LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANZON Enrico – Presidente –
Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –
Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –
Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –
Dott. FICHERA Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Sul ricorso iscritto al n. 11307 del ruolo generale dell’anno 2013 proposto da:
Filinord di G.A. e C. s.a.s., (già Filinord di B.A. & C. s.a.s.), in persona del legale rappresentante pro tempore, A.G., A.B., M.G., rappresentati e difesi, per procura speciale a margine del ricorso, dagli Avv.ti Alberto Marcheselli e Raimondo Fulcheri, elettivamente domiciliati in Roma, via Mariana Dionigi, n. 29, presso lo studio dell’Avv. Marina Milli;
– ricorrenti –
contro
Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è
domiciliata;
– controricorrente –
per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale del Piemonte, n. 184/36/2013, depositata in data 7 novembre 2013;
udita la relazione svolta nella Camera di Consiglio del 14 novembre 2019 dal Consigliere Giancarlo Triscari.
RILEVATO
che:
dalla esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva emesso nei confronti di Filinord di B.A. & C. s.a.s. (ora Filinord di G.A. e C. s.a.s.) un avviso di accertamento con il quale, relativamente all’anno di imposta 2003, aveva rettificato il reddito di impresa avendo recuperato a tassazione costi per operazioni inesistenti; anche nei confronti dei soci erano stati emessi rispettivi avvisi di accertamento per il recupero pro quota del reddito di partecipazione; avverso i suddetti atti impositivi i contribuenti avevano proposto separati ricorsi che, previa riunione, erano stati rigettati dalla Commissione tributaria provinciale di Biella; avverso la pronuncia del giudice di primo grado i contribuenti avevano proposto appello;
la Commissione tributaria regionale del Piemonte ha rigettato gli appelli, in particolare ha ritenuto che: l’ufficio aveva assolto al proprio onere di provare la sussistenza dei fatti costitutivi della pretesa, mentre i contribuenti non avevano assolto al proprio onere di dare prova contraria, in particolare relativamente al fatto che la fattura n. ***** corrispondeva ad una reale operazione negoziale; non trovava applicazione al caso di specie, la previsione di cui al D.L. n. 16 del 2012, art. 8; non sussisteva, con riferimento all’Iva, la prova della buona fede dei contribuenti;
avverso la pronuncia del giudice del gravame hanno proposto ricorso la società ed i soci affidato a cinque motivi di censura, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate depositando controricorso.
CONSIDERATO
che:
con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, degli artt. 24 e 111 Cost., per avere dato rilevanza probatoria alla sola dichiarazione scritta resa da S.M. (titolare della partita iva che aveva emesso la fattura) mentre, la stessa, poteva assumere rilevanza solo come argomento di prova, di per sè sola non idonea a costituire il fondamento della decisione;
con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione delle medesime previsioni normative già indicate in sede di primo motivo di ricorso, sotto il diverso profilo della diversa rilevanza probatoria attribuita alla dichiarazione di S.M. rispetto a quella resa da tale T., agente di commercio, avendo solo per questa ultima ritenuto necessario il supporto di ulteriori elementi di prova;
i motivi, che possono essere esaminati unitariamente, in quanto attengono alla questione dei limiti di rilevanza della dichiarazione di terzi nel processo tributario, sono infondati;
in tema di rilevanza, nel processo tributario, della dichiarazione rese da terzi, questa Corte ha precisato che, il divieto di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, si riferisce alla prova testimoniale da assumere con le garanzie del contraddittorio e non implica, pertanto, l’impossibilità di utilizzare, ai fini della decisione, le dichiarazioni che gli organi dell’amministrazione finanziaria sono autorizzati a richiedere anche ai privati nella fase amministrativa di accertamento che, proprio perchè assunte in sede extraprocessuale, rilevano quali elementi indiziari che possono concorrere a formare, unitamente ad altri elementi, il convincimento del giudice” (Cass. civ., 16 maggio 2019, n. 13174; Cass. civ., 7 aprile 2017, n. 9080);
si è, al riguardo, precisato che tali dichiarazioni hanno il valore probatorio proprio degli elementi indiziari e, qualora rivestano i caratteri di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729 c.c., danno luogo a presunzioni (Cass. civ., 20 aprile 2007, n. 9402);
