Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.525 del 15/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21975-2018 proposto da:

G.M.G., elettivamente domiciliata in ROMA, V.LE DI PORTA TIBURTINA, 36, presso lo studio dell’avvocato KRISTIAN COSMI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALESSANDRO PRANDI;

– ricorrente –

contro

T.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLE MILIZIE 34, presso lo studio dell’avvocato PAOLO PANNELLA, rappresentata e difesa dall’avvocato GIUSEPPE PISTONE;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2003/2018 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 03/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 09/10/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE CRICENTI.

FATTI DI CAUSA

La ricorrente agisce quale erede della propria madre, che, con atto del 31.7.2008, ha venduto un immobile ad T.A..

La ricorrente ritenendo che l’acquirente si è resa inadempiente, non avendo corrisposto il pagamento del prezzo, l’ha convenuta in giudizio per ottenere la risoluzione per inadempimento, o, in subordine, l’annullamento del contratto per incapacità della venditrice.

L’acquirente ha contrastato questa domanda eccependo di aver pagato in contanti l’intera somma, attraverso un accordo che prevedeva l’iniziale dazione di assegni, e, poi, atteso che la venditrice non aveva un conto corrente su cui versarli, il pagamento in contanti, con restituzione degli assegni al momento dell’integrale versamento del prezzo.

Il Tribunale ha accolto la domanda ritenendo inammissibile la prova per testi sull’avvenuto versamento del prezzo in contante.

Invece, la corte di secondo grado ha ammesso la prova testimoniale, che ha dato esito positivo, nel senso che ha confermato l’avvenuto pagamento in contanti del prezzo; inoltre ha ritenuto altresì provato per presunzione tale versamento dall’essere il possesso degli assegni in capo all’acquirente.

Ricorre la venditrice con 11 motivi. V’è costituzione dell’acquirente con controricorso.

RAGIONI DLELA DECISIONE 1.- La ratio della decisione impugnata è di ritenere intanto come presunto il pagamento del prezzo in contanti, presunzione ricavata dal possesso degli assegni in capo all’acquirente, indizio del fatto che il venditore, ricevuto il pagamento in contanti, ha restituito i titoli.

In secondo luogo, la corte ha ritenuto che, essendovi un indizio di prova scritta (la restituzione degli assegni, per l’appunto), si potesse ammettere la prova testimoniale sul patto che prevedeva il pagamento in contanti e sulla esecuzione di tale patto.

Ha quindi ritenuto provato, all’esito della prova testimoniale, l’avvenuto pagamento.

2.- La venditrice ricorre con undici motivi, articolati a loro volta in altre censure.

2.1.- I primi due motivi pongono questioni connesse e possono valutarsi congiuntamente.

Con il primo motivo la ricorrente si duole del fatto che la corte di merito, occupandosi esclusivamente del pagamento del prezzo, ha omesso l’esame del contratto e della domanda di risoluzione, con ciò violando gli artt. 1277 e 1453 c.c., ciò che l’ha portata ad invertire l’onere della prova, che era a carico della acquirente, la quale doveva dimostrare di aver adempiuto pagando il prezzo.

Con il secondo motivo si lamenta violazione dell’art. 345 c.p.c., basata sulla circostanza che la corte, motivando nel senso che la restituzione degli assegni era circostanza atta a far presumere l’avvenuto pagamento del prezzo, ha posto a base della decisione un’eccezione tardivamente formulata e dunque non ammissibile.

I motivi sono entrambi infondati.

Intanto è da ribadire che la corte di merito ha ritenuto come provato il pagamento, oltre che dal risultato della prova testimoniale, altresì dalla circostanza che gli assegni erano in possesso dell’acquirente, segno che a quest’ultimo erano stati restituiti.

Ovviamente, l’apprezzamento della esecuzione del contratto (ossia del pagamento del prezzo) è conseguente alla considerazione dello stesso come fonte del rapporto. Non si può dire che la corte, occupandosi esclusivamente della esattezza dell’adempimento (e del resto quella era la domanda, essendo chiesta la risoluzione per inadempimento) non si è pronunciata sull’essere il contratto la fonte del rapporto e il titolo della domanda di risoluzione.

Ovvio che l’esame dell’esatta esecuzione implica quella dell’esistenza del titolo. Nè può dirsi fondato il secondo motivo.

