergeva l’esistenza del “livello”), la titolarità del diritto reale di godimento, sufficiente ai fini della legittimazione, con quello della prova dell’effettivo esercizio del possesso sul bene, ai fini della spettanza del diritto all’espropriazione. Inoltre, come rilevato dal P.G., il possesso si presume, ai sensi dell’art. 1143 c.c., secondo cui, quando il possessore attuale vanti un titolo a fondamento del suo possesso, si presume che esso abbia posseduto dalla data del titolo; tale disposizione generale è ispirata alla considerazione che normalmente l’acquisto della proprietà o di un diritto reale in base ad un titolo comporta anche l’acquisto del possesso (Cass. 11501/2015).

3. Anche la seconda censura è infondata.

Invero, nella specie, si verteva in un’ipotesi di espropriazione parziale, che si configura quando la vicenda ablativa investa parte di un complesso immobiliare caratterizzato da una destinazione economica unitaria e da un nesso di funzionalità tra ciò che è stato oggetto del provvedimento ablativo e ciò che è rimasto nella disponibilità dell’espropriato, cosicchè l’indennizzo riconosciuto al proprietario dal D.P.R. n. 327 del 2001, art. 33 non può riguardare soltanto la porzione espropriata, ma anche la compromissione o l’alterazione delle possibilità di utilizzazione della restante porzione del bene rimasta nella disponibilità del proprietario, in tutti i casi in cui il distacco di una parte del fondo e l’esecuzione dell’opera pubblica influiscano negativamente sulla parte residua (Cass. 20241/2016). Questa Corte ha infatti da tempo precisato (Cass. 3175/2008) che “in tema di espropriazione parziale, qualora il giudice accerti, anche d’ufficio, che la parte residua del fondo sia intimamente collegata con quella espropriata da un vincolo strumentale ed obiettivo (tale, cioè, da conferire all’intero immobile unità economica e funzionale), e che il distacco di parte di esso influisca oggettivamente in modo negativo sulla parte residua, deve, per l’effetto, riconoscere al proprietario il diritto ad un’unica indennità, che può calcolarsi o sulla base della differenza tra il giusto prezzo dell’immobile prima dell’occupazione ed il giusto prezzo (potenziale) della parte residua dopo l’occupazione dell’espropriante, ovvero attraverso la somma del valore venale della parte espropriata e del minor valore della parte residua” (conf. Cass. 1897/2014; Cass. 5442/2015).

Alla luce di tali orientamenti interpretativi, l’art. 33, comma 1 T.U.E. non detta un criterio particolare di calcolo dell’indennità nel caso di esproprio parziale, stabilendo che “nel caso di esproprio parziale di un bene unitario, il valore della parte espropriata è determinato tenendo conto della relativa diminuzione di valore”.

Nella specie, la Corte d’appello ha riconosciuto, a fronte di domanda attrice relativa anche al riconoscimento del valore delle porzioni residue divenute inutilizzabili, che, in relazione alla prima procedura di esproprio, erano residuate particelle di piccola estensione, non contigue tra loro e non utilizzabili autonomamente (p.lle *****, *****, per mq 292), il cui valore era da ritenersi azzerato (mq 292 totali x Euro 43,75, valore di mercato stimato all’epoca degli espropri) ed andava a sommarsi al valore della particella espropriata, mentre in relazione alla seconda espropriazione, il mappale residuato *****, per mq 488, doveva ritenersi deprezzato in misura pari al 20%, a causa di maggiore difficoltà di accesso e di coltivazione con mezzi agricoli, ed il minore valore (mq 488 X Euro 43,75 X 20%) andava aggiunto all’importo già individuato per il mappale espropriato.

Non vi è stato dunque riconoscimento di un risarcimento del danno per effetto di occupazione usurpativa ma liquidazione dell’indennizzo dovuto complessivamente per l’espropriazione parziale.

4. La terza censura è parimenti infondata.

Questa Corte ha da tempo precisato (Cass. 3459/2017; Cass. 19128/2006; Cass. 9891/2007) che “l’inclusione di un’area in un piano per insediamenti industriali (p.i.p.) ne implica l’acquisizione della prerogativa di edificabilità, non diversamente dall’inserimento in un piano di zona per l’edilizia economica e popolare (p.e.e.p.), anche ove l’originaria zonizzazione del piano regolatore generale ne comportasse la qualificazione come suolo agricolo: infatti, l’acquisto del carattere di edificabilità avviene in virtù della variante introdotta dal piano attuativo, che in tale parte va considerato strumento programmatorio e conformativo”.

Risulta inconferente la censura mossa dal Comune, nel corpo del terzo motivo, in relazione al fatto, asseritamente non preso in considerazione dalla Corte di merito, che sui terreni, sia pure edificabili (stante l’inclusione in zona D1 del P.R.G. destinata a nuova urbanizzazione per attività industriali), era assolutamente vietata la costruzione di edifici per fabbricati di civile abitazione, atteso che nella valutazione della Corte di merito non ha in alcun modo rilevato la destinazione urbanistica del terreno a civile abitazione, essendo ben chiaro che si trattava di terreni edificabili in quanto inseriti in un piano per insediamenti produttivi industriali o connessi all’agricoltura ed ai servizi ed al commercio (P.I.P.).

