Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.731 del 15/01/2020

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Il mero possessore di un assegno bancario, non prenditore o giratario dello stesso, non è legittimato alla pretesa del credito ivi contenuto se non dimostrando l'esistenza del rapporto giuridico da cui deriva tale credito, poiché il semplice possesso del titolo non ha un significato univoco ai fini della legittimazione, non potendo escludersi che l'assegno sia a lui pervenuto abusivamente; né l'assegno può comunque valere come promessa di pagamento, ai sensi dell'art. 1988 c.c., atteso che l'inversione dell'onere della prova, prevista da tale disposizione, opera solo nei confronti del soggetto a cui la promessa sia stata effettivamente fatta, sicché anche in tal caso il mero possessore di un titolo all'ordine (privo del valore cartolare), non risultante dal documento, deve fornire la prova della promessa di pagamento a suo favore.

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – rel. Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1393/2016 proposto da:

C.R., elettivamente domiciliato in Roma, Via Illiria n. 19, presso lo studio dell’avvocato Zaina Antonella, rappresentato e difeso dall’avvocato Barbatelli Maurizio, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

e contro

Ce.Vi., elettivamente domiciliato in Roma, Piazza San Salvatore in Lauro n. 13, presso lo studio dell’avvocato Moretti Andrea, rappresentato e difeso dagli avvocati Ambrosino Francesco, Pecora Paolo, giusta procura in calce al controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 3390/2015 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 24/07/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 08/11/2019 dal cons. Dott. LAMORGESE ANTONIO PIETRO.

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Napoli, con la sentenza indicata in epigrafe, riformando la sentenza impugnata, ha accolto l’opposizione di Ce.Vi. al decreto ingiuntivo emesso nei suoi confronti e lo ha condannato a pagare la somma di Euro 22836,92, oltre interessi legali, in favore di C.R., suo nipote.

A fondamento del decreto erano allegati centoventitre effetti cambiari, di importo corrispondente a Euro 44931,75 (Lire 87 milioni), in epoca compresa tra novembre 1997 e marzo 1999 e undici assegni bancari, di importo complessivo pari a Lire 360 milioni, tutti emessi tra settembre 1995 e settembre 1996, con firme di traenza di Ce.Vi. e girati in bianco.

Ce.Vi. si era opposto, deducendo di avere ricevuto in prestito Lire 60 milioni, di avere emesso gli effetti cambiari a garanzia e di avere restituito Lire 23 milioni; quanto agli assegni, di averli consegnati al figlio A. a scopo di garanzia per favorirlo nella sua attività imprenditoriale senza mai consentire che venissero girati a terzi.

C.R. aveva resistito in giudizio, invocando il rapporto di mutuo intercorso con l’opponente, anche in relazione agli assegni, e riferendo di avere ricevuto il pagamento di Euro 20029,01 in corso di causa.

La Corte, per quanto ancora interessa, ha ritenuto incontestato il rapporto di mutuo garantito dagli effetti cambiari, ma ha ritenuto non provato il credito riferibile agli assegni bancari emessi a favore di beneficiario non indicato nominativamente e non idonei a valere quali promesse di pagamento, essendo prescritta l’azione cartolare; ad avviso della Corte, C.R. non aveva dimostrato la consegna degli assegni da parte di Ce.Vi. (e non di altri) nè l’effettiva dazione delle relative somme in favore di quest’ultimo, essendo invece provata la consegna al figlio C.A. e il successivo trasferimento da parte di quest’ultimo al cugino C.R.; di conseguenza, in parziale accoglimento del gravame di Ce.Vi., lo ha condannato a restituire la differenza ancora dovuta di Euro 22836,92, avendo corrisposto Euro 20029,01 e Euro 2065,82, rispetto all’importo complessivo dovuto di Euro 44931,75; ha compensato parzialmente le spese di entrambi i gradi e le ha poste a carico dell’appellante per la restante metà.

Avverso questa sentenza hanno proposto ricorso in via principale C.R. e, in via incidentale, Ce.Vi., il quale ha depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Esaminando il ricorso principale di C.R., il primo motivo infondatamente imputa alla Corte di merito violazione e falsa applicazione dell’art. 348 bis c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, per non avere dichiarato l’appello inammissibile perchè privo di una ragionevole probabilità di accoglimento. Il suddetto esito auspicato dal ricorrente, tuttavia, se recepito dalla Corte territoriale, sarebbe stato incompatibile con l’accoglimento dell’appello, il quale quindi non era inammissibile ma seppur parzialmente fondato.

