LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –
Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare – rel. Consigliere –
Dott. MELONI Marina – Consigliere –
Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –
Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 11413/2015 proposto da:
Rete Ferroviaria Italiana Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, Via Principessa Clotilde 2, presso lo studio dell’avvocato Angelo Clarizia che lo rappresenta e difende in forza di procura speciale a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
Ing. M. & C Impresa Generale Costruzioni Spa, Liquidazione Società Ing. M. & C Impresa Generale Costruzioni Spa;
– intimati –
e contro
Fintecna Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma Via Ludovisi 35, presso lo studio dell’avvocato Roberto Donnini che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Marisa Pappalardo, in forza di procura speciale in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1599/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 10/03/2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 15/10/2019 dal Consigliere dott. UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE SCOTTI.
FATTI DI CAUSA
1. Con atto di citazione notificato il 22/12/1992 la Ing. M. & c. Impresa Generale di Costruzioni s.p.a. ha convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma l’Ente Ferrovie dello Stato, ora Rete Ferroviaria Italiana s.p.a. (di seguito, semplicemente, RFI) al fine di ottenerne la condanna al pagamento della somma di Lire 2.823.300.000, relativamente a sei riserve iscritte in contabilità e rigettate dal committente relativamente all’appalto del 15/6/1981, avente ad oggetto la realizzazione dei lavori del tratto di sede ferroviaria fra i km.3+780 e 5+660 del cavalcavia di *****, prevista nell’ambito del progetto del raddoppio di linea tra le stazioni di ***** e *****.
Le Ferrovie dello Stato si sono costituite in giudizio chiedendo il rigetto delle domande attoree.
Con sentenza non definitiva n. 17736 del 15/5/2001 il Tribunale di Roma ha rigettato le richieste istruttorie dell’attrice, ha respinto le domande dell’impresa relative alle riserve n. 2 e n. 3, ha condannato la convenuta al pagamento a favore dell’attrice della somma di Lire 220.019.000 in relazione alla riserva n. 1, della somma di Lire 210.823.740 in relazione alla riserva n. 4 e di Lire 53.939.500 in relazione alla riserva n. 5, per la somma complessiva di Lire 484.782.240, oltre interessi legali.
Quanto alla riserva n. 6, ritenuta non provata, il Tribunale ha ordinato la rimessione della causa sul ruolo, disponendo consulenza tecnica d’ufficio.
La convenuta ha formulato riserva d’appello all’udienza del 12/11/2001 ed è stata espletata la disposta c.t.u.
Con sentenza definitiva n. 9972 del 4/5/2005 il Tribunale ha condannato la convenuta al pagamento dell’ulteriore importo di Euro 397.691,35, oltre interessi e spese processuali e di c.t.u.
2. RFI ha proposto appello contro entrambe le sentenze di primo grado, non definitiva e definitiva, a cui ha resistito l’appellata attrice, proponendo appello incidentale.
Nel giudizio di secondo grado è intervenuta la s.p.a. Fintecna, cessionaria del credito vantato da Ing. M. & c. s.p.a., per effetto di cessione comunicata in data 12/7/2001.
La Corte di appello di Roma, con sentenza non definitiva n. 4755 del 10/11/2011, ha accolto il gravame principale di RFI, rigettando le domande proposte da Ing. M. & c. s.p.a. con riferimento alle riserve n. 1, 4 e 5, e ha respinto il gravame incidentale dell’attrice con riferimento alle riserve n. 2 e n. 3; la Corte ha quindi disposto con separata ordinanza l’ulteriore prosecuzione del giudizio, quanto alla riserva n. 6, al cui proposito ha ritenuto necessari ulteriori accertamenti tecnici.
All’esito di tali incombenti e sulla scorta dell’espletata consulenza tecnica, con sentenza del 10/3/2014 n. 1599, ha riconosciuto all’attrice lavori extracontrattuali eccedenti il quinto d’obbligo per l’importo di Lire 419.809.832, rivalutati al prezzo di mercato e decurtato il prezzo già corrisposto, e ha conseguentemente condannato RFI a pagare la somma di Lire 333.428.731, pari ad Euro 172.200,18, oltre rivalutazione e interessi per i titoli di cui alla riserva n. 6.
3. Con atto notificato il 24/4/2015 RFI ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza definitiva n. 1599 del 10/3/2014 e, per quanto di ragione, della sentenza parziale n. 4755 del 19/10/2011, svolgendo due motivi.
