LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –
Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –
Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –
Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –
Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 12584/2014 R.G. proposto da:
Intergrafica s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Nicola Cavallaro, elettivamente domiciliata in Roma, Via della Balduini n. 289, presso lo studio dell’Avv. Maria Gloria di Loreto, in virtù di procura speciale a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliata in Roma, alla Via dei Portoghesi n. 12;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia, n. 262/63/2013, depositata il 12 novembre 2013.
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 21 novembre 2019 dal Consigliere Luigi D’Orazio.
RILEVATO
che:
1. La Commissione tributaria regionale della Lombardia accoglieva l’appello proposto dalla Agenzia delle entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Bergamo, che aveva accolto i ricorsi proposti da l’Integrafica contro gli avvisi di accertamento emessi nei suoi confronti dalla Agenzia delle entrate, per gli anni 2005, 2006 e 2007, con la determinazione di maggiori imposte ai fini Ires, Iva e Irap. In particolare, il giudice di appello rilevava che, sulla base di un processo verbale di constatazione, era stata rilevata una sovrastima delle rimanenze finali, al fine di occultare i ricavi, che nell’appello l’Ufficio aveva rinunciato alle pretese ai fini Ires ed Irap, ma tale riconoscimento non poteva estendersi all’Iva. Il primo giudice, dunque, era andato oltre il riconoscimento effettuato dall’Ufficio solo ai fini Ires ed Irap, ma non per l’Iva, sicchè le osservazioni della appellata in ordine alle rimanenze non erano fondate in relazione all’Iva “rilevando le dette rimanenze a fini reddituali”. Era confermata la ripresa a tassazione per costi di carburante non contestata con il ricorso introduttivo.
2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la società.
3. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.
CONSIDERATO
che:
1. Con il primo motivo di impugnazione la società deduce “violazione ed errata applicazione dell’art. 115 c.p.c., comma 1, (motivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”, in quanto, a fronte del riconoscimento e della relativa rinuncia della Agenzia delle entrate alla pretesa, il giudice di appello ha errato nel ritenere che tale riconoscimento era avvenuto solo ai fini dell’Ires e dell’Irap, ma non dell’Iva. Nell’atto di appello l’Ufficio non aveva contestato i fatti, giungendo ad affermare che “nel merito ha sostanzialmente riconosciuto le ragioni di controparte”. Del resto, il giudice di primo grado aveva accolto i ricorsi in quanto “l’Ufficio, prendendo atto del macroscopico errore in cui è incorso, ha rinunciato alla pretesa”.
2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente lamenta la “nullità della sentenza e del procedimento per violazione dell’art. 112 c.p.c. (motivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4)”, in quanto la sentenza del giudice di appello è affetta da nullità del procedimento e da error in procedendo per avere pronunciata “extra ed ultra petizione”, una volta che l’Agenzia delle entrate aveva riconosciuto la pretesa del ricorrente, quanto al merito, ” a nulla valendo l’inciso in tema di Iva”.
3. Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “violazione ed errata applicazione dell’art. 111, comma 2, della Costituzione (motivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”, in quanto l’avere la sentenza ritenuto non operare il riconoscimento ovvero la rinuncia effettuata dalla Agenzia delle entrate in primo grado con riguardo all’Iva comporta un avvenuto squilibrio processuale contro la ricorrente.
4. Con il quarto motivo di impugnazione la ricorrente deduce “violazione ed errata applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21 (motivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”, in quanto per l’Ufficio, ai fini Iva, il riconoscimento delle componenti negative di reddito, come effettuato dallo stesso, non aveva alcuna rilevanza. Infatti, mentre ai fini Ires ed Irap le rimanenze finali costituivano una componente del reddito di impresa, e quindi incidevano sull’imposta, ai fini Iva rilevava unicamente la mancata fatturazione delle operazioni imponibili accertate (qualificate come ricavi ai fini delle imposte dirette). Per la società, invece, se non possono esserci maggiori ricavi per difetto dei predetti requisiti non possono esserci neppure maggiori imponibili Iva. La base imponibile è l’elemento essenziale per l’applicazione dell’Iva.
5. Con il quinto motivo la ricorrente si duole della “violazione ed errata applicazione dell’art. 85 D.P.R. n. 917/1986 (motivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”, in quanto la nozione di ricavo al “limitato” fine della applicazione della imposta Iva non rientra tra le ipotesi previste dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 85. La sentenza, quindi, è “censurabile” laddove ritiene ammissibile un riconoscimento (ovvero una rinuncia) ai fini delle imposte Ires ed Irap, mentre in sede di Iva rimarrebbero i presunti maggiori ricavi tassabili.
5.1 motivi primo, secondo, terzo, quarto e quinto, che vanno trattati congiuntamente per ragioni di connessione, sono infondati.
Invero, è pacifico in atti che l’Agenzia delle entrate ha ammesso di aver commesso un errore nella determinazione del reddito della società ai fini Irap ed Ires. Infatti, l’Agenzia delle entrate ha accertato maggiori ricavi della società, ritenendo di importo inferiore le rimanenze finali, quindi ritenendo che le rimanenze erano state “aumentate” di proposito per consentire ricavi occulti con la vendita di merce senza fatturazione. Tuttavia, l’Ufficio si è, poi, accorto, che se erano stati determinati maggiori ricavi, in luogo di rimanenze “gonfiate”, era chiaro che, per l’accertamento del reddito effettivo della società, era necessario ridurre le rimanenze a quelle effettive.
