LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –
Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –
Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –
Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –
Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 6957/2016, proposto da M.D., (cod. fisc. *****), rappresentata e difesa, giusta procura speciale apposta a margine del ricorso, dall’Avvocato Giancarlo Greco, con cui elettivamente domicilia in Roma, al viale Bruno Buozzi n. 19, presso lo studio dell’Avvocato Paolo Grimaldi;
– ricorrente –
contro
MOVIE SOCIETA’ COOPERATIVA A R.L., (p. iva *****), in liquidazione coatta amministrativa, con sede in Palermo, alla via Brigata Aosta n. 21/A, in persona del commissario liquidatore Avv. G.F., rappresentata e difesa, giusta procura speciale apposta in calce al controricorso, dall’Avvocato Michele Militello, con cui elettivamente domicilia in Roma, alla via Piave n. 52, presso lo studio dell’Avvocato Renato Carcione;
– controricorrente –
e A.M., (cod. fisc. *****) e C.G., (cod.
fisc. *****), entrambi rappresentati e difesi, giusta procura speciale apposta a margine del controricorso, dall’Avvocato Filippo Cangemi, unitamente al quale elettivamente domiciliano in Roma, alla via Germanico n. 211, presso lo studio dell’Avvocato Riccardo Andriani;
– controricorrenti –
e CI.ST., (cod. fisc. *****); Z.B., (cod.
fisc. *****); B.G., (cod. fisc. *****);
CO.GA. (cod. fisc. *****); P.D., (cod. fisc.
*****);
– intimati –
nonché sul ricorso n. 7281/2016, r.g. proposto da:
A.M., (cod. fisc. *****) e C.G., (cod.
fisc. *****), entrambi rappresentati e difesi, giusta procura speciale apposta a margine del ricorso, dall’Avvocato Filippo Cangemi, unitamente al quale elettivamente domiciliano in Roma, alla via Germanico n. 211, presso lo studio dell’Avvocato Riccardo Andriani.
– ricorrenti –
contro
MOVIE SOCIETA’ COOPERATIVA A R.L., (p. iva *****), in liquidazione coatta amministrativa, con sede in Palermo, alla via Brigata Aosta n. 21/A, in persona del commissario liquidatore Avv. G.F., rappresentata e difesa, giusta procura speciale apposta in calce al controricorso, dall’Avvocato Michele Militello, con cui elettivamente domicilia in Roma, alla via Piave n. 52, presso lo studio dell’Avvocato Renato Carcione.
– controricorrente –
e nei confronti di:
M.D., (cod. fisc. *****), rappresentata e difesa, giusta procura speciale apposta a margine del controricorso, dall’Avvocato Giancarlo Greco, con cui elettivamente domicilia in Roma, al viale Bruno Buozzi n. 19, presso lo studio dell’Avvocato Paolo Grimaldi;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
e B.G., (cod. fisc. *****), CO.GA., (cod. fisc.
*****) e P.D., (cod. fisc. *****), rappresentati e difesi, giusta procura speciale apposta in calce al controricorso, dagli Avvocati Mario Albergoni, ed Antonio Sangiorgi, con cui elettivamente domiciliano in Roma, alla via Frattina n. 119, presso lo studio dell’Avvocato Daniele Venturi;
– controricorrenti e ricorrenti incidentali –
e CI.ST., (cod. fisc. *****); Z.B., (cod.
fisc. *****); CO.GI. (cod. fisc. *****);
FALLIMENTO ***** S.R.L. (cod. fisc. *****), in persona del suo curatore Avv. E.N.; GA.WA., (cod. fisc.
*****); PO.GI.BA., (cod. fisc. *****);
– intimati –
avverso la sentenza della CORTE DI APPELLO DI PALERMO depositata il 30/01/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del giorno 08/04/2021 dal Consigliere Dott. Eduardo Campese;
lette le conclusioni motivate, ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, formulate dal P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Cardino Alberto, che ha concluso chiedendo rigettarsi il ricorso (n. r.g. 6957/2016) della M.;
accogliersi parzialmente il ricorso (n. r.g. 7281/2016) di M.
A. e G. C.; accogliersi i motivi primo, secondo e quarto, del ricorso incidentale di G. B., G. Co. e D. P.;
dichiararsi inammissibile il ricorso incidentale di D. M.;
lette le memorie depositate dalle parti.
FATTI DI CAUSA
1. La soc. coop. a r.l. Movie, in liquidazione coatta amministrativa giusta decreto del 19.11.1988 reso dall’Assessore alla Cooperazione, Commercio, Artigianato e Pesca della Regione Sicilia, citò in giudizio, dinanzi al Tribunale di Palermo, Ci.St., Co.Gi., Po.Gi.Ba., Ga.Wa. e la ***** s.r.l. per ottenerne la condanna alla restituzione, in suo favore, delle somme indebitamente percepite (specificamente indicate nell’atto di citazione per ciascuno dei convenuti), a titolo di risarcimento del danno per illecito extracontrattuale o, comunque, quale indebito oggettivo, trattandosi di denaro della cooperativa oggetto di illecita appropriazione da parte dei convenuti. Dedusse che, a seguito di una verifica ispettiva condotta dalla Guardia di Finanza di Palermo, conclusasi il 10 maggio 2019, aveva appreso dell’esistenza di un cospicuo numero di fatture, registrate nella contabilità della società e dichiarate ai fini dell’IVA e delle imposte sui redditi, emesse per operazioni inesistenti o da società inesistenti ed analiticamente indicate nell’atto introduttivo del giudizio.
1.1. Si costituirono il Ci., eccependo preliminarmente l’intervenuta prescrizione quinquennale dell’azione risarcitoria e chiedendo, nel merito, il rigetto delle domande attrici, nonché, con separate comparse, la ***** s.r.l., il Ga. ed il Po., concludendo per il rigetto delle avverse domande ed i primi due, in subordine, per la riduzione della pretesa risarcitoria dell’attrice. Rimase contumace, invece, il Co..
