LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –
Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –
Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –
Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 5983/2018 proposto da:
N.M., elettivamente domiciliato in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Alessandro Praticò, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Ministero dell’interno, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1578/2017 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 15/07/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 30/09/2019 da MASSIMO FALABELLA.
FATTI DI CAUSA
1. – N.M., cittadino senegalese, domandava il riconoscimento della protezione internazionale affermando, avanti alla Commissione territoriale, di aver incontrato nel 2007 una persona che lo aveva introdotto in un gruppo di omosessuali con la prospettiva di ricavare denaro: egli aveva accettato, ma dopo tre anni era stato scoperto; aveva lasciato quindi la scuola coranica, che aveva frequentato per dieci anni, ed era tornato al proprio villaggio, ove lo zio, attraverso la radio, aveva appreso che il nipote era ricercato proprio in considerazione della sua omosessualità.
2. – A seguito del provvedimento reiettivo della Commissione, N.M. proponeva ricorso al Tribunale di Torino richiedendo il riconoscimento dello status di rifugiato e in via gradata che gli venisse concessa la protezione sussidiaria o quella umanitaria. Allegava il timore di subire un grave danno in caso di rientro in patria per le minacce o ritorsioni da parte delle autorità senegalesi, e ciò in ragione della asserita omosessualità.
Il Tribunale respingeva la domanda.
3. – Proposto gravame, la Corte di appello di Torino pronunciava, in data 15 luglio 2018, sentenza con cui l’impugnazione era respinta.
4. – N.M. ricorre per cassazione contro tale pronuncia facendo valere tre motivi. Il Ministero dell’interno resiste con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Col primo motivo è dedotta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 1, e comma 3 e comma 5, lett. a), c), e), e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, commi 2 e 3, per avere la Corte di appello: applicato in non modo corretto le norme sull’onere della prova e sulla valutazione di credibilità del richiedente la protezione internazionale, alla luce dei parametri fissati in tali disposizioni; violato il principio di diritto enunciato dalla Corte di giustizia nella sentenza 2 dicembre 2014, C-148/13 secondo cui l’art. 4.3 dir. 2004/83, recepito con il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, e l’art. 13.3, lett. a), dir. 2005/85 recepito con il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 13, ostano a che le dichiarazioni circa l’orientamento sessuale dell’interessato siano ritenute non credibili per non essere state fatte valere tempestivamente allo scopo di chiedere la protezione internazionale; non aver disposto l’interrogatorio libero del richiedente appellante, atto necessario per valutarne la credibilità; omesso di esaminare le specifiche argomentazioni contenute nei motivi di appello e nella comparsa conclusione in ordine al giudizio di attendibilità.
Il secondo motivo denuncia l’omesso esame di fatti decisivi e la carenza di motivazione.
I due motivi, che sono svolti unitariamente, evidenziano come, avendo il giudice formulato rilievi di inattendibilità con riferimento alle precedenti audizioni, vi era la necessità di procedere a un nuovo interrogatorio del richiedente. Viene inoltre dedotto che non poteva attribuirsi rilievo significativo alla mancata immediata proposizione della domanda di protezione internazionale, in considerazione della naturale ritrosia dell’istante nel manifestare il proprio orientamento sessuale nel modulo presentato agli uffici della Questura. E’ lamentato che la Corte di appello abbia dubitato della genuinità delle dichiarazioni del ricorrente relative alla sua omosessualità sulla base di “sensazioni” meramente soggettive e su semplici congetture e si rileva, inoltre, come le considerazioni critiche svolte in sentenza a fondamento della affermata non credibilità del racconto non siano state contestate al richiedente asilo. Le censure si rivolgono, quindi, ai vari passaggi della sentenza in cui sono indicati i profili di genericità, inverosimiglianza e contraddittorietà della narrazione.
2. – I motivi in discorso appaiono, nel complesso, infondati.
Non è qui in questione l’inosservanza all’obbligo da parte del Tribunale di procedere all’audizione del richiedente (obbligo che non è peraltro assoluto, secondo quanto precisato da Corte giust. UE 26 luglio 2017, C-348/16, Moussa Sacko e, sulla scorta di tale arresto, da Cass. 28 febbraio 2019, n. 5973). Nella fattispecie il giudice di primo grado ha infatti pacificamente provveduto all’interrogatorio del richiedente.
Una rinnovazione dell’incombente avanti alla Corte di appello non era d’altro canto imposta da alcuna disposizione di legge. In particolare, deve escludersi che il giudice di secondo grado sia tenuto a disporre un nuovo interrogatorio in presenza della rilevata inattendibilità del racconto: se è incontestabile che la Corte di appello possa procedervi, è altrettanto certo che la relativa scelta sia rimessa al suo prudente apprezzamento, insindacabile in sede di legittimità.
In base al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, le lacune probatorie del racconto del richiedente asilo non comportano necessariamente inottemperanza al regime dell’onere della prova, potendo essere superate dalla valutazione che il giudice del merito è tenuto a compiere delle circostanze indicate alle lettere da a) ad e) della citata norma (per tutte: Cass. 29 gennaio 2019, n. 2458; Cass. 10 luglio 2014, n. 15782). In tal modo, la disposizione consente di conferire eccezionalmente valore probatorio alle dichiarazioni della parte pro se, e non contra se, ma subordinatamente al positivo riscontro degli indici sopra indicati; viene quindi in discorso un apprezzamento, rimesso al giudice, quanto al valore che, in base a tali indici, possa attribuirsi alle dichiarazioni rese.
