LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRUSCHETTA Ernestino – Presidente –
Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –
Dott. NONNO Giacomo – Consigliere –
Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere –
Dott. NOVIK Adet – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 5995/2015 R.G. proposto da:
Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
Megastore s.r.l., in persona del liquidatore G.A., rappresentata e difesa dall’avv. Luigi Carbone, elett. dom. presso lo studio dell’avv. Simona Martinetti, in Roma, via delle Milizie 4, (studio Martelli & Partners);
– controricorrente e ricorrente incidentale –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Puglia, n. 1668/07/14, depositata il 21 luglio 2014, non notificata.
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 24/02/2021 dal Consigliere Adet Toni Novik.
RILEVATO
CHE:
– l’agenzia delle entrate (di seguito: l’agenzia) propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale delle Puglie n. 1668/07/14, depositata il 23 maggio 2014, che ne aveva rigettato l’appello proposto avverso la sentenza di primo grado ad essa sfavorevole: con il ricorso originario la società Megastore Srl (di seguito: la contribuente o la società), esercente attività di commercio all’ingrosso di prodotti di telefonia ed elettrodomestici, aveva impugnato l’avviso di accertamento per l’anno di imposta 2005, con cui era stata accertata evasione di tributi (Ires, Irap ed Iva) per costi indeducibili, conseguenti all’utilizzo di fatture soggettivamente inesistenti emesse dalla società Netcom Srl, ritenuta cartiera; erano state applicate sanzioni ed interessi;
– il giudice di appello confermava la sentenza di primo grado affermando che l’accertamento, non eseguito direttamente sulla contabilità della contribuente ma su quella della fornitrice, si rivelava fondato su congetture ed illazioni, non essendo possibile riversare sulla prima le conseguenze degli illeciti finanziari commessi dall’altra; osservava che, nel caso in esame, i pagamenti delle fatture di acquisto erano stati effettuati a mezzo assegni e bonifici bancari verso la fornitrice Netcom e ciò era sufficiente a dimostrare la regolarità e la validità delle operazioni transattive, rispetto alle quali l’agenzia non aveva offerto elementi certi in base ai quali ipotizzarne la falsità; tali elementi, a dire della CTR, non potevano essere ravvisati nel sollecito pagamento delle forniture e nella mancanza di dilazioni/rateizzazioni, rientranti “nella sfera privata/commerciale tra i contraenti non sussistendo una regola predeterminata/legale”; rilevava come rispetto alle imposte dirette ed all’Irap vi era stata acquiescenza e/o rinuncia parziale non essendo state le statuizioni del primo giudice oggetto di motivi di impugnazione; richiamava sul punto la giurisprudenza relativa alla deducibilità, ai fini delle imposte dirette Irap ed Ires, dei costi derivanti da operazioni soggettivamente inesistenti; quanto all’Iva, con richiamo di giurisprudenza nazionale e sovranazionale, riteneva “che in tema di Iva, la fatture è documento idoneo a documentare un costo dell’impresa”, sicchè spettava all’amministrazione dimostrare la falsità del documento e provare che l’operazione commerciale oggetto della fattura non fosse mai stata posta in essere; nel caso in esame, la verifica era stata eseguita nei confronti di un terzo soggetto e l’accertamento nei confronti della contribuente non era “assolutamente assistito da prove”; rigettava l’appello incidentale del contribuente sul punto della compensazione delle spese del giudizio di primo grado;
– il ricorso è affidato a due motivi, cui la contribuente resiste con controricorso e ricorso incidentale, supportati da memoria depositata il 12/2/2021.