1.2. Con altro atto di citazione, la medesima cooperativa in l.c.a. convenne, innanzi al menzionato tribunale, Ci.St., Z.B., Z.R., M.D., C.G., A.M., B.G., Co.Ga. e P.D., nei confronti dei quali esercitò l’azione di responsabilità ex artt. 2392,2393 e 2403 c.c., per avere omesso, in qualità di amministratori (i primi quattro) e sindaci (i successivi cinque) della società, di vigilare e controllare adeguatamente, al fine di evitare la mala gestio rilevata dalla Guardia di Finanza nella verifica ispettiva predetta, così contribuendo, con la propria condotta, al dissesto della società stessa. Chiese, pertanto, condannarsi i convenuti, a titolo di risarcimento dei danni arrecati alla cooperativa, al pagamento della somma di Euro 1.218.178,34, oltre interessi e rivalutazione monetaria.
1.2.1. Si costituirono: i) la M., la C., l’ A., la B., la Co. ed il P., eccependo, preliminarmente, il proprio difetto di legittimazione passiva e la nullità dell’atto di citazione per indeterminatezza della domanda e chiedendo, nel merito, il rigetto delle domande; ii) il Ci., B. e Z.R., eccependo, preliminarmente, l’intervenuta prescrizione quinquennale della domanda risarcitoria e chiedendo, in via gradata, il rigetto dell’avversa pretesa, per assenza dei presupposti richiesti dagli artt. 2392 e 2393 c.c..
1.3. Disposta la riunione dei due procedimenti ed espletata una c.t.u. contabile, l’adito tribunale, con sentenza n. 5136/2009, condannò il Ga., la ***** s.r.l., il Ci., il Po., Z.B., la M., la C., l’ A., la B., la Co. ed P., in solido tra loro, al pagamento, in favore della cooperativa attrice, della complessiva somma di Euro 877.759,07. Rigettò, invece, le domande proposte da quest’ultima nei confronti di Z.R. e del Co..
2. La Corte di appello di Palermo, con sentenza del 30 gennaio 2015, n. 138, pronunciata nella contumacia del Ga., del Co., del Po. e della ***** s.r.l., ha respinto i gravami promossi contro quella decisione, in via principale, dal Ci. e da Z.B., nonché, in via incidentale, dalla M., dalla C., dall’ A., dalla B., dalla Co. e dal P..
2.1. In estrema sintesi, quella corte, dopo aver disatteso i rilievi concernenti la sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p., emessa nei confronti del Ci., presidente pro tempore della Movie soc. coop. a r.l., per il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione ed emissione di fatture per operazioni inesistenti: i) ha considerato non condivisibili “i rilievi mossi dagli appellanti nei confronti del processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza”, atteso che gli accertamenti compiuti da quest’ultima e trasfusi nel processo verbale predetto, “lungi dal costituire (come erroneamente affermato dagli appellanti) il frutto di mere valutazioni soggettive, mere impressioni dei verbalizzanti ed assunti basati su dati presuntivi, si sono invece fondati su circostanze ed elementi oggettivi direttamente riscontrabili e che hanno evidenziato le irregolarità e le condotte illecite (analiticamente descritte alle pagine da 17 a 19 della sentenza impugnata) poste in essere, fra gli altri, dal Ci. nella qualità di Presidente della cooperativa”. Di tali irregolarità e condotte illecite, peraltro, viene dato adeguatamente conto in un quadro di complessivi comportamenti distrattivi posti in essere dal Ci., dal Ga., dal Po. e dalla ***** s.r.l.; ii) ha condiviso, alla stregua delle descritte distrazioni ed indebite percezioni di somme di pertinenza della soc. coop. a r.l. Movie, le valutazione del giudice di prime cure circa il ruolo attivo e fondamentale svolto dal Ci., il quale, “nella sua qualità di Presidente della cooperativa e di gestore di fatto dell’attività sociale, ha falsificato le fatture, poi regolarmente registrate nella contabilità, ai fini delle corrispondenti dichiarazioni IVA e dei redditi ed ha emesso assegni bancari a favore di società inesistenti”; iii) ha rilevato che “alle illecite condotte distrattive di cui sopra sia direttamente correlato il danno patrimoniale per la società cooperativa, concretizzatosi, alla luce degli accertamenti della Guardia di Finanza, nelle produzione, per la stessa cooperativa, di passività corrispondenti agli esborsi ingiustificati di notevoli somme di denaro in dipendenza, fra le altre cose, degli assegni incassati senza alcun titolo giustificativo dal Ga., dal Po. e dalla ***** (pari complessivamente ad Euro 266.467,64) e degli assegni circolari intestati a società inesistenti, fra cui quelli emessi a favore della CIP s.r.l. per Euro 63.507,92…”; iv) ha ritenuto, quanto alla posizione di Z.B., la quale, come era pacifico in atti, aveva rivestito la carica di amministratore di diritto della società cooperativa dal 1995 al 1998, anno della sua messa in liquidazione, che “l’investimento ufficiale della suddetta carica nei confronti della Z. ha comportato necessariamente ed automaticamente il sorgere, in capo alla stessa, degli obblighi previsti per gli amministratori dall’art. 2392 c.c.. (nella formulazione – applicabile ratione temporis anteriore alle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 6 del 2003) e, in particolare, il dovere di vigilare sul generale andamento della gestione societaria (comma 2)”. Nessun valore, dunque, potevano avere i suoi assunti secondo cui la propria “sarebbe stata una nomina puramente cartolare, che non avrebbe comportato il compimento, da parte della stessa, di concreti atti di gestione o di rappresentanza, atti propri di un effettivo amministratore” e che “non era munita di alcuna delega, con la conseguenza che nessuna violazione grave dei doveri di diligenza o di vigilanza poteva esserle imputata”. Parimenti irrilevante era la sua affermazione che, stante l’avvenuta assoluzione in sede penale dai medesimi reati ascritti al marito Ci.St., non poteva esserle attribuita alcuna responsabilità, dolosa o colposa, atteso che “una cosa è l’accertamento, sotto il profilo penale, della mancata compartecipazione dolosa della Z. alle condotte criminose del coniuge, altra cosa è l’accertamento, in sede civile, della responsabilità contrattuale della stessa, per la violazione dei doveri di controllo e vigilanza sulla medesima incombenti in virtù delle norme di legge e dello statuto della società, con il conseguente obbligo giuridico, direttamente derivante dall’art. 2392 c.c., di impedire atti pregiudizievoli in danno della società o, comunque, di attenuarne le conseguenze”. Inoltre, la natura contrattuale della responsabilità degli amministratori e dei sindaci verso la società comportava che quest’ultima aveva soltanto l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità fra queste ed il danno verificatosi, mentre