Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.990 del 17/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – rel. Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5544/2014 proposto da:

B.M., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCO CARILE;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore, in proprio e quale mandatario della S.C.C.I. S.P.A. società di cartolarizzazione dei crediti I.N.P.S., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentati e difesi dagli avvocati ANTONINO SGROI, CARLA D’ALOISIO, EMANUELE DE ROSE, LELIO MARITATO;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 27/2014 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 09/01/2014, R.G.N. 546/2013.

RILEVATO

che:

1. La Corte di appello di Ancona ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva respinto le opposizioni proposte da B.M., accomandatario della B.M. e C. s.a.s. e coobligato in solido della B.V. & C. s.a.s., avverso le cartelle con le quale era stato intimato il pagamento della somma di Euro 21.822,58, a titolo di contributi SSN Aziende relativa a periodi dal marzo 1993 all’agosto 1996 la prima, e della somma di Euro 16.825,07 ed Euro 4.192,17 la seconda riguardante importi dovuti per Contributi aziende e contributi SSN Aziende per il periodo settembre 1996 dicembre 1997.

2. La Corte di merito ha ritenuto infatti che l’eccepita prescrizione dei crediti riportati nelle cartelle era rimasta sospesa durante il corso della procedura fallimentare che aveva investito la società e gli accomandatari in proprio e fino alla revoca della sentenza di fallimento (dall’11 febbraio 2000 all’11 aprile 2009), irrilevante l’assoluzione da parte del giudice penale del ricorrente per non avere esercitato i poteri del socio accomandatario atteso che in quella sede era stato escluso l’elemento psicologico del reato laddove invece ai fini della responsabilità civile ciò che rileva è la mera titolarità dei poteri indipendentementee dall’esercizio degli stessi.

3. Per la cassazione della sentenza propone ricorso B.M. che articola tre motivi ai quali resiste con controricorso l’Inps. Il ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., ed ha depositato con nota del 30 settembre 2009 Estratti del ruolo del 4.3.2019 che ha notificato anche all’Inps, a sostegno della ritenuta sopravvenuta cessazione della materia del contendere sul primo motivo di ricorso.

CONSIDERATO

che:

4. Preliminarmente deve essere dichiarata inammissibile la produzione degli estratti del ruolo, sebbene notificata alla controparte, atteso che, a norma dell’art. 372 c.p.c., non è ammessa la produzione di documenti non prodotti nei precedenti gradi del processo con l’eccezione di quelli che riguardano la nullità della sentenza e l’ammissibilità del ricorso e del controricorso.

5. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’omessa pronuncia e/o motivazione con riguardo all’insinuazione nel fallimento del credito previdenziale.

Osserva il ricorrente che la Corte territoriale, nel ritenere infondata l’eccezione di prescrizione formulata, parte dal presupposto implicito che il credito previdenziale sia stato insinuato al fallimento sebbene proprio nel suo primo motivo di appello il B. avesse contestato proprio tale circostanza osservando che sin dal primo grado si era chiesto di provare il contrario.

6. La censura è inammissibile sotto vari profili.

6.1. Ed infatti il motivo di ricorso contiene una commistione di censure, una mescolanza non scindibile di vizio motivazionale e violazione di legge, che non consente alla Corte di individuare con chiarezza sotto quale profilo si intende esattamente denunciare la sentenza.

6.2. A ciò si aggiunga che il motivo non è adeguatamente specifico.

Se infatti si deduca di aver contestato l’avvenuta insinuazione al passivo del credito da parte dell’Istituto (atto interruttivo della prescrizione), circostanza che i giudici di merito hanno ritenuto non contestata, si sarebbe dovuto precisare in che termini e quando tale contestazione era intervenuta.

7. Il secondo motivo ed il terzo motivo di ricorso devono essere rigettati.

7.1. Questa Corte nel decidere analoga controversia tra le stesse parti (cfr. Cass. 25/02/2019 n. 5428) e con riguardo a censure identiche a quelle poste nel presente giudizio ha affermato che il socio accomandatario di una società di persone è illimitatamente responsabile delle obbligazioni sociali per effetto della mera titolarità dei poteri connessi alla qualifica ricoperta, indipendentemente dall’esercizio degli stessi, con il primo motivo di ricorso, dedotto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, si afferma.