Con atto notificato il 4/6/2015 ha proposto controricorso Fintecna, chiedendo la dichiarazione di inammissibilità o il rigetto dell’avversaria impugnazione.
Le parti intimate Ing. M. & C. Impresa Generale di Costruzioni s.p.a. e Liquidazione della Ing. M. & C. Impresa Generale di Costruzioni s.p.a. non si sono costituite in giudizio. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, la ricorrente denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c., error in procedendo e in iudicando, nonchè omessa motivazione, violazione e falsa applicazione della L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 344, all. F, dell’art. 1325 c.c., degli artt. 1632 c.c. e ss. in relazione all’art. 15 del Capitolato generale amministrativo di appalto, nonchè motivazione erronea e carente.
1.1. Secondo la ricorrente, la Corte territoriale era incorsa nelle indicate violazioni perchè, insorto contrasto fra le parti, committente e appaltatore, circa l’inferiorità al “quinto d’obbligo” della L. 20 marzo 1865, n. 2248, all. F, ex art. 344 delle ulteriori opere ordinate dalla committente, in difetto di nuovo accordo, l’impresa M. non avrebbe avuto alcuna alternativa tra l’eseguire le opere, senza sovraprezzi, compensi o indennità aggiuntive ovvero il chiedere la risoluzione del contratto; poichè l’appaltatore aveva comunque eseguito le opere richieste, ritenute eccedenti il quinto d’obbligo, senza chiedere la risoluzione, non poteva pretendere dalla committente il compenso di quanto eseguito a prezzi di mercato.
La Corte di appello aveva travalicato la portata della censura mossa con il motivo di appello, facendo riferimento all’art. 15, commi 2 e 4, del Capitolato generale di appalto e non già all’art. 344 legge fondamentale sui lavori pubblici, invocato dalla parte appellante.
In secondo luogo, alla luce del predetto art. 344 per il riconoscimento di ulteriori compensi in relazione ai lavori eccedenti il quinto d’obbligo sarebbe stato necessario un nuovo accordo, in concreto non intercorso.
Mancava poi completamente nella sentenza impugnata la motivazione circa il fondamento contrattuale dell’accordato compenso dei lavori sulla base dei prezzi di mercato.
Infine l’art. 15 del Capitolato generale amministrativo di appalto richiamava espressamente l’art. 344 e si limitava a specificare le modalità di determinazione del quinto d’obbligo (con l’esclusione delle opere di fondazione) senza incidere sulla regolamentazione generale delle conseguenze della richiesta dei lavori aggiuntivi.
1.2. E’ ormai accertato, in forza della sentenza definitiva di secondo grado, che RFI ha richiesto all’impresa appaltatrice lavori aggiuntivi in misura superiore al cosiddetto quinto d’obbligo, al netto della “neutralizzazione” contrattualmente pattuita con l’art. 15 del Capitolato generale amministrativo di appalto, che considerava a tal fine ininfluenti i lavori inerenti ad opere di fondazione.
Non a caso, il contrasto fra le parti era insorto circa il valore delle maggiori opere richieste all’impresa per opere di fondazione (maggiore, secondo la committente, che le valutava in Lire 659.640.000; minore, secondo l’appaltatrice, che le valutava in Lire 18.636.212); ovviamente il contrasto si ripercuoteva sull’entità del “quinto d’obbligo”, proprio perchè le richieste di maggiori lavori per opere di fondazione erano a tal fine neutralizzate dalla clausola contrattuale.
Risolta la disputa sostanzialmente in favore della tesi dell’Impresa, poichè la stima peritale delle opere di fondazione si attestava sulla somma di Lire 26.335.000 (decisamente prossima agli assunti della M.), è stato consequenzialmente accertato dalla Corte territoriale e non risulta più contestato da RFI, che anzi fonda il proprio ricorso proprio anche su tale circostanza, che il committente aveva preteso dall’impresa l’esecuzione di opere eccedenti il quinto d’obbligo.
La tesi ora proposta dalla ricorrente, fondata sul mancato esercizio da parte dell’appaltatore del diritto potestativo di chiedere la risoluzione del contratto, è che l’impresa appaltatrice non poteva pretendere dalla committente il compenso delle opere richieste ed effettivamente eseguite, pur eccedenti il quinto d’obbligo, a prezzi di mercato.
