LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –
Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –
Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –
Dott. D’ARRIGO Cosimo – Consigliere –
Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 1387/2018 R.G. proposto da:
C.L., rappresentato e difeso dall’Avv. Maria Di Bartolomeo;
– ricorrente –
e
contro
Provincia di Ancona, rappresentata e difesa dagli Avv.ti Claudia Domizio e Giovanni Bonaccio, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, piazzale Clodio, n. 56;
– controricorrente –
e
contro
Ambito Territoriale di Caccia Ancona 1 – A.T.C. AN 1, rappresentato e difeso dall’Avv. Giorgio Benedetti, con domicilio eletto in Roma, via Cicerone, n. 28, presso lo studio dell’Avv. Carmine Stingone;
– controricorrente –
e nei confronti di Regione Marche;
– intimata –
avverso la sentenza del Tribunale di Ancona n. 860/2017, depositata il 23 maggio 2017;
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 3 ottobre 2019 dal Consigliere Emilio Iannello.
RILEVATO
che:
1. C.L. convenne in giudizio davanti al Giudice di pace di Fabriano la Regione Marche chiedendo la condanna al risarcimento del danno riportato della propria autovettura in seguito allo scontro con un capo di fauna selvatica occorso in data 15/6/2012 lungo la Strada Provinciale 16/2. Avendo la convenuta eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva, assumendo che la gestione della fauna selvatica spettasse, nella zona, alla Provincia di Ancona, il contraddittorio fu esteso, iussu iudicis, nei confronti di quest’ultima e, successivamente, per analoga dinamica processuale, anche nei confronti dell’Ambito Territoriale di Caccia Ancona 1 – A.T.C. AN 1.
All’esito dell’istruttoria condotta, il giudice adito, con sentenza del 9/3/2015, in accoglimento della domanda, condannò la Provincia di Ancona e la Regione Marche al pagamento, in favore dell’attore, a titolo di risarcimento del danno, al netto della percentuale attribuita a concorso di colpa del danneggiato, rispettivamente delle somme di Euro 1.260 e di Euro 1.150.
2. In accoglimento dell’appello interposto dalla Provincia, il Tribunale di Ancona, con la sentenza in epigrafe, in totale riforma della decisione di primo grado, ha rigettato la domanda, condannando l’attore/appellato a rimborsare a ciascuna delle altre parti le spese di entrambi i gradi del giudizio.
Premesso che la pretesa risarcitoria era stata dedotta in domanda ed accolta dal primo giudice a titolo di responsabilità aquiliana, ex art. 2043 c.c., per colpa consistita nella mancata adozione di barriere che impedissero l’attraversamento di animali selvatici e nella mancata ripulitura della vegetazione ai margini della carreggiata, ha rilevato che:
– non vi era sufficiente prova che le descritte condizioni della vegetazione interessassero la fascia pertinenziale alla strada, non potendo dunque ritenersi dimostrato “il collegamento eziologico tra l’inadempimento di un obbligo degli enti convenuti e l’evento”;
– non era stata fatta questione, in citazione, circa l’assenza di adeguata segnaletica che avvertisse del possibile attraversamento di animali, non rilevata dagli agenti;
– del resto, in ordine alla mancata collocazione di recinzioni che separassero la carreggiata dall’area boschiva, non sarebbe configurabile uno specifico obbligo.
3. Avverso tale decisione C.L. propone ricorso per cassazione affidato a due motivi, cui resistono, con controricorsi, la Provincia di Ancona e l’Ambito Territoriale di Caccia Ancona 1 – A.T.C. AN 1.
4. Essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.
CONSIDERATO
che:
1. Con il primo motivo di ricorso C.L. denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c..
Lamenta che il Tribunale ha ignorato l’intera istruttoria del procedimento di primo grado e in particolare:
– il verbale delle autorità intervenute che – afferma esplicitamente attesta che l’impatto con l’animale selvatico era avvenuto nei pressi di una curva senza visuale libera;
– le dichiarazioni degli agenti della polizia provinciale che, sentiti quali testimoni, avevano dichiarato di essere intervenuti sul posto e di aver verificato che nel tratto di strada in questione la segnaletica relativa al possibile attraversamento di animali era assente, essendo presente solamente il segnale di “strada dissestata”.
Sostiene che il ragionamento logico giuridico posto a base della sentenza d’appello è viziato poichè basato su presupposti errati, e ciò in violazione dell’art. 2697 c.c., oltre che degli artt. 115 e 116 c.p.c..
2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., in relazione alla statuita condanna alle spese nei confronti dei terzi che erano stati chiamati in causa esclusivamente per effetto delle difese prima della convenuta e poi della Provincia.