Ciò emerge proprio dal ricorso per cassazione articolato dalla società ed anche dalla sentenza di appello. In quest’ultima, infatti, si precisa che “sulla base del PVC della Guardia di finanza di Bergamo, aveva rilevato una sovrastima delle rimanenze finali con finalità, secondo l’Ufficio, di occultamento di ricavi”. La contribuente aveva, quindi, osservato che “a fronte di maggiori ricavi accertati doveva corrispondentemente essere considerata la diminuzione della rimanenze finali”. Sempre in sentenza si legge che “si costituiva l’Ufficio che riconosceva la correttezza della necessaria diminuzione delle rimanenze di materiali pari all’importo delle lastre utilizzate per la produzione”, ma che “detto riconoscimento…non poteva rilevare ai fini Iva”.
In particolare, con l’appello “l’Ufficio…osserva che l’azzeramento della pretesa erariale ai fini Ires e Irap non poteva consentire l’annullamento degli avvisi, in quanto il detto riconoscimento non poteva estendersi all’Iva” (cfr. sentenza di appello).
Nel ricorso per cassazione della società si chiarisce che l’accertamento era viziato per “avere l’organo accertatore provveduto ad indicare la variazione in aumento dei maggiori ricavi accertati senza, a quel punto, trattare dell’altro profilo della correlativa variazione in diminuzione delle minori rimanenze finali accertate, cosicchè la ricorrente si trovava ad essere, in definitiva, esposta ad una doppia tassazione” (cfr. pag. 4 del ricorso per cassazione della società).
Il giudice di appello, seppure con stringata, motivazione (ha accolto l’appello dell’Ufficio in relazione all’Iva, in quanto “le osservazioni dell’appellata in ordine alle rimanenze non colgono nel segno, per quanto attiene all’Iva, rilevando le dette rimanenze a fini reddituali”.
Pertanto, il giudice di appello ha ritenuto che l’Agenzia delle entrate ha aumentato i ricavi della società, ritenendo “gonfiate” le rimanenze finali della stessa, ma avrebbe dovuto, ai fini Ires ed Irap, diminuire nella medesima misura le stesse rimanenze, perchè, diversamente, avrebbe effettuato una doppia tassazione.
Le medesime considerazioni, ovviamente, non valevano ai fini Iva, in quanto in tal caso sono stati determinati maggiori ricavi, mentre non rilevano le rimanenze, ma solo le fatture “passive” eventualmente ricevute, al fine della detrazione.
Pertanto, non v’è7stata alcuna ammissione da parte della Agenzia delle entrate in relazione alla tassazione ai fini Iva dei maggiori ricavi determinati, nel pieno rispetto, quindi, dell’art. 115 c.p.c.. La non contestazione, o l’ammissione, v’è stata solo in relazione alla tassazione ai fini Ires ed Irap, dovendosi considerare in entrambi i casi la diminuzione delle rimanenze finali. Nè il giudice di appello è incorso in vizio di ultra petizione, in quanto l’Ufficio ha sempre mantenuto ferma la ripesa a tassazione ai fini Iva. Nè v’è stata violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, che attiene alla diversa ipotesi della emissione di fatture per operazioni inesistenti, sicchè l’imposta è dovuta, a titolo di sanzione, per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura. Nella specie, invece, l’Agenzia delle entrate ha accertato che non erano state emesse fatture per operazioni effettivamente realizzate.
6. Con il sesto motivo di impugnazione la ricorrente deduce “violazione ed errata applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 5 e dell’art. 2729 c.c. (motivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”, in quanto il giudice di appello ha accolto il gravame dell’Ufficio in merito alla doglianza di Euro 2.449,16 di costi complessivi di carburante, indebitamente dedotti dalla società perchè si tratterebbe di spese riferite a schede prive degli estremi identificativi del veicolo. La società, però, nel corso degli anni ha usato un solo veicolo. L’Ufficio avrebbe dovuto utilizzare presunzioni gravi, precise e concordanti di cui all’art. 2729 c.c..
6.1. Tale motivo è inammissibile.
Invero, il giudice di appello ha affermato, in relazione alla non deducibilità dei costi del carburante, che la società non ha contestato tale ripresa a tassazione con il ricorso introduttivo (cfr. sentenza di appello “va confermata la ripresa per costi di carburante che neppure era stata contestata con il ricorso introduttivo”; anche “…la contribuente…infine, non contestava le riprese per costi di carburante”).
Nel ricorso per cassazione, invece, la società si limita a dedurre che la società possedeva ed utilizzava un solo autoveicolo, senza però incentrate la censura sulla effettiva ratio decidendi del giudice di appello, che ha ritenuto che la società non ha impugnato tale specifica ripresa a tassazione, con l’avvenuta definitività dell’avviso di accertamento sul punto.
Pertanto, il motivo, poichè non coglie la ratio decidendi della sentenza di appello, va dichiarato inammissibile.
7. Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico della ricorrente, per il principio della soccombenza, e si liquidano come da dispositivo.
PQM
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente a rimborsare in favore della Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi Euro 2.300,00, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 21 novembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2020
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