Al proposito la controricorrente Fintecna obietta le norme ex adverso invocate escludono che i lavori comunque eseguiti dall’appaltatore oltre il quinto d’obbligo possano rientrare nel contenuto del contratto originario e che per essi non spettino compensi aggiuntivi.
La controricorrente stigmatizza inoltre la fallacia degli avversari assunti secondo i quali nessun compenso sarebbe dovuto all’appaltatore che abbia, previa opportuna e inequivocabile contestazione, comunque eseguito i lavori illegittimamente ordinati dalla committente.
1.3. la Legge fondamentale sui lavori pubblici 20 marzo 1865, n. 2248, allegato F, art. 344 (abrogato dall’art. 358, comma 1, lett. a), del D.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207, come successivamente ribadito dal D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, art. 217, comma 1, lett. a)), applicabile ratione temporis, prevedeva per il caso del verificarsi in corso di esecuzione dell’appalto un aumento od una diminuzione di opere, l’appaltatore fosse obbligato ad assoggettarvisi fino a concorrenza del quinto del prezzo di appalto alle stesse condizioni del contratto, mentre al di là di questo limite egli avesse diritto alla risoluzione del contratto.
L’appaltatore ha pertanto l’obbligo di eseguire le opere richiestegli in variante dalla stazione appaltante entro il limite del quinto (in più o in meno) del prezzo di appalto, senza che gli spettino compensi o indennità aggiuntive, salvo, beninteso, il corrispettivo dei lavori corrispondenti alle richieste varianti o addizioni alle stesse condizioni del contratto originario, come chiarivano espressamente l’art. 10, comma del Regolamento recante il capitolato generale d’appalto dei lavori pubblici di cui al D.M. 19 aprile 2000, n. 145 (poi abrogato dall’art. 358, comma 1, lettera e), del D.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207) e l’art. 161, comma 12 del Regolamento di esecuzione ed attuazione del D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, recante “Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE” (a sua volta abrogato dal D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, art. 217, comma 1, lett. u), n. 2).
Tali norme espressamente puntualizzavano che la stazione appaltante durante l’esecuzione dell’appalto poteva ordinare una variazione dei lavori fino alla concorrenza di un quinto dell’importo dell’appalto, e l’appaltatore era tenuto ad eseguire i variati lavori agli stessi patti, prezzi e condizioni del contratto originario, senza diritto ad alcuna indennità ad eccezione del corrispettivo relativo ai nuovi lavori.
Tale vicenda contrattuale doveva essere letta come una mera espansione del contratto originario, che restava valido ed efficace: il principio si fondava sul presupposto che l’appaltatore con la sua accettazione di eseguire certi lavori per un determinato corrispettivo non subisse pregiudizio per la richiesta di variarne l’importo entro il limite del quinto, considerato percentuale tollerabile di scostamento in relazione alla predisposizione dell’organizzazione e delle attrezzature dell’appaltatore.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di appalto pubblico ed in applicazione della L. n. 2248 del 1865, all. F), art. 344 nonchè del D.P.R. n. 1063 del 1962, art. 14 qualora l’amministrazione appaltante richieda, in variante dell’opera appaltata, lavori diversi da quelli considerati in contratto, per un importo di oltre un quinto a quanto stabilito, la richiesta medesima non si correla ad un potere dell’amministrazione a cui corrisponda un obbligo dell’appaltatore; pertanto, l’accordo fra le parti per l’esecuzione di tale variante (a mezzo di atto di sottomissione dell’appaltatore alla richiesta dell’amministrazione o di atto aggiuntivo) deve parificarsi a quello che abbia ad oggetto lavori extracontrattuali in senso stretto e qualificarsi come nuovo ed autonomo contratto modificativo del precedente (Sez.1, 22/12/2017, n. 30915; Sez. 1, 01/08/2013, n. 18438).
Alla richiesta di lavori oltre il quinto da parte dell’Amministrazione medesima non corrisponde un obbligo dell’appaltatore, il quale, pertanto, a fronte della richiesta della committente, può scegliere se recedere dal contratto oppure proseguire i lavori, dichiarando per iscritto anche, ed eventualmente, a quali le condizioni (Sez.1, 17/08/2016, n. 17146).
