LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GORJAN Sergio – Presidente –
Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –
Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 10617/2018 proposto da:
L.E., rappresentato e difeso dagli Avvocati ALFONSO VISCARDI e STEFANIA PONTRANDOLFI ed elettivamente domiciliato, presso il loro studio in SALERNO, VICOLO dei SARTORI 3;
– ricorrente –
contro
B.M., rappresentato e difeso dall’Avvocato LUCIA CATAPANO, ed elettivamente domiciliato, presso lo studio della medesime, in SALERNO, VIA LUIGI GUERCIO 420;
– controricorrente –
contro
D.M.L., in proprio, elettivamente domiciliato presso il suo studio, in SALERNO, VIA POSIDONIA 161/5;
– controricorrente –
e contro
G.F., M.G., DI.MA.TU., C.C., CA.MA., A.G., S.M., MA.SA., D.M.M., GR.AN., F.G. e m.g.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 1121/2017 della CORTE D’APPELLO di SALERNO, depositata il 20/11/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/10/2019 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SGROI Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato D.M.L., in proprio e per gli altri controricorrenti ha concluso come in atti.
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione del 23.10.2001 l’arch. L.E. conveniva in giudizio D.M.L., G.F., M.G., D.M.T., C.C., CA.MA., A.G., S.M., MA.SA., D.M.M., GR.AN., F.G., m.g., I.A., B.M., per sentirli condannare al pagamento, in solido tra loro, della somma di Lire 30.225.000, oltre interessi, rivalutazione monetaria e spese di lite.
Esponeva l’attore che il COMUNE di GIFFONI SEI CASALI, con Delib. Consiliare n. 9 del 1985, gli aveva conferito l’incarico di redigere il piano per l’edilizia economica e popolare e che in data 4.3.1986 era stata sottoscritta apposita convenzione; successivamente con Delib. n. 96 del 1993 il Consiglio Comunale, composto da tutti i convenuti e con la partecipazione del segretario comunale B.M., aveva deliberato di adeguare a Lire 43.000.000 il compenso spettante all’arch. L., inizialmente fissato in Lire 30.000.000, atteso il notevole lasso di tempo trascorso dalla stipula della convenzione fino al momento in cui l’Amministrazione aveva fornito le proprie direttive definitive per la redazione del PEEP. Tuttavia, la Delib. di adeguamento non era stata approvata dal CO.RE.CO..
Ciò stante, l’arch. L. richiedeva e otteneva decreto ingiuntivo dal Pretore di Salerno, con il quale veniva ingiunto al Comune di Giffoni Sei Casali di pagare la somma di Lire 30.225.000, anche ai sensi dell’art. 2041 c.c..
A seguito di opposizione proposta dal Comune, il Tribunale di Salerno, con sentenza n. 330/1999, revocava il D.I. affermando che l’azione di indebito arricchimento non era proponibile e che la Delib. di adeguamento del compenso, non approvata dal CO.RE.CO., non era vincolante per l’ente locale dovendo, in tal caso, il privato (che abbia fornito beni o servizi) agire nei confronti degli amministratori o funzionari che abbiano deliberato la spesa.
Ciò considerato, l’arch. L. aveva citato in giudizio i convenuti, i quali si costituivano chiedendo di essere autorizzati a chiamare in causa il Comune di Giffoni Sei Casali e resistevano alla domanda eccependo tra l’altro la prescrizione del credito.
Con sentenza n. 1506/2008 il Tribunale di Salerno rigettava la domanda, condannando l’attore alle spese di lite, motivando che non poteva addebitarsi agli amministratori e al funzionario di aver consentito la prestazione professionale dell’arch. L. in mancanza di una valida e impegnativa obbligazione dell’ente locale che, invece, era esistente e pienamente efficace, seppure nella configurazione determinata dagli originari atti deliberativi.
Avverso detta sentenza proponeva appello l’arch. L. chiedendo l’accoglimento della domanda formulata in primo grado con la condanna degli appellati, in solido, al pagamento della somma di Euro 15.609,91 (Lire 30.225.000), oltre interessi e rivalutazione monetaria e le spese del doppio grado di giudizio.
Resistevano in giudizio tutti gli appellati chiedendo il rigetto dell’appello. I.A. e B.M. spiegavano due distinti appelli incidentali subordinati, perchè, nel caso di accoglimento delle ragioni dell’appellante, la sentenza venisse riformata, venissero accolte le eccezioni di prescrizione e fosse riformata la domanda in ogni caso. Anche il Comune di Giffoni Sei Casali formulava appello incidentale subordinato, perchè, nell’ipotesi di accoglimento delle ragioni dell’appellante, fossero dichiarati tenuti al pagamento i singoli amministratori che avevano consentito la prestazione e non il Comune.