Invero la deduzione secondo cui il fatto che gli assegni fossero in possesso dell’acquirente costituiva presunzione dell’avvenuto pagamento con mezzi diversi, vale a dire in contanti, non costituisce una eccezione in senso stretto, da proporre nei termini imposti dalle preclusioni processuali.

L’eccezione è pur sempre la deduzione di un fatto nuovo, utile a contrastare la pretesa avversaria, e proprio in quanto contenente un fatto nuovo che si distingue dall’argomento difensivo, il quale invece può consistere anche in nuovi motivi di difesa, purchè riferiti sempre ai fatti già emersi ed allegati (Cass. 23796/2018).

Nella fattispecie, il fatto consistente nel possesso degli assegni da parte dell’acquirente, oggi resistente, era agli atti sin dall’inizio, e la sua valorizzazione quale indizio, ossia quale elemento di presunzione dell’avvenuto pagamento, non costituisce eccezione, bensì argomento difensivo, sempre proponibile.

2.2.- Terzo, quarto e quinto motivo possono esaminarsi congiuntamente.

Infatti, vertono sulla medesima circostanza, ma diversamente valutata.

Si tratta dell’accordo con cui le parti decidono di effettuare il pagamento mediante contanti anzichè con gli assegni, che vengono dunque restituiti all’emittente.

La qualificazione di questo accordo è preliminare, posto che la ricorrente ne eccepisce la nullità per le ragioni che vedremo, ma costituisce altresì premessa necessaria per valutare gli altri motivi di ricorso (e segnatamente il sesto e il settimo) argomentati sulla premessa che si tratti di un patto aggiunto, coevo al contratto.

Va pur detto che, in realtà nè dal ricorso nè dalla sentenza emerge che le parti abbiano convenuto inizialmente un pagamento in assegni, salvo poi (o contemporaneamente) a prevedere il pagamento in denaro. Si tenga presente che solo ove il patto fosse coevo o anteriore al contratto, e di contenuto contrario, sarebbero precluse le prove orali, non così invece se la convenzione fosse posteriore. Niente di tutto questo risulta dal ricorso.

Il che conduce, di per sè la rigetto dei motivi, che presuppongono l’esistenza di un tale accordo.

In aggiunta, l’accordo con cui le parti convengono come adempiere al contratto, ossia se effettuare il pagamento in assegni o in contanti, e se sostituire gli assegni con il contante, non è un patto modificativo dell’originario contenuto contrattuale, ma un accordo che riguarda per l’appunto le modalità esecutive dell’obbligo del solo compratore di versamento del corrispettivo.

Non costituisce dunque, di per sè, un accordo che incide contenuto del contratto: il corrispettivo resta tale quale era, mentre mutano le modalità di corresponsione, che costituiscono frutto di pattuizioni accessorie, non idonee nemmeno a costituire novazione (art. 1231 c.c.).

Con la conseguenza che le pattuizioni sulle modalità di esecuzione dell’obbligo del compratore, proprio in quanto patti meramente accessori al contratto non devono rivestire la forma del contratto e possono farsi verbalmente (Cass. 419/2006), cosi che si dimostra infondato il terzo motivo che lamenta omessa dichiarazione della nullità del patto per difetto di forma Parimenti infondato è il quinto motivo che lamenta nullità, per violazione del R.D. n. 1736 del 1933, e successive modifiche, per via del fatto che qui la dazione degli assegni non sarebbe avvenuta solvendi causa, ossia utilizzando gli effetti come mezzo di pagamento, funzione alla quale sono per legge deputati, bensì con funzione di garanzia, in vista del pagamento in contanti.

In realtà, lo scopo di garanzia dell’assegno presuppone intanto che quest’ultimo rimanga nella disponibilità del creditore, fino a pagamento avvenuto, in modo che questi lo possa utilizzare per l’esecuzione in caso di inadempimento, mentre nel caso presente gli assegni erano, pacificamente, in possesso del debitore acquirente, e dunque restituiti dal prenditore; ma, soprattutto, la funzione di garanzia non può che realizzarsi mediante post datazione dell’assegno, o sua emissione in bianco, altrimenti, essendo il titolo immediatamente esigibile, non può che assolvere alla funzione di mezzo di pagamento, salvo accordo di simulazione della data di emissione con impegno del prenditore di non incassare alla scadenza impressa sull’effetto (Cass. 10710/2016).

Infine, quanto al quarto motivo, la ricorrente lamenta omessa dichiarazione di nullità della vendita, per violazione della L. n. 231 del 2007 sull’antiriciclaggio (conseguente al pagamento in contanti).