7.2. In particolare, con riguardo alla violazione dell’art. 654 c.p.p., per essersi violato il giudicato che discende dalla sentenza penale emessa a seguito di dibattimento, con cui il B. è stato assolto, per non avere commesso il fatto, dall’imputazione rispetto ad alcuni reati tributari, questa Corte ha ritenuto che se non vi è dubbio che “l’assoluzione per non aver commesso il fatto dispieghi gli effetti di giudicato nel processo civile in cui si controverta su un “diritto o a un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende dall’accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale” (art. 654 c.p.p.)” tuttavia nel caso di specie il giudice penale ha affermato che B.M. non poteva essere responsabile per i reati tributari a lui imputati, perchè egli aveva agito come “mero dipendente” e sì era “disinteressato sia dell’aspetto gestionale che di quello dell’amministrazione”, sicchè il suo “effettivo ruolo” era risultato “disgiunto dai poteri che l’eguale qualifica di socio accomandatario avrebbe dovuto comportare” (così la sentenza penale negli stralci riportati nel ricorso per cassazione)”. Ha poi osservato che “la Corte d’Appello ha ritenuto che tali accertamenti siano del tutto irrilevanti perchè, afferma la sentenza impugnata, per la responsabilità civile evocata dall’ente previdenziale “è sufficiente la mera titolarità dei poteri, indipendentemente dall’esercizio degli stessi”” ed ha ritenuto tale valutazione giuridicamente esatta poichè la posizione formale di socio illimitatamente responsabile è in sè sufficiente, a prescindere dal fatto che in concreto la veste di accomandatario sia svolta da altri, a suscitare la responsabilità solidale per i debiti societari. Ha escluso poi che si possa attribuire rilievo al mancato esercizio, nel che consistono i “fatti materiali” da aversi per accertati ex art. 654 c.p.p., delle funzioni di accomandatario, anche perchè è del tutto legittimo che i terzi facciano affidamento di per sè sulla veste formalmente risultante, a prescindere dal concreto esercizio della corrispondente funzione. In sostanza, mentre ha senso, a maggior tutela dei creditori che sono esterni rispetto all’attività economica societaria, far leva sui comportamenti di fatto quali fonti della responsabilità per i soci di fatto di società di persone verso i terzi, non può invece valorizzarsi, al contrario, il mancato esercizio – sempre di fatto – delle funzioni formalmente attribuite, perchè è su tale attribuzione che si fonda non solo l’affidamento dei terzi sulla responsabilità degli amministratori delle medesime società, ma la fattispecie stessa (artt. 2318 e 2291 c.c.) di tale responsabilità.

7.3. Quanto agli effetti della revoca del fallimento sulla prescrizione, oggetto del terzo motivo di ricorso, va qui ribadito l’insegnamento secondo cui “la revoca del fallimento (…) lascia salvi gli effetti prodotti dalle domande di ammissione al passivo sul decorso del termine di prescrizione dei relativi crediti, non rilevando in proposito il disposto della L. Fall., art. 21, che si riferisce agli atti degli organi della procedura, non a quelli compiuti nei confronti di essa; nè la revoca comporta l’estinzione della procedura fallimentare, con la conseguenza che trova applicazione la regola di cui dell’art. 2945 c.c., comma 2, con la sospensione del corso della prescrizione, e non quella di cui al comma 3 della medesima norma, che fa salvo, nel caso di estinzione del processo, il solo effetto interruttivo prodotto dalla domanda giudiziale” (cfr. Cass. 06/09/2006 n. 19125). La regola generale è quella che l’effetto interruttivo opera per tutto il corso del processo, sino al passaggio in giudicato della sentenza che lo definisce (art. 2945 c.c., comma 2), a prescindere dalle ragioni che sovrintendono alla chiusura del processo stesso e quale conseguenza del fatto che “il giudizio, in cui viene esplicitata la pretesa sostanziale, esprime di per sè la volontà della parte di esercitare il diritto”. L’unica eccezione è costituita dall’estinzione (art. 2945 c.c., comma 3), quale “pronuncia priva di statuizioni che incidano sui rapporti tra le parti”. Certamente la revoca della dichiarazione di fallimento non può ricondursi ad una pronuncia di estinzione, in quanto essa è semmai è da assimilare al rigetto (di merito) della pretesa esecutiva in forma concorsuale oppure, osservando l’operatività del fenomeno, alla chiusura di un procedimento che ha comunque prodotto effetti, la cui retrattabilità, almeno dal punto di vista patrimoniale, va apprezzata in ragione della struttura della fattispecie volta a volta interessata e quindi, qui, in riferimento alle citate norme sulla relazione tra processo e prescrizione. E’ del resto consolidato il principio per cui l’istanza di insinuazione al passivo ha portata interruttiva della prescrizione, con effetti permanenti fino alla chiusura del procedimento concorsuale (Cass. 25/11/2013 n. 17995, 20/11/2002 n. 16380 ed anche Cass. 19/04/2018 n. 17995).

8. In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, va poi dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 4.000,00 per compensi professionale, Euro 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale, il 6 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2020

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