1.4. Il caso verificatosi nella presente fattispecie presenta la particolarità che l’appaltatore, dopo aver contestato la pretesa, a posteriori accertata come illegittima, dell’Amministrazione, di esecuzione di ulteriori lavori eccedenti il “quinto d’obbligo”, non si è avvalso della possibilità di chiedere la risoluzione del contratto ma ha eseguito i lavori richiesti, dopo aver avvertito del proprio dissenso la committente e formalizzato apposita riserva e senza che fosse intervenuto un nuovo specifico e ulteriore accordo ad hoc sul punto (per vero difficilmente concepibile, poichè le parti dissentivano proprio sulla misura del quinto).
1.5. E’ il caso di osservare che dalla sentenza impugnata risulta che durante l’esecuzione dei lavori nel tratto *****-*****, l’Impresa aveva evidenziato che quelli eseguiti e da eseguire, secondo la richiesta variante, comportavano il superamento del quinto contrattuale e che l’Amministrazione, dissentendo da tale valutazione aveva ingiunto alla M. di proseguire i lavori, reiterando formalmente tale disposizione, con vari ordini di servizio ai sensi dell’art. 15 del Capitolato generale, all’esito di una fitta corrispondenza tra le parti, ottenendone l’esecuzione da parte dell’Impresa, che si era opposta, previa formalizzazione della riserva per cui è causa.
E’ d’uopo inoltre precisare che dalla lettura della seconda sentenza definitiva n. 1599/2014 emerge che le opere aggiuntive oggetto della riserva n. 6, in un primo tempo definite “essenzialmente di fondazione” (pag. 2), con evidente imprecisione alla luce di quanto successivamente ritenuto accertato, erano state analiticamente descritte sia in una lettera 1.7.1991 delle FFSS, sia nella riserva stessa, sia nella c.t.u. svolta in primo grado.
Nel controricorso, a pag.5, Fintecna riporta il contenuto della relazione di consulenza tecnica, che parla appunto di “opere in cemento armato per la costruzione di impalcati e opere accessorie”.
La discussione fra le parti atteneva al valore della maggior spesa per le fondazioni (contrattualmente neutralizzata ai fini della determinazione del “quinto d’obbligo”): per l’impresa quel valore era modesto, per FF.SS. era elevato; ciò ovviamente si ripercuoteva sui maggiori valori non relativi alle fondazioni che per l’Impresa era elevato e per FF.SS. modesto.
Il Consulente tecnico nominato nel giudizio di appello non si era detto in grado di fornire risposte certe circa il valore della maggiori opere di fondazione; la Corte di appello, con soluzione non più contestata in sede di legittimità, ha risolto la questione, in favore della tesi dell’appaltatore, sulla base dell’onere della prova, del principio di vicinanza della prova e del comportamento processuale di FF.SS. che si era deliberatamente astenuta dal produrre il documento su cui basava la sua difesa, offrendo di tale condotta una giustificazione giudicata implausibile.
Dalla sentenza definitiva n. 1599/2014, pag. 6, risulta che i lavori eseguiti- al netto delle maggiori spese per fondazioni – si riferivano a “opere in cemento armato per la costruzione di impalcati e opere accessorie”.
In sintesi, è possibile arguire che nella fattispecie non si trattasse affatto di lavori extracontrattuali che non avessero nulla a che vedere con quelli oggetto dell’appalto, ma di variazioni in aumento, comportanti opere aggiuntive (sulla cui natura – meliorativa o necessitata – non vi sono elementi decisivi).
Si trattava di “opere in cemento armato per la costruzione di impalcati e opere accessorie” riferibili (alla luce dei criteri di giudizio utilizzati dalla Corte) solo in minima parte a opere per fondazioni.
1.6. La tesi proposta dalla ricorrente non appare condivisibile, innanzitutto perchè è priva di idonea base letterale nel testo della L. 20 marzo 1865, n. 2248, all. F, art. 344 che limita alla soglia del quinto del valore dei lavori commissionati l’obbligo dell’appaltatore ad assoggettarsi alla variazione alle stesse condizioni del contratto e caratterizza in termini di diritto (potestativo) la facoltà dell’appaltatore di chiedere la risoluzione del contratto (e non già di onere, e tantomeno di obbligo), senza sanzionarlo, nel caso in cui non si sia avvalso della facoltà nei termini prospettati dalla ricorrente.
La conclusione raggiunta dalla Corte territoriale, d’altro canto, appare logica e coerente.
La tesi della ricorrente RFI, volta ad escludere il compenso a prezzo di mercato dei lavori ordinati “extra quinto” ed eseguiti, può reggere solo nell’ipotesi in cui l’appaltatore li abbia effettuati senza contestare l’esorbitanza dal quinto d’obbligo, in tal modo venendosi a tutelare la libertà contrattuale dell’Amministrazione alla quale non può venir imposto a posteriori il pagamento di un corrispettivo maggiore di quello contrattualmente dovuto.