CONSIDERATO
CHE:
– anzitutto, si rileva che è ammissibile il secondo motivo di ricorso per Cassazione che contiene la deduzione della violazione di due distinti disposti, qualora sia possibile all’interno del motivo individuare le argomentazioni e le censure relative a ciascuno di essi. In materia di ricorso per cassazione, il fatto che un singolo motivo sia articolato in più profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo, non costituisce, di per sè, ragione d’inammissibilità dell’impugnazione, dovendosi ritenere sufficiente, ai fini dell’ammissibilità del ricorso, che la sua formulazione permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate onde consentirne, se necessario, l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati (Cass. Civ., Sez. Un., 6 maggio 2015, n. 9100). Nel caso in esame, la violazione di legge è stata posta a fondamento della doglianza relativa alla prova dell’elemento soggettivo della partecipazione alla frode del cessionario, mentre la falsa applicazione riguarda il diritto alla detrazione di costi non inerenti all’attività di impresa;
– con il primo motivo, l’agenzia eccepisce: “Violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 44, comma 1, art. 46, comma 1, e art. 329 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4 (erronea declaratoria di estinzione parziale del giudizio)”; in sintesi, sarebbe erronea l’affermazione della CTR sul punto della acquiescenza o rinuncia sui rilievi riguardanti le imposte dirette, in quanto, al contrario, l’agenzia sulla base dello jus superveniens aveva chiesto la conferma dell’accertamento limitatamente alla indeducibilità delle spese sostenute per la commissione del reato ovvero a causa dello stesso, determinata nel 20% del costo indeducibile, pari ad Euro 19.071,00;
– la censura è fondata;
– nell’atto di appello l’agenzia aveva dedotto che la deducibilità dei costi con comprendeva le spese sostenute per la commissione del reato ovvero a causa dello stesso; in questo senso, aveva chiesto “di confermare l’avviso di accertamento impugnato…. parzialmente per i costi nella misura sopraindicata, con le sanzioni ricalcolate di conseguenza: è quindi erronea la sentenza che ha limitato l’esame del gravame solo all’Iva.
– Con il secondo motivo, l’agenzia deduce: “Violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 2,1 comma 7, ai fini Iva e del D.L. 2 marzo 212, n. 16, art. 8, comma 2, convertito, con modificazioni, nella L. 26 aprile 2012, n. 44, ai fini delle imposte dirette, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, osservando che nel corso del giudizio l’ufficio aveva dettagliato (alle pagg. 1114 del ricorso) la frode tributaria nei seguenti termini: – A) la Netcom aveva sedi fittizie ed era priva di una struttura aziendale in grado di far fronte ai rapporti con la molteplicità dei fornitori e dei clienti; -; b) la vendita dei beni era avvenuta sotto costo, ad un prezzo inferiore a quello di acquisto; c) assenza di rischio imprenditoriale, in quanto gli acquisti intracomunitari venivano effettuati solo previo pagamento del prezzo pattuito da parte dei clienti nazionali, mediante bonifici bancari confermati – ritiene quindi che in applicazione dei principi sull’onere della prova spettasse alla parte dimostrare la realità dell’operazione e la mancanza di consapevolezza che la Netcom fosse una cartiera;
– quanto all’imposizione diretta, questa Corte ha affermato il seguente principio di diritto “In tema di imposte sui redditi, a norma della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4-bis, nella formulazione introdotta dal D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, (conv. in L. n. 44 del 2012), poichè nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti i beni acquistati non sono stati utilizzati direttamente “al fine di commettere il reato”, bensì per essere commercializzati, non è sufficiente il coinvolgimento, anche consapevole, dell’acquirente in operazioni fatturate da un soggetto diverso dall’effettivo venditore per escludere la deducibilità, ai fini delle imposte dirette, dei costi relativi a siffatte operazioni anche ove ricorrano i presupposti di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109. (Sez. 5 -, Sentenza n. 27566 del 30/10/2018, Rv. 651269 – 02);
– si è osservato che in conseguenza di quanto dispone la indicata normativa, che quale ius supervienens trova applicazione d’ufficio, ai soggetti coinvolti nelle “frodi carosello” non è più contestabile la deducibilità dei costi, in quanto i beni acquistati non sono stati utilizzati direttamente “al fine di commettere il reato”, ma, salvo prova contraria, per essere commercializzati e venduti;