infatti, dal divieto di ammissione della prova testimoniale non discende la inammissibilità della prova per presunzioni, ai sensi dell’art. 2729 c.c., comma 2, secondo il quale le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova testimoniale, poichè questa norma, attesa la natura della materia ed il sistema dei mezzi di indagine a disposizione degli uffici e dei giudici tributari, non è applicabile nel contenzioso tributario (Cass. civ., 23 ottobre 2066, n. 22804; Cass. civ., 21 gennaio 2015, n. 960);
con riferimento alla fattispecie, il giudice del gravame ha dato rilevanza alla dichiarazione resa da S.M., titolare della partita Iva corrispondente a quella indicata nella fattura *****, che ha negato di avere intrattenuto rapporti commerciali con la società contribuente e disconosciuto qualsiasi operazione effettuata a nome e per conto della stessa;
non correttamente, tuttavia, parte ricorrente deduce che la rilevanza probatoria è stata attribuita alla suddetta dichiarazione senza valutare la gravità, precisione e concordanza della medesima alla luce di ulteriori elementi indiziari;
nella motivazione censurata si è evidenziato che la società contribuente non aveva provato di avere effettivamente provveduto al pagamento della fornitura e, inoltre, che la stessa aveva dichiarato espressamente che la propria contabilità era inattendibile: è, dunque, alla luce del complessivo quadro indiziario, consistente in una totale inattendibilità della documentazione contabile e di una assenza di prova dell’effettuazione del pagamento che il giudice del gravame ha ritenuto di dovere valutare la rilevanza probatorio della suddette dichiarazione stragiudiziale;
è in questo quadro che si inserisce la valutazione del giudice del gravame di non idoneità delle dichiarazioni stragiudiziali rese dal T., in quanto le stesse, diversamente da quelle rese da S.M., non avevano avuto alcun elemento di riscontro probatorio, sicchè non sussiste alcuna violazione del diritto di difesa e di parità del regime del regime probatorio tra le diverse dichiarazioni stragiudiziali in esame;
in sostanza, mentre per le dichiarazioni rese da S.M. il giudice del gravame le ha ritenuto attendibili alla luce del complessivo quadro indiziario, sopra rappresentato, quelle del T. sono state ritenuto prive di sufficienti elementi di riscontro, con una valutazione non sindacabile in questa sede;
con il terzo motivo di ricorso si censura la sentenza per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 41bis e 42, dell’art. 2697, c.c., del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, nonchè del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 19 e 54, e del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 20;
in particolare, si censura la sentenza: per avere ritenuto che la mancata prova del pagamento della fattura aveva incidenza sulla determinazione del reddito di impresa; per non avere riconosciuto il diritto alla detrazione dell’Iva nel caso in cui l’operazione sia stata effettuata da un soggetto diverso da quello che ha emesso la fattura, dovendosi riconoscere l’estraneità della società a qualsiasi intento evasivo;
il motivo è infondato;
la questione relativa al mancato pagamento della fattura è stata indicata dal giudice del gravame, come detto, nell’ambito della valutazione del complessivo quadro indiziario posto alla sua attenzione, al fine di accertare se l’operazione di cui alla fattura era stata effettivamente eseguita, sicchè ha ritenuto che i costi non fossero deducibili in quanto l’effettività dell’operazione non era stata provata e, sotto tale profilo, la mancanza del pagamento ha costituto uno dei elementi indiziari sulla cui base ha ritenuto l’inesistenza della stessa;
sicchè, dal complesso degli elementi presi in considerazione il giudice del gravame ha ritenuto che i costi fossero indeducibili in quanto non relativi ad effettive operazioni, effettuando una valutazione di merito, senza esprimere una valutazione in astratto sulla deducibilità dei costi, come invece deducono i ricorrenti con il presente motivo di censura;
con riferimento, poi, alla questione della detraibilità dell’Iva, va osservato, in primo luogo, che l’affermazione dei ricorrenti, secondo cui nel nostro caso la FILINORD ha acquistato effettivamente la merce tramite l’agente T. si scontra con l’accertamento in fatto compiuto dal giudice del gravame, secondo cui il complesso degli elementi indiziari, specificamente valutati, doveva condurre a ritenere che l’operazione di cui alla fattura non era stata effettivamente realizzata, riconducendo, quindi, la fattispecie nell’ambito delle operazioni oggettivamente inesistenti; tale accertamento in fatto, consistente nella inesistenza oggettiva dell’operazione, rende priva di pregio la ragione di censura relativa al diritto delle contribuenti alla detrazione dell’Iva, tenuto conto del fatto che, secondo questa Corte, quando l’ufficio contesti al contribuente l’indebita detrazione per operazioni oggettivamente inesistenti, ha l’onere di provare che l’operazione non è mai stata posta in essere, indicandone i relativi elementi, anche in forma indiziaria o presuntiva, raggiunta la quale incombe sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate, a norma dell’art. 2697 c.c., fermo restando che tale prova non può consistere nella esibizione della fattura o nella dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento, poichè questi sono facilmente falsificabili e vengono normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (Cass. n. 5406 del 2016; Cass. n. 28683 del 2015);