Lo stesso non può dirsi allorchè, come nella fattispecie, l’appaltatore abbia recisamente, formalmente e fondatamente contestato l’ordine rivoltogli nell’esercizio dello jus variandi dell’Amministrazione, perchè comportante il superamento del quinto d’obbligo, e la committente abbia insistito per l’esecuzione dei lavori, pur essendo perfettamente consapevole dell’esistenza di contestazione sulla legittimità della sua richiesta.
In questo caso, infatti, la committente ben sa di essere esposta al pagamento a valori di mercato nel caso, verificatosi, che la sua tesi circa la valorizzazione della sua richiesta si riveli successivamente infondata.
Giova inoltre ricordare che il D.P.R. 16 luglio 1962, n. 1063, art. 14 prevedeva che l’Amministrazione durante l’esecuzione dei lavori potesse ordinare, alle stesse condizioni del contratto, un aumento o una diminuzione delle opere fino alla concorrenza di un quinto in più o in meno dell’importo del contratto stesso, senza che perciò spetti indennità alcuna all’appaltatore; che oltre tale limite l’appaltatore potesse recedere dal contratto col solo diritto al pagamento dei lavori eseguiti, valutati ai prezzi contrattuali; che raggiunti i sei quinti dell’importo contrattuale o anche prima, ove sia possibile prevedere il superamento di tale limite, l’Amministrazione ne desse comunicazione all’appaltatore, il quale, nel termine di dieci giorni, dovesse dichiarare per iscritto alla direzione dei lavori se intendeva recedere dal contratto oppure proseguire i lavori ed a quali diverse condizioni; ove l’appaltatore, dopo aver ricevuta la comunicazione di cui al comma precedente proseguisse i lavori senza chiedere nè il recesso, nè nuove condizioni, le maggiori opere si intendessero assunte alle stesse condizioni del contratto.
Analogo meccanismo è stato poi introdotto nella normativa successiva, dal D.M. n. 145 del 2000, art. 10, comma 3, e poi dal D.P.R. 5 ottobre 2010, n. 2017, art. 161, comma 13, secondo cui se la variante superava il limite il responsabile del procedimento doveva darne comunicazione all’appaltatore che doveva dichiarare per iscritto se intendeva accettare la prosecuzione dei lavori e a quali condizioni; qualora l’appaltatore non desse alcuna risposta alla comunicazione del responsabile del procedimento si intendeva manifestata la volontà di accettare la variante agli stessi prezzi, patti e condizioni del contratto originario.
In tutte queste discipline, succedutesi nel tempo, resta fermo il principio che la manifestazione di opposizione dell’appaltatore alla richiesta di variazioni oltre la soglia del quinto è sufficiente ad escludere la volontà di accettare la variante agli stessi prezzi, patti e condizioni del contratto originario e non gli preclude la possibilità di richiedere compensi aggiunti e la remunerazione a prezzo di mercato del lavoro eseguito.
1.7. La Corte di appello non ha esorbitato dalla portata della censura mossa con il motivo di appello, facendo riferimento all’art. 15, commi 2 e 4, del Capitolato generale amministrativo di appalto “delle opere che si eseguiscono dall’Azienda Autonoma delle Ferrovie dello Stato” (doc. 7/a del fascicolo di primo grado della M., il cui tenore risulta comunque dalla pagina 15 della sentenza non definitiva n. 4755 del 2011) e non già all’art. 344 Legge Fondamentale sui lavori pubblici, invocato dalla parte appellante: infatti l’art. 344 non comporta affatto le conseguenze indicate da RFI e comunque anche l’art. 15 del Capitolato faceva parte, in via di eccezione, del tema del contendere dedotto dalle parti.
L’art. 344 ridetto non afferma affatto che per il riconoscimento di ulteriori compensi in relazione ai lavori eccedenti il quinto d’obbligo illegittimamente pretesi dalla stazione appaltante sarebbe stato necessario un nuovo accordo.
1.8. Secondo la ricorrente era del tutto mancante la motivazione circa il fondamento contrattuale dell’accordato compenso dei lavori sulla base dei prezzi di mercato.