incombeva sugli amministratori e sui sindaci provare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la dimostrazione positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti. Una tale prova non risultava, in ogni caso, essere stata fornita dalla Z., “sussistendo, di contro, elementi – già evidenziati dal primo giudice – che deponevano chiaramente nel senso dell’omesso controllo e vigilanza da parte della Z. (e degli altri amministratori) sull’attività societaria. In particolare, correttamente il tribunale ha rilevato che il rapido declino della società cooperativa e l’aumento delle perdite di esercizio (gli stessi appellanti principali hanno evidenziato, nel giudizio di primo grado, che le difficoltà economiche della cooperativa erano riconducibili già agli anni 1993/1994, periodo in cui, come poteva rilevarsi dai verbali del consiglio di amministrazione, la società aveva dovuto procedere ai primi licenziamenti, ricorrere al finanziamento dell’IRCAC, procedere alla vendita di attrezzature e macchinari e subire numerosi protesti cambiari e azioni per il recupero delle spettanze retributive) avrebbero dovuto allertare la Z. e gli altri amministratori, inducendoli a chiedere, al riguardo, dettagliate informazioni, accompagnate da un’approfondita verifica di tutte le scritture contabili, comportamento che avrebbe assai verosimilmente consentito di fare emergere l’illecita attività distrattiva dei fondi sociali. Di ciò, tuttavia, non vi è traccia agli atti, risultando, piuttosto, dai verbali delle adunanze dell’assemblea e dai verbali del collegio sindacale l’atteggiamento sostanzialmente passivo degli amministratori e dei sindaci rispetto alle scelte assunte dal Ci. (…), senza che vi sia mai stata una manifestazione di dissenso o, comunque, una richiesta di chiarimenti”; v) ha giudicato infondati “il rilievo degli appellanti, secondo cui mancherebbe, in ogni caso, la prova del nesso causale tra il danno patito dalla cooperativa e la condotta illecita degli amministratori”, ed “il motivo di gravame concernente la quantificazione del danno operata dal primo giudice”; vi) quanto all’appello incidentale della M., della C., dell’ A., della B., della Co. e del P., ha osservato che a nulla rilevava la circostanza, da essi dedotta, che non fosse stata fornita la prova della loro compartecipazione all’attività delittuosa perpetrata dal Ci. e dagli altri soggetti condannati nel giudizio penale e della loro conoscenza della condotta illecita. “Invero, come già evidenziato trattando la posizione della Z., ciò che conta, in sede civile, è la violazione dei doveri di controllo e vigilanza, incombenti, oltre che sugli amministratori, anche sui componenti del collegio sindacale in virtù sia delle norme statutarie che delle norme di legge, in particolare dell’art. 2403 c.c. (anch’esso nella formulazione anteriore all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 6 del 2003), il quale prevede, per il collegio sindacale, l’obbligo di controllare l’amministrazione della società, di vigilare sull’osservanza della legge e dell’atto costitutivo e di accertare la regolare tenuta della contabilità sociale, la corrispondenza del bilancio alle risultanze dei libri e delle scritture contabili. E ciò senza contare che, ai sensi del suddetto articolo, ai fini del concreto esercizio dei poteri di vigilanza e controllo ai sindaci è riconosciuto il potere di procedere, anche individualmente, ad atti di ispezione e di controllo e di chiedere agli amministratori notizie sull’andamento delle operazioni sociali o su determinati affari”. Pertanto, anche per l’amministratrice M. e per i sindaci C., A., Co., B. e P. dovevano valere le medesime argomentazioni, già svolte in relazione alla posizione della Z., circa la condotta del tutto inerte da loro tenuta, pur in presenza di una situazione economica della cooperativa col passare del tempo sempre più compromessa, condotta omissiva che aveva causalmente contribuito al progressivo dissesto della società; vii) ha rimarcato, con particolare riferimento alla posizione dei sindaci, che, “in caso di pregiudizio alla società derivante dal fatto degli amministratori, l’art. 2407 c.c., comma 2 prevede il sorgere della responsabilità solidale dei sindaci, qualora gli stessi (come nella specie) non abbiano ottemperato ai doveri di vigilanza inerenti alla loro carica e ricorra un nesso di causalità tra tale inosservanza e il danno arrecato alla società”; vili) ha puntualizzato, infine, che “proprio la suddetta responsabilità solidale di tutti i soggetti, ai quali è risultato imputabile il fatto dannoso, comporta che non può essere operata alcuna distinzione tra il diverso apporto di ciascuno degli amministratori e dei sindaci alla determinazione del danno, essendo l’unicità del fatto dannoso riferita soltanto al danneggiato 114. Consegue l’infondatezza del rilievo degli appellanti incidentali (…) con il quale si è censurata la sentenza impugnata, per avere attribuito a tutti i sindaci la medesima responsabilità, pur dando atto dei diversi periodi, in cui gli stessi hanno ricoperto la carica”.
2. Avverso la fin qui descritta sentenza sono stati proposti due autonomi ricorsi: a) il primo, recante il n. r.g. 6957/2016, da M.D., notificato il 29 febbraio 2016 ed affidato a tre motivi, cui ha resistito, con controricorso, la soc. coop. a r.l. Movie in l.c.a., mentre l’ulteriore controricorso di A.M. e C.G. si limita a dare atto della già avvenuta impugnazione ad opera di questi ultimi della menzionata sentenza. Sono rimasti qui solo intimati Ci.St., B.G., Co.Ga. e P.D.; b) il secondo, n. r.g. 7281/2016, da A.M. e C.G., avviato alla notifica l’1 marzo 2016, con un motivo (articolato in plurime censure), cui hanno resistito la soc. coop. a r.l. Movie in l.c.a., nonché, con unico controricorso, B.G., Co.Ga. e P.D., i quali hanno pure proposto ricorso incidentale, avviato alla notifica l’8 aprile 2016, con quattro motivi, mentre l’ulteriore controricorso di M.D., notificato il 5 aprile 2016, si limita a dare atto della già avvenuta sua impugnazione della citata sentenza di cui è nuovamente chiesta la cassazione “anche per i motivi proposti dai ricorrenti, cui si aderisce integralmente”. Sono rimasti qui solo intimati Ci.St., Z.B., Co.Gi., il fallimento della ***** s.r.l., Ga.Wa. e Po.Gi.Ba.. In prossimità della pubblica udienza (tenutasi con le modalità sancite dal D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 176 del 2020), sono state depositate memorie ex art. 378 c.p.c. da parte della soc. coop. a r.l. Movie in l.c.a (nel procedimento n. r.g. 6957/2016) nonché da A.M. e C.G. e da B.G. e P.D. (in quello n. r.g. 7281 del 2016).