Il secondo, terzo e quarto motivo denunciano nullità della sentenza impugnata, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, per violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (artt. 112 e 342 c.p.c.) e omesso esame di un fatto decisivo, non avendo pronunciato sull’eccezione di inammissibilità dell’appello di Ce.Vi. per mancata illustrazione di motivi specifici di gravame, dei fatti di causa e mancata indicazione delle parti del provvedimento.

Detti motivi sono infondati: la Corte territoriale ha pronunciato sull’eccezione implicitamente rigettandola, avendo statuito sul merito dell’impugnazione che ha parzialmente accolto, ciò dimostrando l’ammissibilità del gravame.

Il quinto motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1988 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere affermato che l’assegno senza indicazione del beneficiario valeva come promessa di pagamento e, al contempo, contraddittoriamente escluso l’inversione dell’onere della prova circa l’esistenza del rapporto fondamentale. Al predetto motivo è connesso il sesto che denuncia omesso esame di fatti decisivi e discussi tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, in ragione del fatto che C.R. non era un mero possessore ma effettivo beneficiario degli undici assegni bancari.

Entrambi i motivi, da esaminare congiuntamente, sono infondati.

La sentenza impugnata si è limitata ad affermare (e dev’essere interpretata nel senso) che C.R. era mero possessore di titoli di credito cartolare, non prenditore nè giratario degli stessi, difettando su di essi l’indicazione del beneficiario, sicchè non poteva considerarsi legittimato alla pretesa del credito ivi contenuto, se non dimostrando l’esistenza del rapporto giuridico da cui tale credito derivava, dimostrazione che nella specie non era stata data, secondo l’incensurabile apprezzamento dei giudici di merito che il ricorrente principale vorrebbe impropriamente far sovvertire in questa sede.

L’esito decisorio è conforme a diritto. Ed infatti i titoli non potevano valere come promessa di pagamento, ai sensi dell’art. 1988 c.c., atteso che l’inversione dell’onere della prova, prevista da tale disposizione, opera solo nei confronti di colui a cui la promessa sia stata effettivamente e specificamente fatta, sicchè il mero possessore di un titolo all’ordine (privo di valore cartolare), non risultando dal documento, deve fornire la prova dell’esistenza del rapporto giuridico dal quale discende l’obbligazione a suo favore; il semplice possesso del titolo non ha significato univoco, ai fini della legittimazione, non potendo escludersi che il titolo sia pervenuto al possessore abusivamente (Cass. n. 15688 del 2013, n. 17689 del 2006, n. 12582 del 2001).

Venendo al ricorso incidentale di Ce.Vi., il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., in relazione agli artt. 1193 e 2697 c.c., circa le affermazioni della Corte territoriale secondo cui altri pagamenti risultavano effettuati da Ce.Vi. a persona ( M.A.) non indicata da C.R. come addetta alla riscossione, pur essendo pacifico che i pagamenti riguardavano sempre lo stesso rapporto; inoltre, la Corte aveva riferito di un pagamento di Lire 4000000 (Euro 2065,82) effettuato da Ce.Vi. che era invece di Euro 4000,00. Il motivo è inammissibile, risolvendosi nella richiesta impropria di revisione di apprezzamenti di fatto incensurabilmente operati dai giudici di merito.

Con il secondo e terzo motivo Ce.Vi. denuncia, rispettivamente, violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., in relazione al R.D. n. 1669 del 1933, art. 6 e art. 1460 c.c., e omesso esame di fatti decisivi, per non avere considerato, ai fini della soccombenza, come legittimo il suo rifiuto (o sospensione) del pagamento a fronte dell’illegittimo rifiuto della restituzione delle cambiali, con la conseguenza che egli aveva diritto al pagamento delle spese dell’intero giudizio.

Entrambi i motivi contestano, in sostanza, la compensazione delle spese di entrambi i gradi per la metà e la condanna di Ce.Vi. al pagamento della restante metà, sulla base tra l’altro di argomentazioni ed elementi in parte estranei al tema di causa. Essi sono infondati. La sentenza impugnata ha indicato le ragioni della compensazione parziale, secondo quanto previsto dall’art. 92 c.p.c., comma 2, nel testo in vigore ratione temporis (per effetto della L. n. 263 del 2005, art. 2, comma 1, lett. b) con statuizione incensurabile in questa sede.

In conclusione, i ricorsi sono rigettati.

Le spese della presente fase sono compensate, in considerazione della soccombenza reciproca.

P.Q.M.

La Corte rigetta i ricorsi e compensa le spese della presente fase.

Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 8 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2020

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