Ma, per come è evidente, si tratta di una norma che, ratione temporis, applicabile alla fattispecie, prevede una sanzione amministrativa, cosi che è escluso che si possa predicare una nullità virtuale per sua violazione, in quanto la nullità virtuale presuppone l’assenza di esplicita sanzione dell’atto o della condotta, e la possibilità di affermare la nullità come sanzione, per cosi dire, implicitamente prevista dalla disposizione violata. Ove, invece, via sia la previsione di una espressa sanzione, come quella amministrativa prevista in questo caso, è da escludersi che debba ricavarsene una diversa (nullità dell’atto) per via interpretativa, ed assunta come virtuale.

2.3- Quanto detto circa il patto sulle modalità di pagamento incide altresì sulla infondatezza dei motivi dal sesto all’ottavo, i quali presuppongono che l’accordo con cui le parti sostituiscono un mezzo di pagamento del prezzo con un altro, rientri tra i patti, di modifica del contenuto contrattuale, soggetti alle limitazioni della prova testimoniale.

Invece, per quello che si è detto (ossia che non v’è prova di un patto sulle modalità esecutive, e in che termini si sia realizzato) è da escludersi l’applicabilità di quelle norme.

Tuttavia, altre ragioni depongono per il rigetto dei suddetti motivi, e ciò a prescindere dalle fondate osservazioni del controricorrente secondo cui, trattandosi di norme poste a tutela di interessi privati, la loro violazione dà luogo a nullità relative, che vanno eccepite nella prima difesa successiva a quella di avvenuta violazione, nel caso di specie di assunzione della testimonianza (Cass. 14274/2017; Cass. 163737/2014), e ciò in ciascuna delle ipotesi indicate dal ricorrente sia di violazione degli artt. 2721 e 27126 c.c. (sesto motivo), dell’art. 2722 c.c. (settimo motivo), art. 2724 c.c. (ottavo motivo).

A parte tutto ciò, basterebbe il rigetto a tal fine del solo ottavo motivo, in quanto l’art. 2724 c.c. prevede che, in tutte le ipotesi in cui è preclusa la prova testimoniale, dunque tutte quelle in cui la ricorrente assume violazione di legge, la medesima prova è comunque ammessa quando vi sia un principio di prova per iscritto (che la corte di merito ha ritenuto sussistere nel possesso degli assegni da parte del debitore), valutazione quest’ultima insindacabile se non nei limiti dell’assoluto difetto di motivazione.

2.4.- Con i motivi nono, decimo ed undicesimo invece la ricorrente lamenta violazione di legge (artt. 246,247,116 e 2697 c.c.) quanto alla ammissione della prova testimoniale da parte di soggetto incompatibile (creditore della venditrice) ed erronea valutazione circa l’attendibilità del teste.

Quanto al primo aspetto fatto valere con il nono motivo, l’incapacità a testimoniare sussiste solo ove il teste sia portatore di un interesse che legittimerebbe una sua azione o un suo intervento in causa, e questa condizione va interpretata in senso restrittivo, valutando non l’astratto interesse del teste all’esito del giudizio, ma quello concreto, anche quando il teste sia creditore di una delle parti, situazione che non esclude la sua capacità di testimoniare (Cass. 8239/2012).

L’apprezzamento di questa incompatibilità presuppone un giudizio di fatto non sindacabile in sede di legittimità se non nei limiti di una motivazione del tutto inadeguata a giustificare l’ammissione della prova. Invece la corte di merito ha ritenuto, correttamente motivando, che il teste, pur creditore della alienante, non aveva alcun interesse concreto a deporre contro la tesi di quest’ultima, e che, semmai aveva interesse a deporre a suo favore onde impedire la efficacia della vendita e l’alienazione, da parte della sua debitrice di un bene a garanzia del debito.

Invece i motivi decimo ed undicesimo vertono sulla valutazione dell’attendibilità del teste, che è giudizio riservato al giudice di merito, il quale ha dato del suo convincimento una motivazione sufficiente (p. 5 paragrafo 5.6.) e che dunque non può essere sindacato in Cassazione.

Il ricorso va pertanto rigettato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite nella misura di 5200,00 Euro, oltre 200,00 Euro di spese generali.

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento del doppio del contributo unificato.

Così deciso in Roma, il 9 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2020

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