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Rileva, pregiudizialmente, il Collegio che i separati ricorsi di cui si è detto vanno riuniti ex art. 335 c.p.c., tutti concernendo l’impugnazione della medesima sentenza, fin da ora rimarcandosi, peraltro, che, come ancora ribadito da Cass. n. 394 del 2021 (cfr. in motivazione), per la giurisprudenza consolidata di questa Corte (cfr., tra le altre, Cass. n. 15582 del 2020; Cass. n. 33809 del 2019; Cass. n. 28259 del 2019; Cass. n. 5695 del 2015) “il principio dell’unicità del processo di impugnazione contro una stessa sentenza comporta che, una volta avvenuta la notificazione della prima impugnazione, tutte le altre debbono essere proposte in via incidentale nello stesso processo e perciò, nel caso di ricorso per cassazione, con l’atto contenente il controricorso; tuttavia, quest’ultima modalità non può considerarsi essenziale, per cui ogni ricorso successivo al primo si converte, indipendentemente dalla forma assunta ed ancorché proposto con atto a sé stante, in ricorso incidentale, la cui ammissibilità è condizionata al rispetto del termine di quaranta giorni (venti più venti) risultante dal combinato disposto degli artt. 370 e 371 c.p.c., indipendentemente dai termini (l’abbreviato e l’annuale) di impugnazione in astratto operativi”.
1.1. Inoltre, per intuitive finalità di maggior chiarezza e specificità di questa esposizione, si ritiene opportuno procedere al separato esame di ciascuno dei ricorsi predetti, il primo dei quali (notificato il 29 febbraio) deve essere individuato in quello recante il n. r.g. 6957 del 2016, promosso da M.D., tutti gli altri convertendosi in ricorsi incidentali.
A) Il ricorso di M.D. n. r.g. 6957 del 2016.
1. I tre motivi del ricorso proposto da M.D. sono rubricati, rispettivamente:
I) “Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. Si censura la decisione impugnata nella parte in cui ha respinto l’appello incidentale della M. sulla scorta del semplice richiamo ai doveri di controllo e di vigilanza dell’amministratore, senza esaminare quanto richiesto nel gravame medesimo, cioè l’interruzione del citato dovere a seguito dell’asserito reato doloso commesso dal Presidente della cooperativa ed in relazione al quale lei era rimasta assolutamente estranea;
II) “Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Nullità della sentenza. Errore in iudicando de procedendo. Nullità dell’atto di citazione”. Si assume che l’atto introduttivo del giudizio nei confronti della M. doveva considerarsi nullo, come tempestivamente eccepito in primo grado, perché carente della indicazione della norma statutaria o legale da lei in concreto violata con la sua condotta;
III) “Sulle spese di entrambi i gradi di giudizio”. Si afferma esclusivamente che “l’accoglimento del presente gravame ed il rigetto della domanda di rilascio della resistente comporterà la riforma della regolamentazione delle spese processuali che andranno a ricadere, per tutti i capi del giudizio, in capo alla resistente”.
2. Il primo motivo è insuscettibile di accoglimento.
2.1. Invero, è opportuno premettere che oggetto del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come novellato dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012 (e qui applicabile catione temporis, risultando impugnata una sentenza resa il 30 gennaio 2015), è l’omesso esame circa un “fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti”.
2.1.1. Come ancora recentemente ricordato da Cass. n. 4226 del 2021 (cfr. in motivazione), poi, costituisce un “fatto”, agli effetti della citata norma, non una “questione” o un “punto”, ma: i) un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, ossia un fatto principale, ex art. 2697 c.c., cioè un “fatto” costitutivo, modificativo,impeditivo o estintivo, o anche un fatto secondario, vale a dire un fatto dedotto ed affermato dalle parti in funzione di prova di un fatto principale (cfr. Cass. n. 16655 del 2011; Cass. n. 7983 del 2014; Cass. n. 17761 del 2016; Cass. n. 29883 del 2017); li) un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza da intendersi in senso storico-naturalistico (cfr. Cass. n. 21152 del 2014; Cass., SU, n. 5745 del 2015); iii) un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante e le relative ricadute di esso in termini di diritto (cfr. Cass. n. 5133 del 2014); iv) una vicenda la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014).
2.1.2. Non costituiscono, viceversa, “fatti”, il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: i) le argomentazioni o deduzioni difensive (cfr. Cass., SU, n. 16303 del 2018, in motivazione; Cass. n. 14802 del 2017; Cass. n. 21152 del 2015); ii) gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014); iii) una moltitudine di fatti e circostanze, o il “vario insieme dei materiali di causa” (cfr. Cass. n. 21439 del 2015); iv) le domande o le eccezioni formulate nella causa di merito, ovvero i motivi di appello, i quali costituiscono i fatti costitutivi della “domanda” in sede di gravame.
2.1.3. Inoltre, il “fatto” il cui esame sia stato omesso deve avere carattere “decisivo”, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia. Tale decisività, in quanto correlata all’interesse all’impugnazione, si addice innanzitutto a quel fatto che, se scrutinato, avrebbe condotto il giudice ad una decisione favorevole al ricorrente, rimasto soccombente nel giudizio di merito. Poiché l’attributo si riferisce al “fatto” in sé, la “decisività” asserisce, altresì, al nesso di causalità tra la circostanza non esaminata e la decisione: essa deve, cioè, apparire tale che, se presa in considerazione, avrebbe portato con certezza il giudice del merito ad una diversa ricostruzione della fattispecie (non bastando, invece, la prognosi che il fatto non esaminato avrebbe reso soltanto possibile o probabile una ricostruzione diversa: si vedano già Cass. n. 22979 del 2004; Cass. n. 3668 del 2013; la prognosi in termini di “certezza” della decisione diversa è richiesta, ad esempio, da Cass., SU, n. 3670 del 2015). Lo stesso deve, altresì, essere stato “oggetto di discussione tra le parti”: deve trattarsi, quindi, necessariamente di un fatto “controverso”, contestato, non dato per pacifico tra le parti.
