LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –
Dott. SCOTTI Umberto Luigi – Consigliere –
Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 30811/2018 proposto da:
T.N., elettivamente domiciliato in Roma Largo Michele Unia 11 presso lo studio dell’avvocato Bonomo Rosa che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Melidoro Antonio;
– ricorrente –
contro
Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore;
– intimato –
avverso la sentenza n. 498/2018 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 16/03/2018;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio di consiglio del 24/09/2019 da Dott. FALABELLA MASSIMO.
FATTI DI CAUSA
1. – E’ impugnata per cassazione la sentenza della Corte di appello di Bari, pubblicata il 16 marzo 2018, con cui è stato respinto il gravame proposto da T.N. nei confronti del Tribunale del capoluogo pugliese. Il giudizio verte in tema di protezione internazionale.
2. – Il ricorso per cassazione si fonda su tre motivi. Il Ministero dell’interno, intimato, non ha svolto difese.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Col primo motivo è denunciata l’omessa pronuncia e l’error in procedendo in tema di protezione internazionale. Lamenta il ricorrente essere mancata la statuizione con riferimento alla domanda avente ad oggetto il riconoscimento dello status di rifugiato.
Il motivo appare infondato.
La sentenza impugnata ha rilevato che: il racconto del richiedente, che aveva riferito di essere fuggito, dopo una rapina all’esercizio commerciale di famiglia, ad opera di ribelli non meglio individuati, risultava generico e inverosimile infatti – ha spiegato -, T. non aveva saputo descrivere i luoghi in cui era occorso l’episodio, nè spiegare le ragioni della mancata presentazaione della denuncia; inoltre la ricostruzione della vicenda era stata scritta in inglese, lingua da lui non conosciuta, ma da un suo conoscente. Dopo aver rilevato che l’appellante aveva asserito, in nodo apodittico, che la sua narrazione era attendibile e che, inoltre, lo stesso ricorrente non aveva contestato la natura solo privata della vicenda, la Corte di merito ha poi puntualmente affermato che l’appello, con riguardo alle ragioni di persecuzione personale, era inammissibile.
E’ dunque escluso che sia mancata la statuizione sulle status di rifugiato: statuizione che risulta motivata avendo riguardo ai profili di non credibilità di una vicenda che, oltretutto, non evidenziava veri e propri atti persecutori.
2. – Il secondo motivo lamenta la violazione ed errata applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3. Viene dedotto che la Corte di appello di Bari avrebbe mancato di fare uso degli obblighi di cooperazione istruttoria con riferimento alla domanda di protezione sussidiaria di cui all’art. 14, lett. c) cit..
Il motivo è inammissibile.
Esso si rivolge a una rivalutazione del fatto preso in esame dalla Corte distrettuale. Va rammentato, in proposito, che l’accertamento della situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui all’art. 14, lett. c), che sia causa, per il richiedente, di una sua personale e errata esposizione al rischio di un danno grave, quale individuato dalla medesima disposizione, implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito censurabile, in sede di legittimità, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. 21 novembre 2018, n. 30105): nel caso in esame è tuttavia mancata una deduzione di omesso esame di fatto decisivo coerente con gli insegnamenti di Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053 e Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8954.
Il ricorrente si duole della mancata cooperazione istruttoria, ma nella sentenza sono indicate le fonti da cui i giudici di merito hanno attinto per formulare il giudizio circa l’insussistenza della situazione di violenza indiscriminata di cui all’art. 14, lett. c, nè, del resto, si indicano quali informazioni, diverse da quelle acquisite, si porrebbero in contraddizione col quadro descritto.
3. – Col terzo mezzo è prospettata la violazione ed errata applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32. Vi si deduce che il ricorrente avrebbe raggiunto la piena integrazione in Italia, ove ha un lavoro stabile e parla correttamente la lingua nazionale; si rileva che la condizione di povertà del ricorrente nel proprio paese lo abiliterebbe a richiedere quantomeno la protezione umanitaria.
La censura è inammissibile.
Essa mira a una revisione del giudizio di fatto formulato dalla Corte di appello, secondo cui al rimpatrio non potevano correlarsi elementi di vulnerabilità del richiedente.
4. – Non è luogo a pronunciare sulle spese processuali.
PQM
LA CORTE rigetta il ricorso; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 24 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2020