LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ARMANO Uliana – Presidente –
Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –
Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –
Dott. SCODITTI Enrico – rel. Consigliere –
Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 10074/2018 proposto da:
L.A., domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato ARMANDO D’IPPOLITO;
– ricorrente –
contro
P.M.D., domiciliata ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato COSIMO DELEONARDIS;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1266/2017 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 05/12/2017;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 06/11/2019 dal Consigliere Dott. ENRICO SCODITTI.
RILEVATO
che:
L.A. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Brindisi P.M.D. chiedendo la condanna al pagamento della somma di Euro 37.150,00 oltre accessori a titolo di saldo di contratto di appalto di opere ed in via subordinata a titolo di ingiustificato arricchimento. La convenuta, deducendo l’abusività dei lavori edilizi eseguiti, propose domanda riconvenzionale di restituzione degli acconti pari ad Euro 90.000,00. Il Tribunale adito accolse la domanda proposta in via subordinata, condannando la P. al pagamento della somma di Euro 34.250,00 oltre interessi, e rigettò la domanda riconvenzionale. Avverso detta sentenza propose appello la P.. Con sentenza di data 5 dicembre 2017 la Corte d’appello di Lecce, accolto l’appello per quanto di ragione, condannò l’appellato alla restituzione della somma di Euro 58.342,41 oltre interessi e revocò la condanna disposta dal Tribunale.
Osservò la corte territoriale, premesso che per una parte delle opere era stata dall’autorità comunale ordinata la demolizione in quanto abusive, che le opere legittimamente eseguite, per le quali spettava il corrispettivo contrattuale, erano pari complessivamente ad Euro 31.657,79 in base ai prezzi correnti all’epoca rispetto all’importo complessivamente pattuito. Aggiunse che non competeva il corrispettivo per le opere abusive, data la nullità del contratto di appalto avente ad oggetto opere senza concessione edilizia, e che la nullità del contratto comportava il diritto alla restituzione degli importi versati in esecuzione del contratto, sicchè l’appellato andava condannato alla restituzione di Euro 58.342,41, pari alla differenza fra la somma di Euro 90.000,00, relativa ai bonifici ricevuti dal L. come da documentazione bancaria prodotta da quest’ultimo, ed Euro 31.657,79. Osservò inoltre che non poteva essere accolta la domanda di ingiustificato arricchimento perchè il CTU aveva escluso qualsiasi incremento di valore che potesse essere correlato alla realizzazione delle opere abusive e di cui era stata ordinata la demolizione e che non poteva essere attribuita neanche la somma di Euro 857,44, quantificata dal CTU, dato che essa faceva riferimento al mero utilizzo del bene, il quale però era stato oggetto di sequestro penale.
Ha proposto ricorso per cassazione L.A. sulla base di quattro motivi e resiste con controricorso la parte intimata. E’ stato fissato il ricorso in Camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..
CONSIDERATO
che:
con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2041 e 2042 c.c., art. 115 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, nonchè omesso esame del fatto decisivo e controverso ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Osserva il ricorrente che bisognava valutare l’uso delle opere realizzate, essendo stato disposto, e non ancora eseguito, l’ordine di demolizione dopo tredici anni dalla realizzazione, e che la corte territoriale aveva omesso di considerare l’impoverimento subito dal L..
Il motivo è inammissibile. Esso attiene al giudizio di fatto in quanto si pone in termini di apprezzamento delle circostanze opposto a quello del giudice di merito, il quale ha valutato sia il profilo dell’utilizzo dell’opera (escludendone la rilevanza) sia la circostanza del mancato arricchimento. Si tratta di giudizio non sindacabile in sede di legittimità e la stessa denuncia di vizio motivazionale non è idonea a consentire tale sindacato in quanto, irritualmente, verte sui fatti che sono già stati valutati dal giudice di merito.
Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1657 c.c., art. 115 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nonchè omesso esame del fatto decisivo e controverso ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Osserva il ricorrente che il giudice di appello ha immotivatamente ritenuto che le opere di cui al primo dei tre contratti di appalto fossero abusive (si trattava invece di opere classificate dal CTU come di manutenzione straordinaria) e che il costo delle opere ritenute legittime urbanisticamente è stato stimato in base al valore di mercato anzichè in base a quello pattuito, in violazione dell’art. 1657 c.c., che prevede la determinazione del corrispettivo secondo le tariffe esistenti o gli usi in mancanza di corrispettivo pattuito.
Il motivo è inammissibile. Il primo submotivo, relativo alla natura asseritamente non abusiva delle opere del primo contratto, attiene al giudizio di fatto, ponendosi in contrasto con l’apprezzamento del giudice di merito che ha valutato solo una parte delle opere come legittime. Per tale censura vale quanto considerato a proposito del precedente motivo.
Quanto al secondo submotivo, relativo alla denunciata violazione dell’art. 1657, il giudice di merito ha fatto riferimento alle tariffe esistenti perchè ha ritenuto solo una parte delle opere suscettibili di corrispettivo contrattuale, laddove invece quest’ultimo era stato determinato dalle parti considerando il complesso delle opere. Il giudice di merito ha pertanto valutato che in relazione ad una parte limitata delle opere non fosse previsto un corrispettivo (riferito per l’appunto alla totalità delle opere) e ha dunque fatto riferimento alle tariffe esistenti. La censura resta così estranea alla ratio decidendi e dunque priva di decisività.
Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2041,1218 e 1224 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, nonchè omesso esame del fatto decisivo e controverso ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Osserva il ricorrente che il giudice di appello, pur ritenendo l’indennità dovuta un debito di valore, senza alcuna motivazione non ha riconosciuto l’importo che il CTU aveva provveduto a rivalutare all’attualità e ha stimato l’importo sulla base dei valori praticati all’epoca della loro realizzazione.
Il motivo è inammissibile. La censura è basata sull’assunto che l’importo riconosciuto al L. costituisca debito di valore in quanto avente la natura di indennità. In realtà l’importo è stato riconosciuto dal giudice di merito quale corrispettivo contrattuale e dunque debito di valuta. Anche tale censura resta estranea alla ratio decidendi.
Con il quarto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2967 e 2033 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, nonchè omesso esame del fatto decisivo e controverso ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Osserva il ricorrente che non poteva essere riconosciuto in favore della P. l’importo di Euro 90.000,00 perchè il totale delle fatture in atti ammonta ad Euro 82.352,00. Aggiunge che chi agisce in ripetizione ha l’onere di provare il versamento dell’indebito e che la P. non ha fornito una prova certa dei versamenti indebiti.
Il motivo è inammissibile. Il primo submotivo attiene al giudizio di fatto ed è inammissibile sulla base di quanto sopra osservato (peraltro verte sulle fatture, laddove invece il giudice di merito ha considerato i bonifici bancari come da documentazione bancaria). Il secondo denuncia in modo non pertinente la violazione della regola dell’onere della prova, regola che viene in rilievo laddove il fatto resti ignoto, mentre il giudice di merito ha positivamente accertato l’ammontare dei versamenti.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 e viene disatteso, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
PQM
Dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 6 novembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2020
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