2.1.4. E’ utile rammentare, infine, che Cass., SU, n. 8053 del 2014, ha chiarito che “la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), – il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale (emergente dalla sentenza) o extratestuale (emergente dagli atti processuali), da cui ne risulti l’esistenza, il come e il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti” (in senso analogo, cfr. in motivazione, la più recente Cass. n. 23983 del 2020).
2.2. Giusta quanto finora esposto, allora, il motivo in esame si rivela immeritevole di accoglimento perché, diversamente da quanto sostenuto dalla M., la corte distrettuale ha espressamente valutato la circostanza fattuale relativa all’estraneità di quest’ultima (pacificamente componente del consiglio di amministrazione della soc. coop. a r.l. Movie nel 1994), ivi appellante incidentale, rispetto ai fatti di reato contestati al Ci. (“a nulla rileva la circostanza, dedotta dagli appellanti incidentali, che di questi ultimi non sia stata provata la loro compartecipazione all’attività delittuosa perpetrata dal Ci. e dagli altri soggetti condannati nel giudizio penale e della loro conoscenza della condotta illecita”. Cfr. pag. 15 della sentenza impugnata), ma l’ha considerata irrilevante assumendo, affatto correttamente, che “…ciò che conta, in sede civile, è la violazione dei doveri di controllo e vigilanza, incombenti, oltre che sugli amministratori, anche sui componenti del collegio sindacale…”.
2.2.1. Non resta che aggiungere, quindi, da un lato, che il novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, formalmente invocato dalla M. con l’odierna censura, non riferendosi a questioni o argomentazioni, rende inammissibile la corrispondente censura che, irritualmente, sia volta, come nella specie, ad estendere il paradigma normativo a quest’ultimo profilo (cfr., ex aliis, Cass. n. 4477 del 2021, in motivazione; Cass. n. 395 del 2021, in motivazione, Cass. n. 22397 del 2019; Cass. n. 26305 del 2018; Cass. n. 14802 del 2017); dall’altro, che alla suddetta ricorrente la corte distrettuale ha imputato di aver mantenuto una condotta del tutto inerte, pur in presenza di una situazione economica della cooperativa col passare del tempo sempre più compromessa. Condotta omissiva che aveva causalmente contribuito al progressivo dissesto della cooperativa stessa (cfr. pag. 16 della sentenza impugnata).
3. Il secondo motivo del ricorso della M. e’, invece, inammissibile.
3.1. Non risulta, infatti, dalla sentenza impugnata che la suddetta ricorrente abbia riproposto in appello la medesima eccezione di nullità della citazione, per indeterminatezza della domanda, da lei formulata in primo grado ma disattesa dal tribunale. Ne’ la M., gravata del relativo onere, ha puntualmente riprodotto il contenuto dell’eventuale corrispondente motivo di gravame.
3.2. In proposito, è sufficiente ricordare che, per giurisprudenza pacifica di questa Corte, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente deve, a pena di inammissibilità, non solo allegare l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito, ma anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto in virtù del principio di autosufficienza del ricorso. I motivi del ricorso per cassazione, invero, devono investire, a pena d’inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio di appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito né rilevabili d’ufficio (cfr. Cass. n. 32804 del 2019; Cass. n. 20694 del 2018; Cass. n. 15430 del 2018; Cass. n. 23675 del 2013; 7981/07; Cass. 16632/2010).
4. Il terzo motivo di ricorso della M., infine, per come concretamente formulato ed argomentato, non è autonomo, ergo, stante il rigetto e la declaratoria di inammissibilità dei primi due, non merita ulteriore esame (cfr. Cass. n. 14939 del 2019, in motivazione).
B) Il ricorso di A.M. e C.G. n. r.g. 7281 del 2016 ed il ricorso incidentale ivi proposto da B.G., Co.Ga. e P.D.. Il controricorso “meramente adesivo” di M.D..
1. L’unico motivo del ricorso proposto – tempestivamente, giusta i già riportati principi espressi, ex aliis, da Cass. n. 394 del 2021 (cfr. in motivazione), Cass. n. 15582 del 2020Cass. n. 33809 del 2019, Cass. n. 28259 del 2019e Cass. n. 5695 del 2015) – da A.M. e C.G., componenti del collegio sindacale della soc. coop. a r.l. Movie fino al 1996, è rubricato “Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti – Violazione e falsa applicazione degli artt. 2400,2403,2404 e 2407 c.c. – Violazione e falsa applicazione dell’art. 2055 c.c. – Violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c.”. Si critica la sentenza impugnata perché, “pur avendo rilevato, nel periodo oggetto di causa (1995-1998), la successione in carica di due collegi sindacali, non si era curata di distinguere la responsabilità differente dei due organi rispetto alle varie distinte operazioni, asseritamente non controllate, in relazione alla loro epoca, con evidente violazione degli artt. 2403 e 2407 c.c., potendo ogni collegio rispondere soltanto delle omissioni relative alla sua durata in carica, restando esclusa una responsabilità per il periodo successivo del primo e per quello antecedente il secondo”. Si assume, dunque, essere stata erroneamente cumulata “indistintamente la responsabilità dell’uno e dell’altro, mediante ricorso ad un criterio di solidarietà arbitrariamente posto “a monte” del ragionamento, anziché da applicarsi eventualmente “a valle” dello stesso, con ulteriore violazione dell’art. 2055 c.c., utilizzato inauditamente come “fonte” di una obbligazione collettiva e non come e’, quale elemento di responsabilità congiunta a fronte dell’unicità della vera “fonte” di ogni singola obbligazione”.
