LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –
Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – rel. Consigliere –
Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – Consigliere –
Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –
Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 6044/2018 proposto da:
K.A.K., elettivamente domiciliato in Milano, Via Lamarmora n. 42, presso lo studio dell’avv.to Stefania Santilli, che la rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Ministero Dell’interno *****;
– intimato –
avverso la sentenza n. 1038/2017 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 10/07/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 28/05/2019 da Dott. SAN GIORGIO MARIA ROSARIA.
FATTI DI CAUSA
1.-Il Tribunale di Brescia, con ordinanza del 2 marzo 2016, rigettò la domanda, proposta da K.A.K. con ricorso D.Lgs. n. 25 del 1998, ex art. 35, del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 19 e art. 702-bis c.p.c., di riconoscimento, in via gradata, dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria o del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. A sostegno di tale domanda, il richiedente aveva esposto di essere cittadino della *****, di religione ***** e di etnia *****; di aver abbandonato il proprio Paese in data 31 dicembre 2010 a causa del clima di violenza ivi insorto a seguito delle elezioni politiche del 2010, rifugiandosi in Niger, dove era rimasto per circa cinque mesi; di aver appreso della uccisione del proprio padre, nel marzo del 2011, per mano dei militari armati del ***** ad un posto di blocco, in quanto scambiato per il capo ribelle K.Z. in ragione dell’omonimia; di aver raggiunto la Libia nel giugno del 2011, e di aver trovato occupazione come imbianchino e piastrellista; di essere stato imprigionato per circa nove mesi durante la crisi libica, quindi liberato dal “capo della prigione”, che lo aveva trattenuto presso di sè come domestico; infine, di essere fuggito dalla Libia nel settembre del 2014 per raggiungere l’Italia.
A sostegno del rigetto della domanda, il Tribunale adito rilevò la insussistenza dei presupposti di fatto e di diritto per l’applicazione della richiesta protezione nelle sue varie forme.
2.- Avverso tale provvedimento K.A.K. interpose gravame, che fu respinto dalla Corte d’appello di Brescia con sentenza n. 1038 del 2017. Il giudice di secondo grado confermò la valutazione di non credibilità delle affermazioni del richiedente operata dal Tribunale, sottolineando che l’appellante aveva riferito in modo generico e confuso sul clima di violenza esistente nel proprio Paese nel periodo fra il 2010 e il 2011, e rilevando la incongruenza del racconto con riguardo alla relazione cronologica tra l’omicidio del padre – peraltro dovuta alla vicenda accidentale connessa ad un errore sulla sua identità – e la propria fuga, mentre non risultava che il richiedente stesso fosse stato vittima di episodi di violenza nel Paese di origine. La Corte di merito aggiunse che, con riferimento al clima generale esistente in *****, il portale web del Ministero degli Esteri riportava che, dopo la grave crisi degli anni 2010-2011, si erano registrati progressi in materia di sicurezza, sicchè la situazione geo-politica del Paese sembrava aver trovato un suo equilibrio endemico. Appariva, pertanto, improbabile che il richiedente, in seguito al suo rientro nel proprio Paese di origine, potesse subire atti persecutori ovvero che corresse il rischio di un grave danno. Con riguardo al mancato riconoscimento della protezione umanitaria, la Corte rilevò che gli elementi emersi nel corso del giudizio non offrivano alcuna evidenza in ordine ad una peculiare situazione di vulnerabilità dell’appellante.
3.- Per la cassazione di tale sentenza ricorre K.A.K. sulla base di quattro motivi. Il Ministero dell’Interno è rimasto intimato.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.-Con il primo motivo si lamenta “violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 4,5,6 e 14, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27, artt. 2 e 3 CEDU, nonchè omesso esame di fatti decisivi ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5”. Il ricorrente contesta il giudizio sulla non credibilità delle sue affermazioni ed il carattere di genericità attribuito dalla Corte di merito alla sua narrazione, sottolineando di avere chiaramente indicato il motivo politico della sua persecuzione e della sua fuga ed il nesso causale esistente tra i motivi politici e la persecuzione che indirettamente aveva subito. Fa altresì presente di avere dedotto in giudizio la circostanza di essere stato raggiunto anche personalmente da minacce, circostanza ignorata dal giudice di merito, come la considerazione della condizione dei perseguitati politici *****. Osserva il ricorrente che le persecuzioni sofferte in passato sono di eccezionale gravità, sia a livello personale che sociale, e che, pertanto, anche ove una futura reiterazione delle stesse appaia oggettivamente irrealistica, la persona che ne sia stata colpita può essere riconosciuta rifugiata.
