Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.246 del 09/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20116/2017 proposto da:

F.R., domiciliato in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Antonino Rossi, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’interno, Questura di Piacenza;

– intimati –

avverso la sentenza n. 425/2017 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 17/02/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 30/09/2019 da Dott. FALABELLA MASSIMO.

FATTI DI CAUSA

1. – La Corte di appello di Bologna ha respinto il gravame proposto da F.R., di nazionalità *****, avverso l’ordinanza del Tribunale di Piacenza avente ad oggetto il denegato rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari, richiesto dalla appellante in quanto coniuge di cittadino italiano. Il giudice distrettuale ha ritenuto, sulla base di diversi elementi di giudizio, che “il matrimonio (tra l’istante e un cittadino italiano) non solo non fu seguito da una stabile convivenza tra i coniugi, ma, prima ancora, venne concluso per mera convenienza, al solo fine di consentire alla odierna appellante di conseguire, quantomeno, il titolo per poter fruire di regolare soggiorno nel territorio italiano”.

2. – La sentenza della Corte emiliana, resa il 17 febbraio 2017, è impugnata per cassazione dalla predetta F. con un ricorso basato su di un unico motivo. Il Ministero dell’interno non ha svolto difese.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – La ricorrente denuncia: “Violazione e falsa applicazione in materia di t.u. immigrazione in punto di diniego del permesso di soggiorno per motivi familiari; omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. La censura si basa su plurimi rilievi da cui risulterebbe, secondo l’istante, l’erronea lettura, da parte della Corte di merito, delle risultanze processuali sottoposte al suo esame.

2. – Il motivo è inammissibile, e così il ricorso.

La pronuncia impugnata si fonda, in diritto, su due dati reputati concorrenti ma idonei, anche singolarmente, a dar ragione della impugnata decisione reiettiva. Viene in discorso, anzitutto, il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 30, comma 1 bis, secondo cui la richiesta di rilascio o di rinnovo del permesso di soggiorno dello straniero di cui al comma 1, lett. a) è rigettata e il permesso di soggiorno è revocato se è accertato che il matrimonio o l’adozione hanno avuto luogo allo scopo esclusivo di permettere all’interessato di soggiornare nel territorio dello Stato: rileva, in secondo luogo, il principio per cui il cittadino straniero che abbia contratto matrimonio con un cittadino italiano, dopo aver trascorso nel territorio nazionale il trimestre di soggiorno informale, è tenuto a richiedere la carta di soggiorno prescritta dal D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 10 restando soggetto, finchè non ottenga tale titolo, alla disciplina dettata dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 2, lett. c), e dal D.P.R. n. 394 del 1999, art. 28 in virtù della quale, ai fini della concessione e del mantenimento del permesso di soggiorno per coesione familiare, è necessario il requisito della convivenza effettiva (Cass. 7 luglio 2016, n. 13831).

Ciò posto, la censura di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3 è sollevata senza nemmeno indicare le norme di cui avrebbe dovuto predicarsi la violazione o la falsa applicazione e senza conseguentemente indicare le ragioni della doglianza. Mette conto di rammentare, in proposito, che il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ex art. 360 c.p.c., n. 3, ricorre (o non ricorre) a prescindere dalla motivazione posta dal giudice a fondamento della decisione (e, cioè, del processo di sussunzione), rilevando solo che, in relazione al fatto accertato, la norma non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata male applicata, dovendo il ricorrente, in ogni caso, prospettare l’erronea interpretazione di una norma da parte del giudice che ha emesso la sentenza impugnata ed indicare i motivi per i quali chiede la cassazione (Cass. 15 dicembre 2014, n. 26307; Cass. 24 ottobre 2007 n. 22348). In altri termini, il vizio della violazione e falsa applicazione della legge di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, giusta il disposto di cui all’art. 366 c.p.c., n. 4, deve essere, a pena d’inammissibilità, dedotto mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. 12 gennaio 2016, n. 287; Cass. 1 dicembre 2014, n. 25419; Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010).

Quanto alla censura di omesso esame di un fatto decisivo, essa è in realtà in parte diretta a un’inammissibile revisione critica del giudizio di fatto espresso dalla Corte di merito sulla scorta degli elementi di prova ad essa sottoposti (avendo specificamente riguardo alla relazione della Questura di Piacenza del 16 settembre 2015 e alla differenza di età dei coniugi: circostanze reputate entrambe irrilevanti dalla ricorrente) e in parte volta a censurare il mancato apprezzamento di una circostanza (l’identità di alcune delle persone cui era stato concesso in locazione l’alloggio sito in via *****) che non risulta decisiva, a fronte del ragionamento svolto dalla Corte di appello, che ha attribuito valore dirimente alla mancata indicazione del nome della ricorrente sul citofono dell’edificio, oltre che alla assenza di riscontri quanto alla frequentazione dell’abitazione da parte della stessa F.R..

4. – Non avendo la parte intimata svolto attività difensiva, non deve pronunciarsi sulle spese processuali.

Poichè il processo risulta esente dal contributo unificato, non trova applicazione il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

LA CORTE dichiara inammissibile il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 30 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2020

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