Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.617 del 15/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – rel. Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26388/2018 proposto da:

A.G., domiciliato in Roma, via Circonvallazione Clodia n. 88 presso l’avv. Giovanni Arilli, rappresentato e difeso dall’avv. Carla Permetta del Foro di Perugia giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministero pro tempore;

– intimato –

avverso il decreto n. 502/2018 del 30.7.2018 del Tribunale di Perugia;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 25.10.2019 dal Consigliere Dott.ssa PAOLA GHINOY.

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Perugia rigettava la domanda proposta da A.G., cittadino nigeriano, volta ad ottenere in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato politico, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex art. 7 e ss.; in via subordinata, il riconoscimento della “protezione sussidiaria” di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14; in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 5, comma 6, (nel testo applicabile ratione temporis).

2. Il Tribunale riteneva in primo luogo che secondo le recenti ed accreditate fonti internazionali che citava, il paese di provenienza del richiedente, l'*****, a differenza di altri stati della Nigeria, non fosse attraversato da un conflitto armato in grado di produrre violenza indiscriminata tale da mettere a repentaglio l’incolumità in caso di rimpatrio. Riteneva poi che il racconto del richiedente alla Commissione territoriale forse generico e contraddittorio: con riferimento alle minacce ricevute da gruppi cultisti, riferiva che egli non aveva fornito particolari in ordine alle riunioni del gruppo, nè alle cerimonie di iniziazione. Inoltre, aveva soltanto riferito di essere stato derubato e infastidito da membri di una setta, quando comunque dalle fonti internazionali risultava una ò forte attività della stato nigeriano per la repressione dei culti segreti, tra cui l’approvazione nel 2000 da parte dell'***** di un disegno di legge finalizzato alla proibizione dei culti segreti, nel 2004 una legge sul divieto di culti segreti e sulle attività simili, e l’attività della polizia che ha proceduto ad arresti di persone di presunta appartenenza al culto *****, mentre il ricorrente non si era neppure rivolto alle autorità per denunciare la rapina e il furto subiti. Aggiungeva che quanto riferito in ordine alla prevaricazione dei membri di un culto si arrestava al livello di suggestione, rilevato anche che la protezione avverso la banda criminale era stata offerta dall’iniziale partecipazione ad un’associazione di campo cattolico degli Scout alla quale il ricorrente non si era più rivolto preferendo abbandonare il paese. I fatti riferiti non integravano un danno grave D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b) e costituivano comunque episodi di criminalità comune. Per quanto riguarda poi la protezione umanitaria, riteneva che la situazione del paese di origine non fosse idonea a costituire un’ effettiva e significativa compromissione dei diritti fondamentali inviolabili, e che quanto emergeva dal vissuto del ricorrente, che aveva descritto la situazione di precarietà economica della famiglia di origine e le difficoltà di un accidentato percorso scolastico, non costituiva sufficiente allegazione di una condizione di vulnerabilità sotto il profilo specifico della violazione o dell’impedimento dell’esercizio dei diritti umani inalienabili.

3. Per la Cassazione del decreto A.G. ha proposto ricorso, affidato a cinque motivi, cui il Ministero dell’Interno non ha opposto attività difensiva.

RAGIONI DELLA DECISIONE

4. Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione della Direttiva 2013/32 Ue del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26/6/2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale e in particolare degli artt. 12, 14, 31 e 46 letti alla luce dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Sostiene che il Tribunale ritenendo generico il racconto del richiedente avrebbe dovuto procedere a una nuova audizione dell’interessato al fine di colmare le lacune evidenziate in sede amministrativa.

5. Il motivo non è fondato.

L’obbligo di audizione dell’interessato grava esclusivamente sull’autorità amministrativa incaricatà di procedere all’esame del richiedente; ne consegue che il giudice può decidere in base ai soli elementi contenuti nel fascicolo, ivi compreso il verbale o la trascrizione del colloquio svoltosi dinanzi alla Commissione (Cass. 31/01/2019, n. 2817). La rinnovazione dell’audizione personale dell’interessato costituisce quindi una scelta discrezionale, che compete al giudice di merito operare in base alle concrete circostanze di causa e alla necessità di vagliarle anche alla luce delle dichiarazioni rese in sede di audizione.

6. Tale assunto, oltre che con i principi desunti dalla disciplina sopra richiamata, è coerente con la normativa sovranazionale, avendo la Corte di giustizia UE nella sentenza del 26 luglio 2017 resa nella causa C-348/16, affermato che “La direttiva 2013/32/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale, e in particolare i suoi artt. 12, 14, 31 e 46, letti alla luce dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, deve essere interpretata nel senso che non osta a che il giudice nazionale, investito di un ricorso avverso la decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale manifestamente infondata, respinga detto ricorso senza procedere all’audizione del richiedente qualora le circostanze di fatto non lascino alcun dubbio sulla fondatezza di tale decisione, a condizione che, da una parte, in occasione della procedura di primo grado sia stata data facoltà al richiedente di sostenere un colloquio personale sulla sua domanda di protezione internazionale, conformemente all’art. 14 di detta direttiva, e che il verbale o la trascrizione di tale colloquio, qualora quest’ultimo sia avvenuto, sia stato reso disponibile unitamente al fascicolo, in conformità dell’art. 17, paragrafo 2, della direttiva medesima, e, dall’altra parte, che il giudice adito con il ricorso possa disporre tale audizione ove lo ritenga necessario ai fini dell’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto contemplato all’art. 46, paragrafo 3, di tale direttiva”.