5. Il quarto motivo non merita accoglimento.

La Corte d’appello, nell’ambito del criterio di stima sintetico-comparativo, ha operato una complessiva rivalutazione del valore stimato dal consulente, Euro 40,00 al mq, sulla base di atti notarili di compravendita e dei relativi procedimenti di accertamento fiscale, intervenuti tra il 1998 ed il 2001, attualizzati al 2008-2009, date dei decreti di esproprio, e delle risultanze di altra consulenza, espletata in altro giudizio, avente ad oggetto altri terreni espropriati, sempre per area PIP, nel 2009, giungendo al nuovo valore, ritenuto congruo, di Euro 43,75 al mq.

Ora, in effetti, questa Corte (Cass. 18556/2015; Cass. 15412/2019) ha affermato che “la determinazione dell’indennità di esproprio va operata con esclusivo riferimento al valore di mercato del bene al momento dell’emanazione del decreto di espropriazione”, con la conseguente considerazione che “poichè il mercato immobiliare risente di variabili macroeconomiche diverse dalla fluttuazione della moneta nel tempo, anche se a questa parzialmente legate, e di condizioni microeconomiche dettate dallo sviluppo edilizio di una determinata zona, che sono completamente avulse dal valore della moneta, non è ammissibile l’accertamento del valore del fondo espropriato attraverso la comparazione con il prezzo di immobili omogenei, oggetto di trasferimento, in un momento diverso dalla data dell’esproprio, riportando poi il dato monetario a ritroso (o in avanti) fino a quest’ultima”.

Ma la Corte d’appello è giunta ad individuare il valore di mercato dell’area espropriata alla data dei decreti di esproprio (2008 e 2009), valore stimato in Euro 43,75 al mq, all’esito di una valutazione di tutti i dati emergenti dagli accertamenti peritali, dando atto della sostanziale erroneità del sistema della rivalutazione sulla base degli indici Istat di dati risalenti ad anni anteriori (tra il 1998 ed il 2001) e valorizzando quindi il dato emergente da altra consulenza, pacificamente utilizzabile, fondata su atti più recenti (del 2009), e relativa a terreno analogo, posto all’interno dello stesso PIP.

Non può inoltre ritenersi che la Corte d’appello si sia limitata a far proprie le conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio acriticamente, senza in alcun modo prendere in considerazione le precise e circostanziate critiche mosse dal consulente tecnico di parte alle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio (Cass. 4797/2007; Cass. 15147/2018). Peraltro, questa Corte (Cass. 13958/2006) ha chiarito che “fermo restando che, nella valutazione indennitaria del fondo espropriato per l’attuazione di piani di edilizia residenziale, occorre tener conto delle superfici necessarie alle opere di urbanizzazione (dal che consegue che tutti i terreni espropriati in ambito p.e.e.p. percepiscono la stessa indennità, calcolata su una valutazione del fondo da formulare sulla potenzialità edificatoria media di tutto il comprensorio), le questioni circa l’adozione, a fini indennitari, di determinati indici di fabbricabilità, circa lo scorporo di quote di superficie destinate a spazi pubblici e opere pubbliche e circa la detrazione degli oneri di urbanizzazione dal valore del fondo edificato, si pongono in sede di applicazione di metodi analitico-ricostruttivi, tesi ad accertare il valore di trasformazione del suolo, non anche qualora la valutazione sia condotta con il metodo sintetico-comparativo, che si avvale di una serie di riferimenti costituiti dal prezzo pagato per immobili omogenei, e dunque di indicazioni di mercato”.

6. Il quinto ed il sesto motivo, da trattare unitariamente in quanto implicanti questioni connesse, sono infondati.

Richiamato quanto già dedotto in risposta al secondo motivo, deve rilevarsi che Corte di merito ha correttamente liquidato l’indennità spettante al R., attraverso “la somma del valore venale della parte espropriata e del minor valore della parte residua”, vale a dire sommando al valore dell’intero bene prima dell’espropriazione (il solo deprezzamento subito dalla parte relitta, che tuttavia, in relazione al primo esproprio, per alcune piccole particelle (non solo quelle ***** di mq complessivi 64, indicate dal ricorrente nel corpo del quinto motivo) era pari al 100%, essendo i terreni del tutto inutilizzabili, con valore conseguentemente azzerato.

7. Il settimo motivo è inammissibile, atteso che rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di disporre indagini tecniche suppletive o integrative, di sentire a chiarimenti il consulente tecnico d’ufficio sulla relazione già depositata ovvero di rinnovare, in parte o “in toto”, le indagini, sostituendo l’ausiliare del giudice (Cass. 27247/2008). La Corte d’appello ha ritenuto non necessaria la chiesta rinnovazione della consulenza tecnica, avendo potuto decidere la controversia utilizzando le risultanze della consulenza tecnica espletata in giudizio e di altra consulenza tecnica, ritualmente acquisita, per terreni omogenei.

8.1 vizi motivazionali proposti nel corpo dei motivi sono inammissibili in quanto non formulati nel rispetto della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 Le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. 8053/2014) hanno precisato, in ordine alla portata dell’art. 360 c.p.c., n. 5 modificato, che “l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie”.

9. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

La Corte respinge il ricorso; condanna il ricorrente al rimborso delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 5.600,00, a titolo di compensi, oltre Euro 200,00 per esborsi, nonchè al rimborso forfetario delle spese generali, nella misura del 15%, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 7 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2020

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