LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Felice – Presidente –
Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –
Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –
Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –
Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 22287-2017 proposto da:
M.I., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA COMANO 95, presso lo studio dell’avvocato LUCIANO FARAON, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANDREA FARAON;
– ricorrente –
contro
R.C.M., R.I.G., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA F. CONFALONIERI 5, presso lo studio dell’avvocato ANDREA MANZI, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato AUGUSTO CASSINI;
– controricorrenti –
e contro
R.N., R.P., G.G.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 265/2017 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositata il 15/05/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza 10/09/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PEPE ALESSANDRO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato Andrea Faraon, difensore della ricorrente che ha chiesto l’accoglimento del ricorso e di produrre un atto del procedimento penale connesso alla querela di falso;
udito l’Avvocato Augusto Cassini, difensore dei resistenti, che ha chiesto di riportarsi al controricorso.
FATTI DI CAUSA
M.I. convenne in giudizio C.M., I.G. e R.L.F., perchè venisse accertato che il proprio fondo non era gravato da servitù di passaggio in favore di quello dei convenuti; quest’ultimi, oltre a resistere alla presa attorea, chiesero che fosse dichiarato l’acquisto per usucapione di una servitù di passaggio a carico del fondo della M..
Il Tribunale disattese la domanda della M. e parzialmente accolse quella riconvenzionale.
La Corte d’appello di Trieste, alla quale la M. si era rivolta in via principale e i convenuti in via incidentale, rigettò entrambe le impugnazioni.
Avverso quest’ultima decisione M.I. avanza ricorso per cassazione sulla base di due motivi. Gli intimati resistono con controricorso.
Venuta la causa al vaglio della 6^ Sezione, rinvenutasi in atti la copia della sentenza d’appello autenticata dal difensore della ricorrente, ma non parimenti quella della relata di notifica della stessa, il processo, in attesa della decisione delle S.U., investite con l’ordinanza di rimessione n. 28844/2018, veniva rinviato a nuovo ruolo.
All’approssimarsi della pubblica udienza entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. In via di preliminarietà va chiarito che il dubbio d’improcedibilità del ricorso per le ragioni sopra ricordate risulta oramai fugato dall’intervento delle S.U., le quali hanno affermato il principio secondo il quale il deposito in cancelleria, nel termine di venti giorni dall’ultima notificazione, di copia analogica della decisione impugnata predisposta in originale telematico e notificata a mezzo PEC priva dell’attestazione di conformità apposta dal difensore, L. n. 53 del 1994, ex art. 9, commi 1 bis e 1 ter, oppure con attestazione priva di sottoscrizione autografa, non determina l’improcedibilità del ricorso per cassazione laddove il controricorrente (o uno dei controricorrenti), nel costituirsi (anche tardivamente), depositi a sua volta copia analogica della decisione ritualmente autenticata, ovvero non disconosca, D.Lgs. n. 82 del 2005, ex art. 23, comma 2, la conformità della copia informale all’originale notificatogli; nell’ipotesi in cui, invece, la controparte (o una delle controparti) sia rimasta soltanto intimata, ovvero abbia effettuato il suddetto disconoscimento, per evitare di incorrere nella dichiarazione di improcedibilità il ricorrente ha l’onere di depositare l’asseverazione di conformità all’originale della copia analogica, entro l’udienza di discussione o l’adunanza in camera di consiglio (S.U., n. 8312, 25/03/2019, Rv. 653597).
2. Ancora preliminarmente occorre precisare che la separata istanza con la quale la ricorrente invoca la sospensione del processo davanti a questa Corte, senza che occorra vagliare la sospensibilità in concreto della decisione del Giudice del merito, risulta, all’evidenza, inammissibile, non essendo formulabile una tale richiesta per la prima volta davanti al Giudice della legittimità (cfr., ex multis, Sez. L. n. 5658, 11/6/1990; Cass. 4171/87, 3104/75).
Inammissibile, del pari, risulta tutta la documentazione allegata alla predetta istanza, la quale non rientra in alcuna delle ipotesi tassativamente contemplate dall’art. 372 c.p.c.
3. Con il primo motivo la ricorrente denunzia “errata applicazione” dell’art. 1062 c.c. e “illogicità manifesta”, assumendo che si era in presenza di una “deformata e deviata interpretazione” del titolo originario (l’atto pubblico del 1963 con il quale M.U. alienò una parte della sua proprietà). A specificazione dell’assunto la ricorrente afferma che la costituzione della servitù era da ritenersi generica, poichè non risultava precisato “che parte acquirente avesse titolo di accedere alla proprietà del venditore”, poichè “sia l’accesso alla pubblica via che alla stalla sita più a sud è sempre avvenuto per il fondo ceduto all’acquirente del 1963 ed ora pervenuto ai R.”. Dalla clausola costitutiva della servitù non era “dato comprendere da dove possa dedursi che il venditore consente all’acquirente di transitare dalla sua proprietà quando l’accesso della parte venduta avviene attraverso un sentiero, sito al lato ovest della casa compravenduta”. Conclude l’impugnante sostenendo che l’interpretazione proposta era l’unica logica, ai sensi dell’art. 1363 c.p.c.
4. Con il secondo motivo la M. prospetta “violazione ed errata applicazione” dell’art. 1974 c.c.
A seguire l’assunto censuratorio “la sentenza impugnata (era) stata assunta, come quella di primo grado, in totale violazione dell’art. 1974 c.c. nè i giudici di merito e tanto meno parte resistenti hanno saputo giustificare a quale titolo i R. avrebbero dovuto transitare per la proprietà esclusiva della odierna ricorrente”. Non c’era motivazione, nè utilità per la controparte, trattandosi di un percorso privo di giustificazione e la realtà fattuale era stata distorta dalla falsa documentazione prodotta dalla controparte.
5. Entrambi i motivi, unitariamente scrutinati, non superano il vaglio d’ammissibilità per il convergere di più ragioni.
Entrambi risultano caratterizzati da un evidente difetto di specificità, sotto il profilo del difetto di autosufficienza, non essendo conoscibile in questa sede il titolo negoziale del 1963, al quale la ricorrente fa riferimento.
Entrambi i motivi risultano diretti a un inammissibile riesame della vicenda fattuale, di esclusivo dominio del giudice del merito.
Sotto l’usbergo delle denunziate violazione di legge la critica, nel suo complesso, mira ad un inammissibile riesame di merito. Da ben oltre un decennio questa Corte è ferma nel chiarire che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione; il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Sez. U., n. 1031, 05/05/2006, Rv. 589877; coni. ex plurimis, Cass. nn. 4178/2007, 4178/2007; 8315/013, 26110/015, 195/016, 24054/017, 24155/017, 30728/018, 6806/019, 11775/019).
Peraltro, non appare comprensibilmente spiegata l’evocazione dell’art. 1974 c.c., che disciplina l’annullamento della transazione per cosa giudicata.
In virtù del principio di soccombenza la ricorrente dovrà rimborsare alla controparte le spese legali del giudizio di legittimità, nella misura, stimata congrua, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonchè delle attività svolte, di cui in dispositivo.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
PQM
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese legali in favore dei resistenti, che liquida in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, il 10 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 16 gennaio 2020