2.1. Una siffatta doglianza si rivela fondata, nei soli limiti di cui si dirà, alla stregua delle argomentazioni tutte di cui appresso, fin da ora precisandosi, peraltro, che il richiamo agli articoli del codice civile di cui si farà menzione deve intendersi riferito ai rispettivi testi – qui applicabili ratione temporis – anteriori alle riforme ad essi apportate dal D.Lgs. n. 6 del 2003.
2.2. Giova premettere, in via generale, che la responsabilità civile dei sindaci è disciplinata dai seguenti principi: a) ex art. 2407 c.c., comma 1, essi sono obbligati, di regola in forma solidale, al risarcimento dei danni imputabili al mancato o negligente adempimento dei loro doveri (cd. responsabilità esclusiva); b) giusta l’art. 2407 c.c., comma 2, gli stessi sono solidalmente responsabili con gli amministratori per i fatti e le omissioni di questi quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica, relativi, a norma dell’art. 2403 c.c., al controllo dell’amministrazione della società, alla vigilanza sull’osservanza della legge e dell’atto costitutivo, alla verifica della regolare tenuta della contabilità sociale, della corrispondenza del bilancio alle risultanze dei libri e delle scritture contabili, e dell’osservanza delle norme stabilite dall’art. 2426 c.c. per la valutazione del patrimonio sociale (cd. responsabilità concorrente).
2.2.1. Nel primo caso, i sindaci rispondono a prescindere dall’inadempimento degli amministratori (ad esempio, false attestazioni compiute all’esito di una ispezione ex art. 2403 c.c., comma 3); nel secondo, invece, è necessaria la contestuale responsabilità di questi ultimi.
2.2.2. I presupposti di tale responsabilità concorrente, pertanto, sono:
i) la commissione, da parte degli amministratori, di un atto di mala gestio;
ii) la derivazione causale da tale atto di un danno a carico della società ex art. 2393 c.c., ovvero dei creditori sociali ex art. 2394 c.c. (art. 2407 c.c., comma 3); iii) la mancata vigilanza dei sindaci sull’operato degli amministratori, in violazione dei doveri posti a loro carico dalla legge (art. 2403 c.c.); iv) la derivazione di un danno dall’omessa od inadeguata vigilanza sull’operato degli amministratori da parte dei sindaci.
2.2.3. A tale ultimo proposito, va osservato che, essendo i sindaci privi di poteri di veto sull’attività dell’organo amministrativo o di poteri sostitutivi alla sua inerzia od inadempienza, per non escludere sempre la possibilità di formulazione di un giudizio di causalità ipotetica in termini affermativi (perché, in tal caso, la norma negherebbe se stessa) e pervenire ad un corretto accertamento del nesso eziologico, occorre che l’espressione normativa “il danno non si sarebbe prodotto” sia intesa nel senso di una riduzione o comunque di un’attenuazione, in termini probabilistici, del pericolo di danno, laddove i sindaci, nell’esercizio della loro doverosa attività di vigilanza, abbiano posto in essere quei poteri di intervento e rilevazione, evidentemente nelle forme e nei limiti consentiti, dell’illegittimità del comportamento degli amministratori, in relazione alle determinate circostanze concrete.
2.2.4. In altri termini, perché sussista il nesso di causalità ipotetica tra l’inadempimento dei sindaci ed il danno cagionato dall’atto di mala gestio degli amministratori, nel senso che possa ragionevolmente presumersi che, senza il primo, neppure il secondo si sarebbe prodotto, o si sarebbe verificato in termini attenuati, è necessario che il giudice, di volta in volta, accerti che i sindaci, riscontrata la illegittimità del comportamento dell’organo gestorio nell’adempimento del dovere di vigilanza, abbiano poi effettivamente attivato, nelle forme e nei limiti previsti, gli strumenti di reazione, interna ed esterna, che la legge implicitamente od esplicitamente attribuisce loro, privilegiando, naturalmente, quello più opportuno ed efficace a seconda delle circostanze del singolo caso concreto. E precisamente, di fronte ad un atto di mala gestio degli amministratori, i sindaci che vogliano evitare l’azione di responsabilità nei propri confronti, devono, oltre che verbalizzare il proprio dissenso (rispetto alle deliberazioni del collegio stesso) nel verbale delle adunanze del collegio sindacale (art. 2404 c.c., u.c.), anche: a) chiedere, se del caso per iscritto, notizie e chiarimenti al consiglio di amministrazione in ordine all’andamento delle operazioni sociali o su determinati affari (cfr. Cass. n. 5263 del 1993); b) procedere in qualsiasi momento, anche individualmente, ad atti di ispezione e di controllo (art. 2403 c.c., anche nel testo oggi vigente sotto l’art. 2403-bis c.c.), se del caso avvalendosi, sotto la propria responsabilità ed a proprie spese, di propri dipendenti ed ausiliari (art. 2403-bis c.c., anche nel testo attualmente vigente); c) convocare e partecipare, come è loro obbligo, alle riunioni del consiglio di amministrazione (art. 2405 c.c.), verbalizzare l’eventuale dissenso sul libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio, ed impugnarne le deliberazioni affette da nullità od annullabilità (vedi l’art. 2388 c.c., comma 4), specie quando il vizio sia idoneo a danneggiare la società od i creditori (arg. ex art. 2391 c.c., comma 3, art. 2394 c.c. e art. 2407 c.c., commi 2 e 3); d) convocare (art. 2406 c.c.) e partecipare, come è loro obbligo, all’assemblea dei soci (art. 2405 c.c.), nonché impugnare le deliberazioni dell’assemblea che non siano state prese in conformità della legge o dell’atto costitutivo (art. 2377 c.c., comma 1, anche nel testo in vigore); e) formulare esposti al Pubblico Ministero, affinché questi provveda ex art. 2409 c.c., quando tale iniziativa sia rimasta davvero l’unica praticabile in concreto per poter legittimamente porre fine alle illegalità di gestione riscontrate, essendosi rilevati insufficienti i rimedi endosocietari (cfr., in tal senso, Cass. n. 9252 del 1997), ovvero, come è stato espressamente riconosciuto dalla riforma del 2003, promuovere direttamente il controllo giudiziario sulla gestione se si ha il fondato sospetto che gli amministratori abbiano compiuto gravi irregolarità (art. 2409 c.c., u.c. nuova formulazione).
