LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –
Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare – Consigliere –
Dott. GHINOY Paola – Consigliere –
Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –
Dott. AMATORE Roberto – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 25094-2018 r.g. proposto da:
X.L., (cod. fisc. *****), rappresentata e difesa, giusta procura speciale apposta in calce al ricorso, dall’Avvocato Marco Esposito, presso il cui studio è elettivamente domiciliata in Napoli, Via Toledo n. 106;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, (cod. fisc. *****), in persona del legale rappresentante pro tempore il Ministro;
– intimato –
avverso il decreto del Tribunale di Milano, depositato in data 12.7.2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 3/12/2019 dal Consigliere Dott. Roberto Amatore.
RILEVATO
CHE:
1. Con il decreto impugnato il Tribunale di Milano – decidendo sulla domanda di protezione internazionale ed umanitaria di X.L., cittadina della *****, dopo il diniego della commissione territoriale ha respinto la domanda così proposta dalla ricorrente, confermando, pertanto, il provvedimento reso in sede amministrativa.
Il tribunale ha, in primo luogo, precisato di dover fissare l’udienza di comparizione delle parti, in assenza della videoregistrazione del colloquio della richiedente, non avendo ritenuto, tuttavia, necessario procedere alla nuova audizione di quest’ultima.
Il tribunale ha, inoltre, ricordato che la richiedente aveva narrato: 1) di essere nata il *****, nella provincia di *****; 2) di essersi, poi, trasferita in un altro villaggio della medesima pronuncia, fino al mese di agosto del 2013; 3) di essersi nuovamente spostata a Tie Xin Quiao, fino al 25 dicembre 2014 e di essersi, infine, trasferita a Shanghai il 3 marzo 2015, prima di partire per l’Italia il 21 aprile 2015; 4) di professare la religione ***** e di aderire al culto del movimento ***** (“*****”) e di essere stata costretta a fuggire dalla Cina per il timore di essere arrestata dalla polizia in ragione del culto professato, che non era riconosciuto ufficialmente dalle autorità e che era oggetto di violenta persecuzione da parte dello Stato e del *****.
Il tribunale ha dunque ritenuto che: a) non era credibile il racconto della richiedente sia in relazione alle dichiarate ragioni di conversione alla religione ***** sia in relazione al contenuto stesso di quanto narrato, che presentava profili di intrinseca contraddittorietà e di evidente non veridicità; b) il racconto presentava, inoltre, ulteriori profili di criticità, in relazione alle dichiarazioni rilasciate dalla richiedente sui fondamenti della religione *****, di cui ella parlava in termini estremamente generici ed evidenziando, dunque, una conoscenza non approfondita dei dogmi fondamentali del culto *****; c) non era credibile neanche la riferita circostanza dell’assenza di problemi con le autorità locali, in relazione al culto professato per ben tre anni, nonostante le fonti di conoscenza evidenziassero che il movimento religioso, cui dichiarava di appartenere la richiedente, era effettivamente oggetto di violenta repressione da parte delle autorità statali cinesi; d) non poteva riconoscersi credibilità anche alle ulteriori circostanze riferite in riferimento al suo avvicinamento alla “*****” internazionale di *****, cui la ricorrente aveva dichiarato di essersi avvicinata, dopo il suo arrivo in Italia, in seguito ad una serie di incontri fortuiti con persone conosciuta per la strada; e) non era, pertanto, fondata la domanda volta al riconoscimento dello status di rifugiata nè tantomeno quella indirizzata ad ottenere la reclamata protezione sussidiaria, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 posto che la richiedente non correva il rischio, in caso di rimpatrio, di subire una condanna a morte o l’esecuzione di una condanna già emessa ovvero ancora di essere sottoposta a tortura o ad altro trattamento inumano degradante; f) la valutazione, comunque, di non credibilità del racconto escludeva in radice la possibilità di riconoscere alla richiedente la protezione sussidiaria sopra descritta; g) infondata doveva ritenersi anche la domanda di protezione sussidiaria avanzata dalla richiedente, in relazione all’art. 14, sopra ricordato, lett. c, posto che la Cina non è interessata da una situazione di violenza generalizzata e indiscriminata; h) non poteva riconoscersi neanche la protezione umanitaria, in assenza della prova di una reale condizione di vulnerabilità della ricorrente, che, sul punto qui da ultimo in esame, aveva rappresentato solo una generica situazione di inserimento sociale nel paese di accoglienza attraverso un corso di lingua italiana.
2. Il decreto, pubblicato il 12.7.2018, è stato impugnato da X.L. con ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo di censura.
L’amministrazione intimata non ha svolto difesa.
CONSIDERATO
CHE:
1.Con il primo motivo la parte ricorrente – lamentando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 11, – si duole della mancata fissazione dell’udienza di comparizione delle parti e dell’omesso ordine di comparizione personale in udienza della ricorrente, come invece richiesto espressamente dalla difesa di quest’ultima e come imposto dal disposto normativo della norma da ultimo citata, nei casi di mancanza della videoregistrazione del colloquio dinanzi alla commissione territoriale.
2. Il ricorso è infondato.
2.1 Sul punto, giova ricordare che, secondo la giurisprudenza espressa da questa Corte, nel giudizio di impugnazione della decisione della Commissione territoriale innanzi all’autorità giudiziaria, in caso di indisponibilità della videoregistrazione del colloquio, il giudice deve necessariamente fissare l’udienza per la comparizione delle parti configurandosi, in difetto, la nullità del decreto con il quale viene deciso il ricorso, salvo che il richiedente non abbia dichiarato di non volersi avvalere del supporto contenente la registrazione del colloquio (Sez. 6, Ordinanza n. 14148 del 23/05/2019).
Ne consegue che la mancanza di videoregistrazione determina l’obbligo della fissazione della udienza di comparazione delle parti e non già quello dell’audizione del richiedente.
2.1.1 Ciò posto, osserva la Corte come, in realtà, dalla lettura del provvedimento impugnato emerga, con evidenza, la circostanza secondo cui il tribunale, in assenza della videoregistrazione del colloquio, aveva provveduto a fissare l’udienza di comparizione personale delle parti, senza, tuttavia, ritenere necessaria la nuova audizione della ricorrente.
La parte ricorrente non ha contrastato efficacemente tale affermazione, deducendo, peraltro in modo generico, la sola necessità dell’audizione della ricorrente, senza chiarire in via definitiva se volesse contestare anche l’affermazione contenuta nel provvedimento impugnato relativa alla fissazione di udienza di comparizione delle parti. Ne consegue che, sotto questo ulteriore profilo, la censura risulta essere formulata in modo generico e dunque non ricevibile.
Ne consegue il rigetto del ricorso.
Nessuna statuizione è dovuta per le spese del presente giudizio di legittimità, stante la mancata difesa dell’amministrazione intimata.
Per quanto dovuto a titolo di doppio contributo, sì ritiene di aderire all’orientamento già espresso da questa Corte con la sentenza n. 9660-2019.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 3 dicembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2020