A suo parere, inoltre, l’art. 15 del Capitolato generale amministrativo di appalto richiama espressamente l’art. 344 e si limita a specificare le modalità di determinazione del quinto d’obbligo (con l’esclusione delle opere di fondazione) senza incidere sulla regolamentazione generale delle conseguenze della richiesta dei lavori aggiuntivi.
La Corte di appello, a pagina 5, in chiusura del p. 2, ha affermato il diritto dell’appaltatrice di vedersi compensare i lavori eseguiti secondo i prezzi di mercato “in base alle norme contrattuali”, che escludono solo che l’esecuzione degli stessi fosse comunque dovuta secondo la regola del quinto d’obbligo.
Infine, prosegue la ricorrente, un accordo contrattuale integrativo non vi è stato perchè, secondo le pacifiche deduzioni delle parti non vi è stato alcun accordo di volontà: la committente pretendeva che le opere fossero eseguite perchè rientranti nel quinto d’obbligo e l’appaltatrice lo negava.
1.9. Le incertezze interpretative scaturiscono dall’espressione “lavori extracontrattuali”, evidentemente “polisensica”, in quanto riferibile sia a tutto quanto non è rigorosamente previsto dal contratto, comprese le variazioni ordinate dalla committenza nell’ambito dello jus variandi che le compete, tanto nell’appalto privato quanto in quello pubblico, sia a quanto esula completamente dalle caratteristiche oggettive dell’opera commissionata.
1.9. Questa Corte, recependo le indicazioni di autorevole dottrina, ha ritenuto che in tema di appalto le nuove opere richieste dal committente costituiscono varianti in corso d’opera ove, pur non comprese nel progetto originario, siano necessarie per l’esecuzione migliore ovvero a regola d’arte dell’appalto o, comunque, rientrino nel piano dell’opera stessa e, invece, sono lavori extracontrattuali se siano in possesso di una individualità distinta da quella dell’opera originaria pur ad essa connessi ovvero ne integrino una variazione quantitativa o qualitativa oltre i limiti di legge; nel primo caso, l’appaltatore è, in linea di principio, obbligato ad eseguirle, previo ordine scritto, mentre, nel secondo, le opere debbono costituire oggetto di un nuovo appalto (Sez. 2, n. 9767 del 12/05/2016, Rv. 640200 – 01).
Ai fini della predetta distinzione tra varianti ed opere extracontrattuali, è pur vero che le variazioni apportate ad un’opera sono sempre in qualche misura e in una certa accezione “extracontrattuali”, perchè introducono nella prestazione dell’appaltatore elementi non previsti in contratto; tuttavia mentre la possibilità di introdurre varianti costituisce espressione di una delle facoltà tipiche del committente e l’appaltatore, in via di principio, è obbligato ad eseguire i nuovi lavori, i lavori extracontrattuali identificano, invece l’oggetto di un nuovo appalto per il cui affidamento occorre applicare la normativa sulla conclusione del contratto, posto che l’appaltatore non ha l’obbligo di eseguirli.
Si ha quindi variazione quando le opere nuove, nelle quali le variazioni stesse consistono, sono necessarie per la completa e migliore esecuzione dell’opera ovvero per la realizzazione della stessa a regola d’arte ovvero quando, pur importando modifica all’opera rientrano sempre nel piano dell’opera stessa. Si è in presenza di lavori extracontrattuali tout court, quando trattasi invece di opere nuove che, pur avendo una qualche relazione o connessione con l’opera non sono necessarie alla completa o migliore esecuzione di questa, nè rientrano nel piano della medesima, ma costituiscono opere aventi una propria individualità, distinta da quella dell’opera originaria o che integrano un’opera a sè stante.
Si tratta, per altro, di un orientamento che trova conferma nella giurisprudenza amministrativa, la quale ha precisato che ricorre l’ipotesi di variazioni extracontrattuali quando le opere nuove, in cui queste consistono, richieste o disposte dalla p.a. ovvero convenute tra le parti, importino sostanziali e notevoli modificazioni dell’opera contrattuale, in relazione al luogo dell’esecuzione, alla natura affatto diversa del materiale, alla ideazione ed attuazione dell’opera d’arte o di tracciati diversi per natura e per numero rispetto a quelli previsti.
Secondo la stessa pronuncia citata debbono, altresì, essere equiparate ai lavori extracontrattuali (pur non essendolo ontologicamente) anche le variazioni qualitative e quantitative richieste oltre i limiti in cui esse sono ammesse dalla legge (ipotesi questa che ricorre nel caso in esame).