3. Il primo motivo è inammissibile, sotto diversi profili.
3.1. Va anzitutto osservato che il requisito – a pena di inammissibilità richiesto – ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, risulta, nel caso, non osservato dall’odierno ricorrente, là dove viene operato il riferimento de relato ad atti o documenti del giudizio di merito (verbale di sopralluogo, dichiarazioni testimoniali), limitandosi egli a richiamarli e a dedurne l’esito probatorio a sè asseritamente favorevole, senza invero debitamente – per la parte d’interesse in questa sede – riprodurli nel ricorso ovvero puntualmente indicare in quale sede processuale, pur individuati in ricorso, risultino prodotti; è invece al riguardo necessario che si provveda anche alla relativa individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta alla Corte di Cassazione, al fine di renderne possibile l’esame (v., da ultimo, Cass., 16/3/2012, n. 4220), con precisazione (anche) dell’esatta collocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte, rispettivamente acquisito o prodotto in sede di giudizio di legittimità (v. Cass., 23/3/2010, n. 6937; Cass., 12/6/2008, n. 15808; Cass., 25/5/2007, n. 12239; Cass., 6/11/2012, n. 19157), la mancanza anche di una sola di tali indicazioni rendendo il ricorso inammissibile (cfr., da ultimo, Cass., Sez. Un., 19/4/2016, n. 7701).
3.2. La censura di violazione della regola sull’onere della prova, poi, non è dedotta nei termini in cui può esserlo secondo Cass. Sez. U. 05/08/2016, n. 16598 (principio affermato in motivazione, pag. 33, p. 14, secondo cui “la violazione dell’art. 2697 c.c., si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni”; v. anche Cass. n. 23594 del 2017; Cass. n. 15107 del 2013).
La contestazione, peraltro generica e meramente oppositiva, attiene piuttosto al merito della valutazione operata circa l’assolvimento di tale onere e come tale impinge nel diverso piano della sufficienza e della intrinseca coerenza della motivazione adottata, non certo in quello del rispetto delle regole di riparto dell’onere probatorio.
3.3. La seconda censura, quella di violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., è priva di fondamento, in quanto non risulta articolata nel modo in cui pacifica giurisprudenza di questa Corte, anche a Sezioni Unite, lo dice deducibile.
Occorre infatti rammentare che “per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 115, è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove”” (Cass. Sez. U. 05/08/2016, n. 16598; Cass. 10/06/2016, n. 11892; Cass. 20/10/2016, n. 21238).
Devesi altresì ricordare che “se spetta indubbiamente alle parti proporre i mezzi di prova che esse ritengono più idonei ed utili, e se il giudice non può fondare la propria decisione che sulle prove dalle parti stesse proposte (e su quelle eventualmente ammissibili d’ufficio), rientra però nei compiti propri del giudice stesso stabilire quale dei mezzi offerti sia, nel caso concreto, più funzionalmente pertinente allo scopo di concludere l’indagine sollecitata dalle parti, ed è perciò suo potere, senza che si determini alcuna violazione del principio della disponibilità delle prove, portato dall’art. 115 c.p.c., ammettere esclusivamente le prove che ritenga, motivatamente, rilevanti ed influenti al fine del giudizio richiestogli e negare (o rifiutarne l’assunzione se già ammesse: v. art. 209 c.p.c.) le altre (fatta eccezione per il giuramento) che reputi del tutto superflue e defatigatorie” (Cass. n. 11892 del 2016; Cass. n. 21238 del 2016; Cass. n. 2141 del 1970).
4. Anche il secondo motivo è inammissibile, ai sensi dell’art. 360-bis n. 1 c.p.c., avendo il Tribunale deciso, sul punto in questione, in modo conforme alla giurisprudenza consolidata di questa Corte.
Risulta infatti costantemente affermato il principio secondo cui colui che attivamente o passivamente si espone all’esito del processo, oltre a conseguire i vantaggi, deve anche sopportare le eventuali conseguenze sfavorevoli che, in ordine alle spese, sono stabilite a suo carico in base al principio della soccombenza e ciò anche se si tratti di spese non rigorosamente conseguenziali e strettamente dipendenti dall’attività della parte rimasta soccombente ma derivante dagli eventuali errori in cui può incorrere il giudice nei vari gradi o nelle diverse fasi del processo, come nel caso di quelle che vengono sopportate da coloro che sono chiamati a partecipare al giudizio quali terzi evocati per ordine del giudice, ancorchè rivelatosi successivamente ingiustificato: solo in tal modo, infatti, rimane efficacemente salvaguardato il fondamentale diritto di difesa delle parti che vengono, anche se ingiustamente, chiamate in giudizio. (Cass. 19/04/2006, n. 9049; Cass. 19/04/2006, n. 9049; 26/02/2007, n. 4386; 11/04/2013, n. 8886).
5. Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13.
PQM
dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida, per ciascuno, in Euro 1.400 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, L. 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, il 3 ottobre 2019.
Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2020
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