Con sentenza n. 1121/2017, depositata in data 20.11.2017, la Corte d’Appello di Salerno rigettava l’appello condannando l’appellante alle spese di lite.
Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione l’arch. L. sulla base di quattro motivi; resistono D.M.L. e B.M. con altrettanti controricorsi, illustrati da memorie prodotte in occasione della adunanza camerale del 21/02/2019 da cui la causa proviene.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c. – Errata e incompleta lettura degli atti di causa – Violazione e falsa applicazione del D.L. n. 66 del 1989, art. 23”. Osserva il ricorrente che il Tribunale di Salerno aveva supposto che il L., pur essendo a conoscenza dell’annullamento delle delibere di adeguamento del compenso da parte del CO.RE.CO., avesse dato spontanea esecuzione alla prestazione, implicitamente validando il contratto precedente, come se avesse inteso rinunciare implicitamente all’adeguamento del compenso. Nell’atto di appello era contestato questo ragionamento, fondato su mere supposizioni e non rientrante nel contraddittorio. L’arch. L. rileva di essere venuto a conoscenza delle delibere di annullamento dopo aver depositato gli elaborati e solo dopo aver inutilmente chiesto il pagamento del compenso al Comune, l’appellante aveva scoperto che i convenuti gli avevano chiesto di effettuare la prestazione, promettendogli il giusto e adeguato compenso, come dallo stesso richiesto, omettendo di comunicargli che il CO.RE.CO. aveva annullato la Delib. di adeguamento.
1.1. – Il motivo, nel suo complesso è inammissibile.
1.2. – Va premesso che, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, il ricorso deve contenere i motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza impugnata.
Se è vero che l’indicazione dei motivi non necessita dell’impiego di formule particolari, essa tuttavia deve essere proposta in modo specifico, vista la sua funzione di determinare e limitare l’oggetto del giudizio della Corte (Cass. n. 10914 del 2015; Cass. n. 3887 del 2014). Ciò richiede che i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbano avere i caratteri della specificità, della completezza e della riferibilità alla decisione stessa (Cass. n. 14784 del 2015; Cass. n. 13377 del 2015; Cass. n. 22607 del 2014). E comporta, tra l’altro, l’esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle singole dedotte violazioni di norme o principi di diritto (Cass. n. 23804 del 2016; Cass. n. 22254 del 2015).
Così, dunque, i motivi di impugnazione che (come nella specie) prospettino una pluralità di questioni precedute unitariamente dalla elencazione delle norme asseritamente violate sono altrettanto inammissibili in quanto, da un lato, costituiscono una negazione della regola della chiarezza e, dall’altro, richiedono un intervento della Corte volto ad enucleare dalla mescolanza dei motivi le parti concernenti le separate censure (Cass. n. 18021 del 2016).
1.3. – Ciò premesso, va rilevato innanzitutto come non sia dato comprendere la denuncia da parte dell’appellante (che la reitera anche nel secondo motivo di ricorso) della dedotta asserita violazione dell’art. 342 c.p.c., che si limita a prescrivere la forma e il contenuto che deve avere l’atto di appello a pena di imammissibilità, avendo il ricorrente, a conclusione del motivo, affermato alquanto confusamente (contraddicendo la lamentata censura) che nella motivazione della Corte territoriale, non appare ben colto il significato del motivo di gravame, e neppure le stesse motivazione del giudice di prime cure (ricorso, pag. 12).
1.4. – Altrettanto inammissibile risulta il profilo afferente la contestazione della “errata e incompleta lettura degli atti di causa”, da parte della Corte di merito, che (secondo il ricorrente) avrebbe dovuto valutare se risultasse incontestata e provata la circostanza che in data 27.9.1993 il Consiglio Comunale aveva deliberato di adeguare il compenso da Lire 30.000.000 a Lire 43.000.000 e che tale aggiornamento era stato richiesto dall’arch. L. come condizione essenziale per l’esecuzione dell’opera professionale ed era stato, quindi, concordato con i convenuti amministratori comunali.
Tale richiesta non tiene conto del principio secondo cui l’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una argomentazione, tratta dalla analisi di fonti di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 5939 del 2018; Cass. n. 16056 del 2016; Cass. n. 15927 del 2016). Traducendosi viceversa nella esplicita sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto come emerse nel corso del procedimento e come argomentate dalla parte.