esula da tale ambito, poi, la prova della cd. buona fede o della consapevolezza della partecipazione fraudolenta e ciò per l’evidente considerazione che, in tale evenienza, la parte è necessariamente a conoscenza dell’assenza di una operazione economica, di cui la fattura costituisce mera espressione cartolare di eventi non avvenuti, da cui l’inesistenza di un diritto alla detrazione;
è invece irrilevante l’esistenza di un vantaggio o di un danno all’erario poichè ciò che viene in rilievo è l’inesistenza di un diritto alla detrazione (e, dunque, il recupero di quanto indebitamente detratto) per la mancanza di una operazione economica;
pertanto, proprio in considerazione dell’inesistenza oggettiva dell’operazione, correttamente la sentenza censurata ha ritenuto che non poteva essere riconosciuto il diritto alla detrazione dell’Iva; con il quarto motivo di ricorso si censura la sentenza per violazione e falsa applicazione del D.L. n. 16 del 2012, art. 8, per non avere riconosciuto il diritto alla deducibilità del costo di cui alla fattura n. *****;
il motivo è infondato;
lo stesso, invero, non coglie la ratio decidendi della pronuncia censurata;
il giudice del gravame, dopo avere ricondotto la fattispecie nell’ambito delle operazioni oggettivamente inesistenti, ha ritenuto che la previsione di cui al D.L. n. 16 del 2012, art. 8, non potesse trovare applicazione, in quanto, secondo la suddetta previsione normativa, il riconoscimento del diritto alla deducibilità dei costi presuppone che l’operazione sia comunque riferibile a soggetti diversi da quelli effettivi, cioè che la fattispecie sia riconducibile nell’ambito delle operazioni soggettivamente inesistenti;
proprio sulla base di questa precisazione, la sentenza ha concluso per la non applicabilità della previsione normativa sopra indicata in quanto nel caso di specie la questione riguarda costi indeducibili per operazioni inesistenti;
l’ulteriore inciso, valorizzato dai ricorrenti, “per cui non sono stati ripresi a tassazione elementi positivi di redditi”, diversamente da quanto da essi sostenuto, ha una valenza rafforzativa dell’accertata natura oggettivamente inesistente dell’operazione in esame, tenuto conto del fatto che, secondo il D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 2, “Ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese o altri componenti negativi;
con il quinto motivo di ricorso si censura la sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione dell’art. 112, c.p.c., per non avere pronunciato sulla questione della violazione del contraddittorio, non avendo l’ufficio emesso un processo verbale di constatazione e concesso alla società verificata il termine per contraddire;
il motivo è fondato;
i ricorrenti, in particolare, in osservanza del principio di specificità, hanno riprodotto (vd. pag. 14 del ricorso) il passaggio, contenuto alla pag. 6, dell’atto di appello, da cui si evince che la questione della illegittimità dell’accertamento per mancata emissione del processo verbale di constatazione e per mancato rispetto del termine per contraddire era stata prospettata in primo grado e riproposta dinanzi al giudice del gravame;
su tale questione, sebbene il giudice del gravame abbia dato atto, in sede di svolgimento del processo, del fatto che tra i motivi di ricorso in primo grado era stata prospettata anche la questione del rispetto del contraddittorio, non è stata resa pronuncia, con conseguente violazione dell’art. 112, c.p.c.;
in conclusione, sono infondati i motivi di ricorso da uno a quattro, è fondato il quinto, con conseguente cassazione della sentenza impugnata per il motivo accolto e rinvio alla Commissione tributaria regionale anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte:
accoglie il quinto motivo di ricorso, rigettati i motivi da uno a quattro, cassa la sentenza impugnata e rinvia per il motivo accolto alla Commissione tributaria regionale del Piemonte, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.
Così deciso in Roma, il 14 novembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2020