2.- La censura non può trovare ingresso nel presente giudizio. Ed infatti, a parte la considerazione che il ricorrente non menziona la fase e l’atto del giudizio in cui avrebbe allegato il fatto della minaccia alla vita subita in forma diretta – non ravvisandosi tale deduzione tra i passaggi, riportati testualmente nel ricorso, dell’atto di citazione in appello e della memoria conclusionale -, deve rilevarsi che la doglianza, pur formalmente riferita a violazioni di legge, si risolve sostanzialmente in censura di fatto, essendo volta a conseguire una rivisitazione del merito della vicenda processuale, non consentita nel presente giudizio di legittimità. La valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto, rimesso al giudice del merito – e censurabile solo nei limiti di cui al novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1, pur vanamente evocato dal ricorrente.
Nella specie, il giudice di merito ha ampiamente ed adeguatamente motivato in ordine alla ritenuta genericità ed inattendibilità della narrazione del ricorrente circa i motivi che lo avrebbero indotto ad abbandonare il suo Paese, elencando le ragioni che ostano alla sua credibilità. Ha, in particolare, fatto riferimento alla non coincidenza temporale tra l’assassinio del padre e la fuga, nonchè al riconoscimento, da parte dello stesso ricorrente, che il predetto assassinio fu dovuto ad un errore sulla identità del padre. Ha poi chiarito il giudice di secondo grado che non risulta che il ricorrente sia stato vittima di episodi di violenza nel Paese di origine, concludendo per la inesistenza di alcun elemento concreto di una eventuale persecuzione ai danni dello stesso. Con riferimento al clima generale esistente nel Paese di origine, la Corte si è poi fatta carico del suo obbligo di cooperazione istruttoria, richiamando le fonti di osservazione (portale web del Ministero degli Esteri) dalle quali ha desunto la esistenza di un processo di stabilizzazione in atto rispetto agli scontri fra fazioni contrapposte che avevano caratterizzato il periodo precedente, ed i progressi in materia di sicurezza soprattutto nelle principali città del Paese.
3.- Le argomentazioni dianzi esposte danno altresì conto della infondatezza della seconda censura, con la quale si lamenta la “violazione dei parametri normativi relativi alla credibilità delle dichiarazioni dei richiedenti fissati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. C), non avendo compiuto alcun esame comparativo tra le informazioni provenienti dal richiedente stesso e la situazione degli ***** nelle aree da esso indicate da eseguirsi mediante la puntuale osservanza degli obblighi di cooperazione istruttoria incombenti sull’autorità giurisdizionale”. La Corte di merito, come dianzi chiarito, ha, infatti, acquisito, attraverso le fonti istituzionalmente a ciò preposte, informazioni aggiornate sulla situazione della sicurezza in *****, e, nell’esercizio della sua discrezionalità, le ha valorizzate, privilegiandole rispetto alla tesi prospettata dal ricorrente al fine di pervenire alle proprie conclusioni in ordine alla insussistenza dei presupposti per riconoscere la protezione internazionale in favore del richiedente, dando compiutamente conto delle ragioni della negata tutela.