2.2.5. Si è pure precisato che la prestazione richiesta ai sindaci è connotata da un così elevato grado di discrezionalità tecnica da farla talvolta rientrare nelle cosiddette “obbligazioni di diligenza” quelle, cioè, nelle quali la strumentalità della prestazione ad un certo risultato fa sì che il criterio della diligenza a tal fine occorrente serva a determinare, anche sotto il profilo oggettivo, l’area del comportamento dovuto. Ma, poiché non può negarsi che l’attività svolta dai sindaci di società abbia carattere professionale, se ne deduce – e tanto anche prima che ciò fosse reso esplicito dal nuovo testo dell’art. 2407 c.c. (riformato dal D.Lgs. n. 6 del 2003), qui inapplicabile ratione temporis – che la diligenza a tal fine occorrente, come richiesto dall’art. 1176 c.c., comma 2 è quella correlata alla natura dell’attività da loro esercitata, evidenziandosi, peraltro, che la natura di tale attività ed il grado di diligenza ad essa inerente deve necessariamente esser valutata anche in rapporto alle specifiche caratteristiche dell’attività dell’impresa e dell’oggetto sociale che l’esprime (cfr. in motivazione, Cass. n. 2538 del 2005).
2.2.6. Come efficacemente evidenziato da Cass. n. 28357 del 2020, “i doveri di controllo imposti ai sindaci sono certamente contraddistinti da una particolare ampiezza, poiché si estendono a tutta l’attività sociale, in funzione della tutela e dell’interesse dei soci e di quello, concorrente, dei creditori sociali (Cass. n. 2772-99). Di modo che ad affermarne la responsabilità può ben essere sufficiente l’inosservanza del dovere di vigilanza. Questo accade, in particolare, quando i sindaci non abbiano rilevato una macroscopica violazione o non abbiano in alcun modo reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità (ex aliis Cass. n. 13517-14, Cass. n. 23233-13), poiché in tal caso il mantenimento di un comportamento inerte implica che non si sia vigilato adeguatamente sulla condotta degli amministratori (o dei liquidatori) pur nella esigibilità di un diligente sforzo per verificare la situazione anomala e porvi rimedio, col fine di prevenire eventuali danni (cfr. di recente Cass. n. 18770-19). Come in tutti i casi di concorso omissivo nel fatto illecito altrui, è però altrettanto certo che la fattispecie dell’art. 2407 c.c. richiede la prova di tutti gli elementi costitutivi del giudizio di responsabilità. E quindi: (i) dell’inerzia del sindaco rispetto ai propri doveri di controllo; (ii) dell’evento da associare alla conseguenza pregiudizievole derivante dalla condotta dell’amministratore (o, come nella specie, del liquidatore); (iii) del nesso causale, da considerare esistente ove il regolare svolgimento dell’attività di controllo del sindaco avrebbe potuto impedire o limitare il danno. Il nesso, in particolare, va provato da chi agisce in responsabilità nello specifico senso che l’omessa vigilanza è causa del danno se, in base a un ragionamento controfattuale ipotetico, l’attivazione del controllo lo avrebbe ragionevolmente evitato (o limitato). Il sindaco non risponde, cioè, in modo automatico per ogni fatto dannoso che si sia determinato pendente societate, quasi avesse rispetto a questo una posizione generale di garanzia. Egli risponde ove sia possibile dire che, se si fosse attivato utilmente (come suo dovere) in base ai poteri di vigilanza che l’ordinamento gli conferisce e alla diligenza che l’ordinamento pretende, il danno sarebbe stato evitato”.
2.3. Riassumendo, dunque, se è vero che il sindaco non risponde in modo automatico per ogni fatto dannoso aziendale in ragione della sua mera “posizione di garanzia”, si esige tuttavia, a fini dell’esonero dalla responsabilità, che egli abbia esercitato o tentato di esercitare l’intera gamma dei poteri istruttori ed impeditivi affidatigli dalla legge. Da un lato, solo un più penetrante controllo, attuato mediante attività informative e valutative – in primis, la richiesta di informazioni o di ispezione ex art. 2403-bis c.c. – può dare concreto contenuto all’obbligo di tutela degli essenziali interessi affidati al collegio sindacale, “…cui non è consentito di rimanere acriticamente legato e dipendente dalle scelte dell’amministratore, quando queste collidano con i doveri imposti dalla legge, al contrario avendo il primo il dovere di individuarle e di segnalarle ad amministratori e soci, non potendo assistere nell’inerzia alle altrui condotte dannose: senza neppure potersi limitare alla richiesta di chiarimenti all’organo gestorio, ma dovendosi spingere a pretendere dal medesimo le cd. azioni correttive necessarie” (cfr., in motivazione, Cass. n. 18770 del 2019). Dall’altro lato, il sindaco dovrà fare ricorso agli altri strumenti previsti dall’ordinamento, come i reiterati inviti a desistere dall’attività dannosa, la convocazione dell’assemblea ai sensi dell’art. 2406 c.c. (ove omessa dagli amministratori, o per la segnalazione all’assemblea delle irregolarità di gestione riscontrate), i solleciti alla revoca delle deliberazioni assembleari o sindacali illegittime, l’impugnazione delle deliberazioni viziate, il ricorso al tribunale per la nomina dei liquidatori ex art. 2487 c.c., la denunzia al tribunale ex art. 2409 c.c. o all’autorità giudiziaria penale, ed altre simili iniziative. Dovendosi ribadire che, come questa Corte ha già osservato, anche la semplice minaccia di ricorrere ad un’autorità esterna può costituire deterrente, sotto il profilo psicologico, al proseguimento di attività antidoverose da parte dei delegati (cfr. Cass. n. 31204 del 2017 e Cass. 11 novembre 2010, n. 22911 del 2010, entrambe richiamate, in motivazione, dalla più recente Cass. n. 18770 del 2019). Senza trascurare, altresì, che la condotta impediente omessa va valutata nel contesto complessivo delle concrete circostanze, in quanto l’inerzia del singolo, nell’unirsi all’identico atteggiamento omissivo degli altri) acquista efficacia causale, atteso che, all’opposto, una condotta attiva giova a “rompere il silenzio” sollecitando, con il richiamo agli obblighi imposti dalla legge ed ai principi di corretta amministrazione, un analogo atteggiamento degli altri (cfr., in motivazione, Cass. n. 18770 del 2019, nonché, in sede penale, Cass. pen. 7 marzo 2014, n. 32352, Tanzi).