1.10. La conclusione attinta dalla Corte di appello, secondo cui le opere aggiuntive pretese dalla committenza nell’esercizio dello jus variandi, ma oltre i limiti consentiti per legge, dovevano essere remunerate al prezzo di mercato, deve ritenersi corretta.
Ciò innanzitutto perchè le variazioni illegittimamente richieste dovevano essere considerate quali lavori extracontrattuali, in difetto di un vincolo alla loro esecuzione senza compensi e indennità aggiuntive, escluso dal superamento del limite legale di soggezione dell’appaltatore e dalla sua inequivoca e formale opposizione basata appunto sul superamento della soglia di legge.
In secondo luogo, l’art. 15 del Capitolato generale amministrativo di appalto espressamente limitava il diritto della stazione appaltante di disporre l’esecuzione di lavori in variante sino al quinto dell’importo contrattuale, correlandolo al corrispondente obbligo dell’appaltatore di eseguire i lavori aggiuntivi ai patti e alle condizioni contrattuali, senza alcun diritto a compensi aggiuntivi o indennizzi, con esclusione valida solo sino alla predetta misura percentuale.
Se pur non vi era stato accordo fra le parti sulla misura del corrispettivo, l’intesa era sta implicitamente raggiunta sulla loro esecuzione, richiesta – ed anzi imposta e pretesa – dalla committente ed eseguita, sia pur con riserva, dall’appaltatore.
Inoltre, in materia di appalto – e più in generale in materia di contratti sinallagmatici concretizzanti lo schema do ut facias, vige il principio generale, valido in quanto non specificamente derogato, che il mancato accordo fra le parti sull’entità del corrispettivo non ingenera nullità del contratto per indeterminazione dell’oggetto, e, in difetto di possibilità di integrazione con tariffe ed usi, deve essere supplito con l’intervento del Giudice.
2. Con il secondo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, la ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 1219 c.c., comma 1 e art. 1224 c.c., nonchè omessa o insufficiente motivazione.
2.1. RFI osserva che la riserva comunicata in data 11/3/1986, volta alla mera quantificazione della pretesa dell’appaltatore, non poteva essere considerata un valido atto di messa in mora idoneo a giustificare il riconoscimento degli interessi in data anteriore a quella della domanda giudiziale (22/12/1992).
2.2. La censura è fondata.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, implicitamente disattesa dalla Corte capitolina, che ha ritenuto valido atto di messa in mora l’iscrizione di riserva, in tema di appalto di opere pubbliche, la riserva della quale l’appaltatore è onerato al fine di evitare la decadenza da domande di ulteriori compensi, indennizzi o risarcimenti, richiesti in dipendenza dello svolgimento del collaudo, non assurge ad atto di costituzione in mora, con la conseguenza che gli interessi sulle somme effettivamente dovute da parte della P.A. vanno liquidati con decorrenza dalla data della domanda introduttiva del giudizio, quale unico momento all’uopo rilevante, in quanto è allo stesso appaltatore consentito di attivarsi per la relativa proposizione (Sez. 1, 30/09/2016, n. 19604; Sez. 1, 08/09/2015, n. 17782; Sez. 6, 30/03/2011, n. 7204; Sez. 1, 21/02/2006, n. 3768; Sez. 1, 20/11/1990, n. 11209).
3. Alla luce di quanto esposto merita accoglimento il secondo motivo, con la conseguente correlativa cassazione della sentenza impugnata; la Corte può decidere a tal proposito nel merito sostituendo la corretta determinazione della decorrenza degli interessi e del risarcimento nelle misure riconosciute nella sentenza impugnata ma dalla data della domanda giudiziale (22/12/1992), in difetto di preventiva messa in mora.
Le spese del giudizio di legittimità, al pari di quelle di secondo grado, già compensate dalla Corte di appello, meritano compensazione, stante la reciproca soccombenza determinata dall’accoglimento parziale del ricorso.
P.Q.M.
LA CORTE accoglie il secondo motivo di ricorso, rigettato il primo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, dispone la decorrenza degli interessi legali e del risarcimento del danno da svalutazione ex art. 1224 c.c., comma 2, nelle misure riconosciute in sentenza, con decorrenza dalla data della domanda giudiziale (22/12/1992);
compensa fra le parti le spese dell’intero giudizio.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima civile, il 15 ottobre 2019.
Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2020