1.5. – Non meglio specificato risulta infine il profilo attinente alla asserita violazione del D.L. 2 marzo 1989, n. 66, art. 23, comma 4 e successive modifiche, laddove va sottolineato che la Corte di merito ha rilevato che proprio l’appellante non aveva confutato le ragioni della decisione di primo grado, la quale “correttamente e condivisibilmente” aveva ritenuto non liquidabile in danno dei convenuti principali (quale pagamento invocato sulla scorta di detta norma) poichè essa presuppone che funzionari e amministratori abbiano proceduto alla acquisizione di fatto di beni e servizi in violazione dell’obbligo di cui al comma 3 dello stesso articolo (sentenza impugnata, pagina 7, in fine).
2. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la “Violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., nonchè dell’art. 342 c.p.c. – Violazione e falsa applicazione del D.L. n. 66 del 1989, art. 23 – Omesso esame di fatti decisivi per il giudizio”, là dove la Corte territoriale ha rigettato il secondo motivo di appello ritenendolo in parte infondato e in parte inammissibile, in quanto l’appellante non aveva mai modificato la propria iniziale domanda di condanna dei convenuti amministratori e segretario comunale e non aveva mai esteso la propria domanda, neanche in via subordinata, al Comune, chiamato in causa ad istanza dei convenuti, per cui la richiesta di condanna del Comune, velatamente proposta per la prima volta nel motivo in esame, doveva ritenersi domanda nuova e come tale inammissibile. Inoltre, poichè la Corte di merito ha dichiarato non potersi accogliere la richiesta (nuova ma ammissibile) di condanna dei convenuti al pagamento della minor somma indicata dall’appellante nel motivo, in quanto non erano confutate le ragioni della decisione, la quale riteneva correttamente non liquidabile, in danno del Comune e per mancanza di convenzione, la somma eccedente l’importo di Lire 30.000.000, riconosciuta dalle delibere poi annullate e nemmeno liquidabile in danno dei convenuti poichè il D.L. n. 66 del 1989, art. 23, comma 4, presuppone che funzionari e amministratori abbiamo proceduto all’acquisizione di fatto di beni e servizi in assenza di Delib. (sentenza impugnata, pagina 7). Osserva il ricorrente di non aver mai proposto alcuna domanda diretta nei confronti del Comune di Giffoni, in quanto il giudicato formatosi sulla sentenza n. 330/1999 impediva qualsiasi azione diretta. L’arch. L. chiedeva una pronuncia sulle domande avanzate dai convenuti nei confronti del Comune chiamato in causa: i giudici di merito avrebbero dovuto pronunciarsi su tutte le domande e quindi anche su quelle avanzate dai convenuti, i quali, tra l’altro, avevano chiesto che l’eventuale condanna fosse limitata alla somma di Lire 13.000.000. Secondo il ricorrente i giudici di merito avrebbero rigettato la domanda su due infondati e ineccepiti presupposti: a) l’esperibilità di azione a titolo contrattuale nei confronti del Comune; b) l’esecuzione della prestazione professionale pur nella consapevolezza che il CO.RE.CO. avesse annullato le delibere di aggiornamento del compenso. In primo luogo, il ricorrente sottolinea la violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere sollevato d’ufficio tali eccezioni processuali e di merito proponibili solo dalle parti. Infatti, non si comprende da quale prova i giudici di merito abbiano tratto il convincimento che il L. fosse a conoscenza dell’annullamento delle delibere ed avesse comunque effettuato la prestazione. Inoltre, i giudici avrebbero violato il principio del ne bis in idem, allorquando ignoravano la sentenza n. 330/1999, emessa dal Tribunale e passata in giudicato. Tale sentenza (pronunciata e passata in giudicato prima della proposizione del presente giudizio), per il ricorrente, sarebbe stata immune da censure e per questo non era stata appellata, atteso che l’arch. L. aveva manifestato il dissenso a dare seguito alla convenzione di cui alla Delib. Consiliare n. 9 del 1985, non più in vigore e superata dalle Delib. successive del 1993.
2.1. – Il motivo non può essere accolto.
2.2. – Pregiudizialmente, va rilevato che, in tema di ricorso per cassazione, è inammissible la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e l’insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro. Infatti, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (Cass. n. 26874 del 2018).
2.3. – Quanto specificamente al profilo, che è possibile comunuqe enucleare dal contesto del motivo, attinente alle censure riferite alla violazione del parametro di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, va posto in rilievo che costituisce principio consolidato di questa Corte che il novellato paradigma (nella nuova formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alle sentenze impugnate dinanzi alla Corte di cassazione ove le stesse siano state pubblicate in epoca successiva al 12 settembre 2012, e quindi ratione temporis anche a quella oggetto del ricorso in esame, pubblicata il 22 gennaio 2015) consente (Cass. sez. un. 8053 del 2014) di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).
Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente avrebbe dunque dovuto specificamente e contestualmente indicare oltre al “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).
Viceversa, nel motivo in esame, della enucleazione e della configurazione della sussistenza (e compresenza) di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde potersi ritualmente riferire al parametro di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 5, non v’è alcuna idonea e spcifica indicazione.
2.4.1. – Quanto, poi, alla asserita violazione dell’art. 112 c.p.c., il ricorrente (come detto) afferma espressamente di non aver mai proposto alcuna domanda diretta nei confronti del Comune di Giffoni, in quanto il giudicato formatosi sulla sentenza n. 330/1999 impediva qualsiasi azione diretta, sia a titolo contrattuale che a titolo di arricchimento senza causa; chiedendo viceversa una pronuncia sulle domande avanzate dai convenuti nei confronti del Comune chiamato in causa, per cui i giudici di merito avrebbero dovuto pronunciarsi su tutte le domande e quindi anche su quelle avanzate dai convenuti, i quali, tra l’altro, avevano chiesto che l’eventuale condanna fosse limitata alla somma di Lire 13.000.000.
Appare evidente come il ricorrente sia carente di interesse ad agire (situazione, questa, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, anche in mancanza di contrasto tra le parti sul punto, poichè costituente requisito per la trattazione nel merito della domanda: Cass. n. 19268 del 2016) rispetto ad una siffatta pronuncia incidente nei rapporti tra altri soggetti.
2.4.2. – Nè valgono le affermazioni (per vero apodittiche) in ordine al fattoo che, secondo il ricorrente, i giudici di merito avrebbero rigettato la domanda su due infondati e ineccepiti presupposti: a) l’esperibilità di azione a titolo contrattuale nei confronti del Comune; b) l’esecuzione della prestazione professionale pur nella consapevolezza che il CO.RE.CO. avesse annullato le delibere di aggiornamento del compenso; con violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere sollevato d’ufficio tali eccezioni processuali e di merito proponibili solo dalle parti.
Va infatti rilevato che costituisce principio consolidato quello secondo cui, nell’esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda, il giudice di merito non è condizionato dalla formulazione letterale adottata dalla parte (Cass. n. 26159 del 2014; Cass. n. 21087 del 2015), dovendo egli tener conto del contenuto sostanziale della pretesa come desumibile dalla situazione dedotta in giudizio e dalle eventuali precisazioni formulate nel corso del medesimo, nonchè del provvedimento in concreto richiesto, non essendo condizionato dalla mera formula adottata dalla parte (Cass. n. 5442 del 2006; n. 27428 del 2005).
L’interpretazione della domanda giudiziale costituisce operazione riservata al giudice del merito (Cass. sez. un. 4617 del 2011), il cui giudizio, risolvendosi in un accertamento di fatto, non è censurabile in sede di legittimità, quando sia motivato in maniera congrua ed adeguata avuto riguardo all’intero contesto dell’atto e senza che ne risulti alterato il senso letterale (Cass. n. 22893 del 2008).
Il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, di cui all’art. 112 c.p.c., implica dunque il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto e comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda, ma non osta a che il Giudice renda la pronuncia richiesta in base a una ricostruzione dei fatti di causa – alla stregua delle risultanze istruttorie – autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, nonchè in base all’applicazione di una norma giuridica diversa da quella invocata dall’istante (Cass. sez. un. 9147 del 2009).
2.4.3. – Quanto infine alla asserita violazione del principio del ne bis in idem (asseritamente ignorato dai giudici di merito), va ritenuto che non ci sia violazione del medesimo, in quanto semmai la sentenza n. 330/1999 del Tribunale di Salerno, passata in giudicato (in quanto non appellata), fa stato solo tra il ricorrente e il Comune e non nei confronti dei convenuti, estranei a quel giudizio.
