LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Presidente –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –
Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –
Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 11059/2016 proposto da:
Imperial S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Panama n. 52, presso lo studio dell’avvocato Samperi Francesco, rappresentata e difesa dagli avvocati Cornia Federico, Sena Giuseppe, Tarchini Paola, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
L.A. Alta Moda S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Golametto n. 4, presso lo studio DGDF Legal, rappresentata e difesa dall’avvocato Pezzullo Maria, giusta procura in calce alla memoria di costituzione di nuovo difensore;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 4376/2015 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 11/11/2015;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 25/11/2019 dal Cons. Dott. NAZZICONE LOREDANA.
FATTI DI CAUSA
La Corte di appello di Napoli con sentenza dell’11 novembre 2015 ha confermato la pronuncia di primo grado, che aveva respinto le domande proposte dalla Imperial s.p.a. contro la L.A. Alta Moda s.r.l., volte all’accertamento della contraffazione del marchio Imperial e della condotta di concorrenza sleale, poste in essere dalla convenuta, titolare dei marchi Impero Uomo, Impero Diamonds e Miss Impero.
La corte territoriale, per quanto ancora rileva, ha richiamato il proprio precedente specifico, di cui alla sentenza n. 5132 del 29 novembre 2014, ripetendone e condividendone gli argomenti.
In particolare, il giudice del merito ha accertato che: a) il termine Imperial è marchio debole, derivando dall’aggettivo inglese, parola di uso comune ed attinente al settore della moda, come dimostra anche la nozione di “abito in stile impero”; b) i segni, se posti in comparazione, sono significativamente diversi sotto il profilo fonetico, grafico, concettuale e visivo, onde non rileva il richiamo alla pretesa, e non dimostrata, rinomanza del marchio attoreo; c) va, pertanto, esclusa anche una condotta di concorrenza sleale da parte della convenuta.
Avverso questa sentenza viene proposto ricorso da Imperial s.p.a., sulla base di tre motivi.
Resiste l’intimata con controricorso.
In corso di causa si è costituito nuovo procuratore per la controricorrente, in seguito alla rinuncia al mandato del precedente difensore.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – I tre motivi possono essere come di seguito riassunti:
1) violazione o falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., per avere la corte del merito ritenuto il marchio Imperial come debole, affermandone l’aderenza concettuale con i prodotti della moda, senza prove al riguardo, non avendo controparte mai affermato nelle proprie difese tale concetto, ma unicamente come il termine sarebbe frequente nel settore di riferimento, peraltro senza dimostrarlo; nè il fatto che lo “stile impero” sia attinente alla moda integra il fatto notorio;
2) violazione o falsa applicazione del D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, art. 13, per avere la sentenza impugnata affermato trattarsi di termine comune riferito ad un particolare abito da donna, senza considerare come, se pure così fosse, ciò comunque non riguarderebbe l’intero settore dell’abbigliamento per uomo, donna e bambino, con conseguente errore nel reputare il marchio come debole;
3) violazione o falsa applicazione del D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, art. 20, comma 1, lett. b), per avere la sentenza impugnata negato la confondibilità tra i segni, laddove è affermazione costante in giurisprudenza che l’aggiunta di altre componenti del marchio successivo non vale in sè ad escludere la contraffazione e che il confronto tra segni deve avvenire mediante apprezzamento complessivo che tenga conto degli elementi salienti.
2. – Va dichiarata l’inammissibilità della memoria prodotta dalla controricorrente in una con l’atto di costituzione di nuovo difensore, che solo a tal fine deve essere rivolto, restando ogni ulteriore difesa preclusa dal decorso del termine per le memorie previste dalla legge.
3. – Il primo motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.
Come già ritenuto in un precedente di questa Corte (Cass. 18 giugno 2018, n. 15927), che ha deciso il ricorso avverso una sentenza della medesima corte territoriale concernente il marchio de quo, nell’economia della decisione impugnata la riferibilità del termine Imperia, al settore della moda, mediante il richiamo allo “stile impero”, non costituisce la specifica ratio decidendi della pronuncia impugnata, costituendo piuttosto un argomento di contorno, non integrante il fondamento esclusivo della decisione assunta.