4.- Con il terzo motivo si deduce “omesso esame di fatti decisivi; violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 14, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27, artt. 2 e 3 CEDU. Violazione dei parametri normativi per la definizione di un danno grave”. La sentenza impugnata viene censurata nella parte in cui afferma che dopo la grave crisi del 2010-2011 si registrano progressi in materia di sicurezza soprattutto nelle principali città del Paese. Il ricorrente si sofferma ancora sulla asserita mancata attivazione della Corte in ordine all’assunzione di precise informazioni sulla condizione degli oppositori al regime e sulla violazione dei diritti umani nel Paese di cui si tratta, in qualche modo riconosciuta dalla stessa Corte nel porre in evidenza solo alcuni progressi registrati negli ultimi anni. In relazione al mancato riconoscimento della protezione sussidiaria, il ricorrente lamenta che il giudice di secondo grado non avrebbe compiuto alcun esame in ordine al grave rischio per sè, prospettato per il caso di rientro in patria, laddove, se non convinto delle affermazioni del richiedente, avrebbe dovuto assolvere il suo obbligo di assumere le informazioni mancanti o asseritamente non fornite dal richiedente medesimo.
5.- Il motivo è privo di fondamento.
Esso mescola alcuni rilievi cui si è già fornita risposta sub 2 e 3 con la considerazione del mancato approfondimento del grave danno cui sarebbe esposto l’attuale ricorrente in caso di rientro in Patria. Ma, una volta esclusa legittimamente, per quanto già precisato – la credibilità del racconto del richiedente, viene meno il requisito della individualità del pericolo, indefettibile ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria quanto alle ipotesi di cui alle lettere a) – condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte – e b) – tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese d’origine – del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 e superabile, quanto alla ipotesi di cui allo stesso art. 14, lett. c – minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile – solo in caso di accertamento di una violenza indiscriminata in situazioni, come specificato dalla stessa norma, di conflitto armato interno o internazionale: situazioni in cui il grado di violenza raggiunge un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nel Paese in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di quest’ultimo, un rischio effettivo di subire minaccia: situazione, codesta, all’evidenza esclusa dalla Corte, e, del resto, non dedotta nemmeno nel giudizio di merito.
6. – Con il quarto motivo si deduce “violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 2 e art. 10, comma 3, motivazione apparente in relazione alla domanda di protezione umanitaria e alla valutazione di assenza di specifica vulnerabilità; omesso esame di fatti decisivi circa la sussistenza dei requisiti di quest’ultima”. La sentenza impugnata, nel negare il riconoscimento della protezione umanitaria, non avrebbe valutato la situazione di vulnerabilità del ricorrente in relazione alle condizioni da lui fatte valere nel giudizio di appello, in ragione del fatto che egli aveva risieduto per tre anni e nove mesi in Libia, Paese in cui si registra un progressivo aggravarsi delle condizioni di sicurezza, scontri armati e una crescente minaccia terroristica, nonchè del suo attuale radicamento a *****, dove risiede ed ha una occupazione lavorativa, ed infine delle massicce violazioni dei diritti umani in *****: tutte circostanze, codeste, sulle quali la Corte d’appello avrebbe omesso ogni approfondimento.
7.- Anche questo motivo è immeritevole di accoglimento.
Il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, postula la verifica che il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (v. Cass., sent. n. 4455 del 2018).
Nella specie, correttamente la Corte di merito ha escluso la sussistenza delle condizioni per il riconoscimento della protezione umanitaria in assenza di elementi che denotino una peculiare fragilità del ricorrente, che si è limitato a richiamare la generale situazione politica in ***** – sulla quale la Corte, come dianzi chiarito, ha motivatamente formulato una valutazione diversa da quella dallo stesso rappresentata -, senza fare specifico riferimento a condizioni qualificate di vulnerabilità personale, ed ha richiamato il pregresso periodo di permanenza in Libia, che nessuna incidenza può rivestire sull’apprezzamento de quo.
8.- In definitiva, il ricorso deve essere rigettato. Non vi è luogo a provvedimenti sulle spese del presente giudizio, non avendo il Ministero intimato svolto alcuna attività difensiva. Si dà atto che non sussistono i presupposti per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, stante l’ammissione del ricorrente al patrocinio a spese dello Stato.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima civile, il 28 maggio 2019.
Depositato in Cancelleria il 7 gennaio 2020