3. – Con il terzo motivo, il ricorrente denuncia la “Violazione e falsa applicazione dell’art. 2041 c.c. e del D.L. n. 66 del 1989, art. 23, convertito in L. n. 144 del 1989 – Omesso esame di fatti decisivi per il giudizio”, poichè i giudici di merito avrebbero erroneamente ritenuto che tra l’arch. L. e il Comune di Giffoni fosse intercorso un rapporto contrattuale valido ed efficace: ciò contrastava con il giudicato formatosi. Invece, i convenuti e lo stesso Comune avevano espressamente riconosciuto sia l’arricchimento sia l’utilitas della prestazione. Nella Delib. n. 96 del 1993, i convenuti, riconoscendo che le direttive definitive per la redazione del P.E.E.P. erano state fornite solo di recente dall’Amministrazione Comunale al tecnico incaricato, procedevano all’adeguamento dei compensi, che venivano ritenuti soddisfacenti dal ricorrente. Inoltre, i convenuti ritenevano meritevoli di approvazione gli elaborati consegnati il 22.2.1994 (Delib. 22 aprile 1994). L’annullamento delle delibere consiliari da parte del CO.RE.CO., mai comunicato all’appellante, non poteva estinguere l’obbligo al pagamento di una prestazione professionale, non solo ritenuta meritevole di approvazione, ma che è stata anche utilizzata, con l’adozione del P.E.E.P. Sorgeva, pertanto, l’obbligo giuridico dei convenuti D.L. n. 66 del 1989, ex art. 23, convertito in L. n. 144 del 1989. Venuto meno l’obbligo del Comune di Giffoni di pagare le somme per cui è causa, come statuito dalla sentenza n. 330/1999 del Tribunale di Salerno, passata in giudicato, era sorto l’obbligo dei convenuti di pagare l’importo che essi stessi avevano quantificato e deliberato, a titolo di arricchimento senza causa, avendo riconosciuto l’utilitas della prestazione.
3.1. – Il motivo non può essere accolto.
3.2. – Ribadita la inammissibilità della mescolanza e della sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, rilevabile anche dalla formulazione del presente motivo (v. sub 2.2.), va ad ogni modo rilevato che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea valutazione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (peraltro, entro i limiti del paradigma previsto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5). Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 24054 del 2017; ex plurimis, Cass. n. 24155 del 2017; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2016).
Pertanto, il motivo con cui si denunzia il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche mediante specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie; diversamente impedendosi alla Corte di cassazione di verificare il fondamento della lamentata violazione.
Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di errori di diritto individuati (come nella specie) per mezzo della sola preliminare indicazione della norma pretesamente violata, ma non dimostrati attraverso una circostanziata critica delle soluzioni concrete adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016).
3.3. – Il controllo affidato a questa Corte non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia alla opinione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in una nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (Cass. n. 20012 del 2014; richiamata anche dal Cass. n. 25332 del 2014). Sicchè, in ultima analisi, tale motivo si connota quale riproposizione, notoriamente inammissibile in sede di legittimità, di doglianze di merito che attingono all’apprezzamento motivatamente svolto dalla Corte di merito (Cass. n. 24817 del 2018).
Così facendo, però, la ricorrente mostra di anelare ad una impropria trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e le vicende processuali, quanto gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi, e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 5939 del 2018).
Ma, come questa Corte ha più volte sottolineato, compito della Cassazione non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che nel caso di specie è dato riscontrare (cfr. Cass. n. 9275 del 2018).
4. – Con il quarto motivo, infine, il ricorrente lamenta la “Discordanza tra motivazione e dispositivo”, là dove la Corte territoriale, nel liquidare le spese, nella motivazione ha affermato di tenere conto che, relativamente ad alcuni appellati, rappresentati dallo stesso difensore, erano state prospettate e svolte identiche questioni con atti dello stesso contenuto, anche se distinti, per cui liquidava, per tali parti appellate, un unico compenso, mentre nel dispositivo stabiliva che fosse liquidato per ognuno di tali appellati l’importo di Euro 3.000,00, con evidente discrasia tra quanto statuito in motivazione e quanto statuito nel dispositivo.
4.1. – Il motivo è inammissibile.
4.2. – Trattasi all’evidenza, ictu oculi, non già di vizio in procedendo, peraltro neppure specificamente evocato nella formulazione perplessa del motivo, bensì di mero errore materiale.
Questa Corte ha ritenuto che, nel caso in cui sia stato già proposto ricorso per cassazione avverso una sentenza viziata da errore materiale, l’istanza di correzione non può essere proposta dinanzi alla corte di legittimità, ma unicamente al giudice di merito, a norma dell’art. 287 c.p.c.. E tale principio ancor più deve essere confermato dopo la pronuncia di parziale illegittimità costituzionale del detto art., dettata dalla sentenza della Corte Cost. n. 335 del 2004, limitatamente alle parole “contro le quali non sia stato proposto appello”, sicchè il solo giudice competente alla correzione è quello che ha emesso la sentenza affetta dall’errore (Cass. n. 9968 del 2005; conf. Cass. n. 5727 del 2015).
5. – Il ricorso va rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa la dichiarazione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento in favore dei controricorrenti delle spese del presente grado di giudizio, che liquida per ciascuno in complessivi Euro 3.200,00 di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, della Corte Suprema di Cassazione, il 29 ottobre 2019.
Depositato in Cancelleria il 16 gennaio 2020
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