– pertanto, poichè nel caso in esame non è in contestazione la oggettività delle operazioni commerciali poste in essere dalla società, rimangono fermi i criteri ordinari, previsti dal del Testo Unico delle imposte dirette, art. 109, che impongono la rigorosa verifica della sussistenza – ad opera del giudice di merito – dei principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza e determinabilità dei componenti negativi che possono essere portati in deduzione dal reddito imponibile;
– sul punto, la CTR si limita ad affermazioni generiche, richiamando il principio della deducibilità dei costi, peraltro mai messo in discussione, ma omette di compiere la necessaria verifica in ordine all’integrale deducibilità per intero di quelli asseritamente sostenuti;
– quanto all’Iva, le valutazioni espresse dalla CTR non sono conformi all’orientamento di legittimità secondo cui “In tema di IVA, qualora l’Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture, in quanto relative ad operazioni inesistenti, spetta all’Ufficio fornire la prova che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, non è mai stata posta in essere, indicando gli elementi anche indiziari sui quali si fonda la contestazione, mentre è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indeducibili, non essendo sufficiente, a tal fine, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta di dati e circostanze facilmente falsificabili” (Sez. 5, Sentenza n. 428 del 14/01/2015, Rv. 634233 – 01);
– è superfluo precisare, trattandosi di principi generali, che la prova dell’inesistenza delle operazioni può ben consistere in presunzioni semplici, poichè la prova presuntiva non è collocata su un piano gerarchicamente subordinato rispetto alle altre fonti di prova e costituisce una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza anche in via esclusiva ai fini della formazione del proprio convincimento (Cass. n. 9108 del 2012, cit.);
– pertanto, nel caso in cui l’Ufficio ritenga che la fattura concerna operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti, cioè sia una mera espressione cartolare di operazioni commerciali mai poste in essere da alcuno o siano intercorse tra soggetti che non siano le genuine controparti, e quindi contesti l’indebita detrazione dell’IVA e/o deduzione dei costi, ha l’onere di fornire elementi probatori del fatto che l’operazione fatturata non è stata effettuata (ad esempio, provando che la società emittente la fattura è una “cartiera”, quali ad es. la mancanza di sede, la mancanza di iscrizione, l’omesso versamento delle imposte) o è stata emessa da chi non è stato controparte nel rapporto relativo alle operazioni fatturate, e a quel punto passerà sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate;
– in relazione al tema delle fatture per operazioni (solo) soggettivamente inesistenti, sorge, tuttavia, l’esigenza della tutela della buona fede del contribuente, anche in applicazione della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea (cfr. sentenze 6 luglio 2006, Kittel e Recolta Recycling, C- 439/04 e C- 440/04; 21 giugno 2012, Mahagè ben e David, C- 80/11 e C- 142/11; 6 settembre 2012, Toth, C- 324/11; 6 dicembre 2012, Bonik, C- 285/11; 31 gennaio 20:1L3, Stroy Trans, C- 642/11);
– si rende necessario, quindi, tenere conto della concreta vicenda e delle circostanze di volta in volta presenti, spettando all’Amministrazione dimostrare, ed al giudice verificare, “alla luce di elementi oggettivi e senza esigere dal destinatario della fattura verifiche che non gli incombono, che tale destinatario sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata per fondare il suo diritto alla detrazione si iscriveva in un’evasione dell’Iva”;
– sulla scorta di tale pronuncia, questa Corte ha ritenuto che in alcuni casi “l’onere probatorio dell’amministrazione finisce con l’appesantirsi, in quanto, di norma, non è possibile esigere che il cessionario/committente, al fine di assicurarsi che non sussistano irregolarità o evasioni nella catena delle cessioni, verifichi che l’emittente della fattura correlata ai beni e ai servizi ne disponesse e fosse in grado di fornirli e che abbia soddisfatto i propri obblighi di dichiarazione e di pagamento dell’Iva, o che disponga dei relativi documenti” (Cass. n. 24490 del 02/12/2015; v. successivamente anche Cass. n. 17290 del 13 luglio 2017), rimarcando, tuttavia, che continua a prospettarsi un obbligo di verifica in capo al cessionario a fronte di indizi che gli consentano di sospettare l’esistenza di irregolarità o di evasione, secondo i criteri dell’ordinaria diligenza ed alla luce della qualificata posizione professionale ricoperta, tenuto conto delle circostanze esistenti al momento della conclusione dell’affare ed afferenti alla sua sfera di azione;