Tanto detto, la rilevata inattendibilità del narrato non impone al giudice di appello di provvedere a una nuova audizione del richiedente: e ciò proprio in quanto la nominata inattendibilità è idonea, da sola, a privare di valore probatorio le dette dichiarazioni. Certamente il detto giudice può ritenere opportuno, in base alle circostanze, disporre una nuova audizione del richiedente: ma in tal caso, come osservato in diverse occasioni da questa Corte con riguardo ad altre attività processuali cui il giudice non è obbligatoriamente tenuto, viene in questione l’esercizio di un potere che involge un giudizio di mera opportunità, il quale non può formare oggetto di censura in sede di legittimità, neppure sotto il profilo del difetto di motivazione (così, ad esempio, con riferimento alla rinnovazione dell’esame testimoniale: Cass. 20 aprile 2010, n. 9322; Cass. 1 agosto 2002 n. 11436).
Nè conta che il giudizio sulla non credibilità possa essere censurato, in sede di legittimità (nei limiti che infra si preciseranno):
nel caso, infatti, in cui una doglianza vertente su tale apprezzamento fosse fondata, la cassazione si imporrebbe per il vizio che affligge il giudizio di inattendibilità, e non per la mancata audizione dell’interessato da parte del giudice del gravame (incombente, questo, che è del tutto privo di autonomo rilievo).
Manca poi di decisività il rilievo fondato sull’asserita irrilevanza del ritardo con cui il richiedente avrebbe posto il suo orientamento sessuale a fondamento della domanda di protezione internazionale: è sufficiente osservare che non è questo l’unico profilo della vicenda, rilevante a norma dell’art. 3, comma 5, cit., che la Corte di appello abbia preso in considerazione: è anzi da considerare che il giudice del gravame ha mostrato di reputare assorbenti, ai fini del giudizio di inattendibilità del narrato, altro aspetto, e cioè le contraddizioni che presentava il racconto di N. (cfr., in proposito, il primo capoverso della pag. 9 della pronuncia). Il richiamo dell’istante a Cass. 29 dicembre 2016, n. 27437 non appare del resto concludente, giacchè proprio tale decisione chiarisce come, in base alla pronuncia della Corte di giustizia del 2 dicembre 2014, C-148/13, C-149/13 e C150/13 Staatssecretaris van Veiligheid en Justitie, l’art. 4, par. 3, della direttiva 2004/83 e l’art. 13.3, lett. a), della direttiva 2005/85, le autorità nazionali competenti non possano assumere che le dichiarazioni del richiedente asilo manchino di credibilità “per il solo motivo” che il suo asserito orientamento sessuale non sia stato fatto valere da tale richiedente alla prima occasione concessagli per esporre i motivi di persecuzione.
Per il resto, i due motivi di cui trattasi appaiono orientati a un inammissibile riesame del giudizio di non credibilità che la Corte di merito ha dettagliatamente argomentato. Si ricorda, in proposito, che la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, il D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma. 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, o come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (Cass. 5 febbraio 2019, n. 3340). L’istante ha per la verità dedotto che la Corte di appello avrebbe omesso di prendere in considerazione talune circostanze: ma la doglianza si risolve nella sollecitazione di un riesame del merito, giacchè il giudizio di inattendibilità è stato formulato, volta per volta, in modo sintetico, senza quindi procedere all’elencazione di tutti gli elementi delle singole fattispecie, ma conferendosi rilievo assorbente a quelli, di essi, che, in base a una valutazione qui non sindacabile, sono apparsi più rappresentativi delle rilevate incongruenze.
3. – Il terzo motivo denuncia la violazione del D.Lgs. n. 115 del 2002, art. 136, comma 3 e il difetto assoluto di motivazione per manifesta carenza e illogicità. La doglianza investe la statuizione della sentenza impugnata avente ad oggetto la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato e si basa sulla rilievo per cui detta revoca presuppone, oltre all’elemento oggettivo della soccombenza, anche quello soggettivo, costituito dalla malafede o dalla colpa grave; viene rilevato che la sentenza, in nessuno dei suoi passaggi argomentativi aveva dato conto della malafede o della colpa grave imputabili al ricorrente.
4. – La doglianza è inammissibile.
La revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato adottata con la sentenza che definisce il giudizio di appello, anzichè con separato decreto, come previsto dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136, non comporta mutamenti nel regime impugnatorio che resta quello, ordinario e generale, dell’opposizione ex art. 170 della stesso decreto dovendosi escludere che la pronuncia sulla revoca, in quanta adottata con sentenza, sia, per ciò solo, impugnabile immediatamente con il ricorso per cassazione, rimedio previsto solo per l’ipotesi contemplata dall’art. 113 del D.P.R. cit. (Cass. 8 febbraio 2018, n. 3028; Cass. 6 dicembre 2017, n. 29228).
5. – Il ricorso è dunque rigettato.
6. – Segue, in base al principio di soccombenza, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
PQM
La Corte rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.100,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della la Sezione Civile, il 30 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2020