7. Nel caso in esame, il Tribunale ha espressamente argomentato che il rinnovo dell’audizione non si rendeva necessario in quanto, tenuto conto delle domande rivolte all’interessato dalla Commissione e in mancanza di diverse ed ulteriori allegazioni di questo con riferimento alla sua storia personale, l’audizione avrebbe costituito un’inutile ripetizione di quella già svolta davanti alla Commissione, la quale, peraltro, aveva ritenuto credibile il racconto del richiedente ed aveva rigettato la domanda per motivi di diritto, ritenendo che la stessa non fosse sussumibile nelle fattispecie per le quali è accordata la protezione.

8. Tale motivazione neppure viene adeguatamente censurata con la prospettazione di circostanze fattuali non valutate e decisive, limitandosi il richiedente a sostenere un diverso esito del procedimento valutativo che compete al giudice di merito.

9. Come secondo motivo il ricorrente deduce la violazione della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e del protocollo relativo allo Statuto dei rifugiati adottato a New York il 31 gennaio 1967 e della Direttiva numero 2004/83 CE del Consiglio del 29 aprile 2004 e lamenta che il Tribunale non abbia utilizzato tutti i mezzi a disposizione per raccogliere le prove necessarie a sostegno della domanda senza enunciare valide ragioni dirette a contrastare quanto dichiarato dal richiedente.

10. Il motivo è inammissibile.

Questa Corte ha chiarito che la domanda diretta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio (Cass. n. 19197 del 28/09/2015, n. 27336 del 29/10/2018).

Il richiedente è dunque tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, e, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo, soltanto a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora egli, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, (Cass. n. 15794 del 12/06/2019). Qualora le dichiarazioni del richiedente siano giudicate inattendibili secondo i parametri dettati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. c), ed in applicazione dei canoni di ragionevolezza e dei criteri generali di ordine presuntivo, l’accertamento di fatto così compiuto dal giudice di merito integra un apprezzamento di fatto, riservato al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nei limiti di cui al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. (v. ex multis Cass., 21/11/2018, n. 30105, Cass. 12/11/2019, n. 29279).

Nel caso, il Tribunale ha compiuto il dovuto vaglio delle dichiarazioni del richiedente, vagliandole alla luce delle informazioni relative al paese di provenienza, ritenendole non credibili e comunque inidonee ad integrare i presupposti per la protezione richiesta, sicchè la doglianza relativa alla necessità di procedere ad ulteriore cooperazione istruttoria officiosa costituisce una mera contrapposizione alla valutazione che il giudice di merito ha compiuto nel rispetto dei parametri legali e dandone adeguata motivazione, neppure censurata sotto il profilo dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

11. Come terzo motivo il ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e come quarto motivo l’omesso esame dei fatti decisivi della richiesta di protezione umanitaria e della riferita situazione di precarietà economica della famiglia di origine.

12. Il motivo non è fondato.

Questa Corte ha chiarito (v. Cass.23/02/2018, n. 4455 e, da ultimo, Cass. S.U. n. 29459, n. 29460 e n. 29461 del 13.11.2019) che il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza.

13. Il diritto non può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza, atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale.

14. Il Tribunale perugino ha argomentato che non erano state dedotte specifiche condizioni di vulnerabilità, allo scopo non essendo sufficiente la situazione di precarietà economica della famiglia di origine e la difficoltà del percorso scolastico intrapreso. A fronte quindi della situazione riferita al paese di origine, già ritenuta inidonea a configurare una compressione dei diritti umani, neppure risultavano allegate le circostanze fattuali per compiere il dovuto giudizio di comparazione in ordine alla situazione di integrazione del richiedente nel nostro paese, che neppure vengono prospettate in questa sede.

15. Come quinto motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art. 10 Cost..

16. Il motivo è infondato e non sussiste la denunciata violazione dei parametri costituzionali. Con riguardo al diritto di asilo, costituzionalmente garantito, questa Corte ha già precisato che “il diritto di asilo è interamente attuato e regolato attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti costituiti dallo “status” di rifugiato, dalla protezione sussidiaria e dal diritto al rilascio di un permesso umanitario, ad opera della esaustiva normativa di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, ed al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, cosicchè non v’è più alcun margine di residuale diretta applicazione del disposto di cui all’art. 10 Cost., comma 3" (Cass. 16362/2016; Cass.11110/2019). Il Tribunale non ha affatto negato, come pare ritenere l’istante, che la protezione umanitaria potesse trovare, in astratto, uno spazio applicativo: ha invece escluso che potesse essere in concreto riconosciuta, essendo mancata la dimostrazione di specifiche situazioni soggettive di vulnerabilità riferibili all’appellante, situazione che neppure viene specificata con riferimento ad elementi specifici nè richiami a fonti di conoscenza.

17. Segue coerente il rigetto del ricorso.

18. Non vi è luogo a pronuncia sulle spese, non avendo svolto il Ministero attività difensiva.

19. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 25 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2020

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