– in particolare, (come già sottolineato da Cass. n. 24490 del 2015 cit.), se al destinatario non compete, di norma, conoscere la struttura e le condizioni di operatività del proprio fornitore, sorge, tuttavia, un obbligo di verifica, nei limiti dell’esigibile, in presenza di indici personali od operativi anomali dell’operazione commerciale ovvero delle scelte dallo stesso effettuate ovvero tali da evidenziare irregolarità e ingenerare dubbi di una potenziale evasione, la cui rilevanza è tanto più significativa atteso il carattere strutturale e professionale della presenza dell’imprenditore nel settore di mercato in cui opera e l’aspettativa, fisiologica ed ordinaria, che i rapporti commerciali con gli altri operatori siano proficui e suscettibili di reiterazione nel tempo;
– rileva in proposito Cass. n. 9851/2018 che “In via meramente esemplificativa, poichè la valutazione va in ogni caso ancorata alla concreta vicenda, possono costituire elementi di rilevanza sintomatica: l’acquisto dei beni ad un prezzo inferiore di mercato; la limitatezza dell’eventuale ricarico; la presenza di una varietà e pluralità di soggetti promiscuamente indicati nella documentazione di trasporto e nella fatturazione; la scelta di operare secondo canali paralleli di mercato (che esige una più attenta e approfondita valutazione dei propri interlocutori, proprio per verificarne l’effettività), poco importa se giustificata da esigenze di accelerazione e di margini produttivi; la tempistica dei pagamenti, in ispecie se incrociati od operati su conti esteri a fronte di interlocutori nazionali, ovvero se effettuati cash; la qualità del concreto intermediario con il quale sono state intrattenute le operazioni commerciali; il numero, la qualità e la durata delle transazioni, in ispecie a fronte di rapporti contigui e frequentazioni reiterate con i titolari della cartiera, ovvero nel caso in cui il contribuente abbia rapporti commerciali con una pluralità di soggetti aventi la quantità di cartiera. Refluisce in questa stessa considerazione anche l’ipotesi di operazione triangolare “semplice”, rispetto alla quale la sentenza n. 24426 del 2013 (cui hanno dato seguito Cass. n. 10120 del 21/04/2017, Cass. n. 3474 del 13/02/2018) aveva ritenuto che “l’onere probatorio dell’amministrazione ben può esaurirsi nella prova che il soggetto interposto è privo di dotazione personale e strumentale adeguata all’esecuzione della prestazione fatturata (è, cioè, una cartiera), costituendo ciò, di per sè, elemento idoneamente sintomatico della mancanza di buona fede del cessionario, poichè l’immediatezza dei rapporti tra i soggetti coinvolti nella frode induce ragionevolmente ad escludere l’ignoranza incolpevole del contribuente”;
– nel caso in esame, la CTR, non ha fatto corretta applicazione di questi principi avendo, con palese inversione dell’onere della prova, posto a carico dell’agenzia di “provare che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, in realtà non è mai stata posta in essere”, non considerando che, nel caso in esame, con il proprio appello l’agenzia aveva dettagliato gli elementi di fatto (mancanza di strutture operative idonee da parte della Netcom; vendita dei beni a un prezzo inferiore a quello di acquisto; evasione dell’Iva da parte della cartiera, anomale modalità di pagamento) dai quali inferire l’inesistenza delle operazioni;
– era quindi onere della CTR verificare se gli indizi forniti erano di consistenza tali da rendere legittimo l’accertamento;
– la sentenza va cassata;
– il ricorso incidentale con cui la società deduce la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., e del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 1 e 15, per aver la CTR compensato le spese del giudizio di appello è assorbito.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, assorbito l’incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla CTR della Puglia in diversa composizione per nuovo esame.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 24 febbraio 2021.
Depositato in Cancelleria il 24 giugno 2021
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