Riguardando una affermazione non decisiva nell’economia della sentenza impugnata, il motivo diviene dunque inammissibile, posto che la rimanente argomentazione – in particolare, l’affermata natura comune della parola usata e la non confondibilità dei segni – resta idonea a sorreggere la decisione assunta (cfr., e multis, Cass. 18 aprile 2017, n. 9752; Cass. 14 febbraio 2012, n. 2108).
Quanto alla deduzione di tale natura del segno, essa era rilevabile dal giudice richiesto della tutela, onde nessuna violazione ne è risultata dell’art. 115 c.p.c..
4. – Il secondo motivo è infondato.
Costituisce orientamento consolidato (Cass. 18 giugno 2018, n. 15927; Cass. 19 dicembre 2017, n. 30491; Cass. 19 dicembre 2017, n. 30490; Cass. 30 novembre 2017, n. 28818; v. pure, con riguardo allo stesso marchio in discorso, Cass. 5 marzo 2019, n. 6385), da cui non vi è ragione di discostarsi, che mentre non possono essere brevettate come marchi parole o espressioni tratte dal linguaggio comune, le quali abbiano una funzione intrinsecamente descrittiva della qualità del prodotto, ciò è ammesso quando le stesse non presentino nessuna aderenza concettuale con il prodotto contraddistinto, ma siano ad esso collegate da un accostamento di pura fantasia, tale da consentire di riconoscervi carattere originale ed efficacia individualizzante (cfr. art. 13, comma 1, lett. b, c.p.i.).
La sentenza impugnata non ha violato tale principio di diritto, nella parte in cui, ritenuto che il segno distintivo adottato dalla ricorrente costituisse lo sviluppo della parola “impero”, vi ha ravvisato un elemento debole, e quindi inidoneo a respingere come imitativi i marchi che utilizzino la medesima radice, in quanto riconducibile a parola di uso ormai comune, oltretutto in aderenza concettuale con i prodotti di abbigliamento (p. 11 della decisione impugnata).
5. – Il terzo motivo è inammissibile.
Esso, invero, pretende di ripetere l’accertamento di non confondibilità dei segni in comparazione, compiuto dalla corte d’appello; il quale è, tuttavia, giudizio di puro fatto, non riproponibile in questa sede.
Nè il predetto apprezzamento contrasta con il costante principio secondo cui l’inclusione in un marchio complesso dell’unico elemento, nominativo o emblematico, che caratterizza un marchio semplice precedentemente registrato si traduce in una contraffazione, anche se il nuovo marchio sia costituto da altri elementi, che lo differenziano da quello precedente.
Invero, tale principio, postulando che il marchio precedentemente registrato sia dotato di una particolare forza individualizzante, tale da renderlo autonomamente riconoscibile anche se inserito in una rappresentazione più articolata, non è riferibile all’ipotesi in cui, come nella specie, il predetto inserimento comporti un’alterazione sostanziale del suo significato, in considerazione della debole capacità distintiva, derivante dall’adozione di una parola o un’espressione avente carattere meramente descrittivo (Cass. 18 giugno 2018, n. 15927).
Come è noto, infatti, i marchi “deboli” sono tali in quanto risultano concettualmente legati al prodotto per non essere andata la fantasia che li ha concepiti oltre il rilievo di un carattere, o di un elemento dello stesso, ovvero per l’uso di parole di comune diffusione che non sopportano di essere oggetto di un diritto esclusivo; peraltro, la loro “debolezza” non incide sull’attitudine alla registrazione, ma soltanto sull’intensità della tutela che ne deriva, atteso che sono sufficienti ad escluderne la confondibilità anche lievi modificazioni od aggiunte (cfr. Cass. 13 febbraio 2019, n. 4254; Cass. 18 maggio 2018, n. 12368; Cass. 25 gennaio 2016, n. 1267; Cass. 2 febbraio 2015, n. 1861; Cass. 26 giugno 2007, n. 14787).
6. – Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore della controricorrente, liquidate in Euro 6.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali liquidate forfettariamente nella misura del 15% sui compensi ed agli accessori di legge.
Dichiara che sussistono presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello richiesto, se dovuto, per la stessa impugnazione, a norma del comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 25 novembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2020