2.3.1. A fronte di iniziative anomale da parte dell’organo amministrativo di società di capitali, dunque, i sindaci hanno l’obbligo di porre in essere, con tempestività, tutti gli atti necessari all’assolvimento dell’incarico con diligenza, correttezza e buona fede, attivando ogni loro potere (se non di intervento sulla gestione, che non compete se non in casi eccezionali, certamente) di sollecitazione e denuncia diretta, interna ed esterna, doveroso per un organo di controllo. In mancanza, essi concorrono nell’illecito civile commesso dagli amministratori della società per omesso esercizio dei poteri-doveri di controllo loro attribuiti per legge (cfr., in motivazione, Cass. n. 18770 del 2019).
2.4. In relazione al profilo dell’elemento soggettivo, poi, l’elemento della colpa rileva nelle due accezioni di colpa nella conoscenza e nell’omessa attivazione. Sono due, infatti, i momenti complementari: da un lato, la rappresentazione dell’evento nella sua portata illecita, conoscenza che prescinde dalla modalità e tipologia del canale conoscitivo; dall’altro, la consapevolezza nel mantenere la condotta inerte, senza porre in essere quelle azioni atte ad impedirne la prosecuzione, la reiterazione o l’aggravamento, in cui rileva la possibilità di attivarsi utilmente.
2.4.1. Sotto il primo aspetto, la colpa può consistere in un difetto di conoscenza, per non avere il sindaco rilevato colposamente l’altrui illecita gestione: dove, però, non è affatto decisivo che nulla traspaia da formali relazioni degli amministratori, perché l’obbligo di vigilanza impone, ancor prima, la ricerca di adeguate informazioni, in particolare da parte dei componenti dell’organo sindacale, la cui stessa ragion d’essere è il provvedere al controllo sulla gestione. Onde sussiste la colpa in capo al sindaco già per non avere rilevato i cd. segnali d’allarme, individuati dalla giurisprudenza anche nella stessa soggezione della società all’altrui gestione personalistica (cfr., in motivazione, Cass. n. 11870 del 2019; Cass. n. 31204 del 2017, con riguardo al controllo in capo agli amministratori non esecutivi; Cass. pen. 7 marzo 2014, n. 32352, Tanzi). Proprio come nel caso di specie, in cui la corte di merito ha rimarcato (cfr. pag. 12-13 della sentenza impugnata) che “…il rapido declino della società cooperativa e l’aumento delle perdite di esercizio (..) avrebbero dovuto allertare la Z. e gli altri amministratori, inducendoli a chiedere, al riguardo, dettagliate informazioni, accompagnate da un’approfondita verifica di tutte le scritture contabili, comportamento che avrebbe assai verosimilmente consentito di fare emergere l’illecita attività distrattiva dei fondi sociali. Di ciò, tuttavia, non vi è traccia agli atti, risultando, piuttosto, dai verbali delle adunanze dell’assemblea e dai verbali del collegio sindacale l’atteggiamento sostanzialmente passivo degli amministratori e dei sindaci rispetto alle scelte assunte dal Ci. (correttamente il Tribunale ha parlato di un “appiattimento”), senza che vi sia mai stata una manifestazione di dissenso o, comunque, una richiesta di chiarimenti…”.
2.4.2. Sotto il secondo aspetto, il sindaco è tenuto a conoscere i doveri specifici posti dalla legge e ad attivarsi perché l’organo amministrativo compia al meglio il proprio dovere gestorio, vigilando per impedire il verificarsi ed il protrarsi della situazione illecita. L’inerzia, a fronte dell’illecito altrui, è dunque in sé colpevole: ed il disinteresse è già indice di colpa (cfr., in motivazione, Cass. n. 18770 del 2019). A tal fine, va precisato ancora che: a) l’essere stato designato alla carica solo dopo la commissione dell’illecito non e’, di per sé, circostanza sufficiente ad esimere il sindaco da responsabilità, in quanto l’accettazione della carica comporta comunque l’assunzione dei doveri di vigilanza e di controllo; né la responsabilità per il ritardo nell’adozione delle misure necessarie viene meno per il fatto imputabile al precedente amministratore, una volta che, assunto l’incarico, fosse esigibile lo sforzo diligente di verificare la situazione e porvi rimedio (cfr. Cass. n. 31204 del 2017); b) le dimissioni non costituiscono mai condotta di adempimento del dovere, né sufficiente ad esimere da responsabilità, quando a ciò non si fossero accompagnati anche concreti atti volti a contrastare, porre rimedio o impedire il protrarsi degli illeciti, per la pregnanza degli obblighi assunti dai sindaci proprio nell’ambito della vigilanza sull’operato altrui, e perché la diligenza impone piuttosto un comportamento alternativo: equivalendo allora le dimissioni ad una sostanziale inerzia ed, anzi, divenendo esemplari della condotta colposa e pilatesca tenuta dal sindaco, del tutto indifferente e inerte nel rilevare la situazione di illegalità reiterata (cfr., in motivazione, Cass. n. 18770 del 2019).
2.4.3. E’ doveroso rimarcare, poi, che l’efficacia della cessazione per dimissioni dalla carica di sindaco di società presuppone la comunicazione al sindaco supplente, così da consentire a quest’ultimo di conoscere dell’investitura ricevuta a seguito delle dimissioni e della responsabilità derivantene (cfr. Cass. n. 6788 del 2012. Si veda anche Cass. n. 5928 del 1986). In relazione a questo specifico profilo, il motivo del ricorso in esame difetta di autosufficienza, non individuando, né riportando, una tale comunicazione.
2.4.4. Quanto, poi, alla decadenza dalla carica ex art. 2404 c.c., comma 2, e fermo quanto si è appena detto circa la concreta configurabilità del sindaco supplente, è opportuno rimarcare che detta decadenza, avente natura sanzionatoria e concepita per sancire la cessazione del diritto alla retribuzione, non può produrre – fino all’assunzione dalla funzione da parte di colui che sia stato chiamato alla sua sostituzione – l’effetto virtuoso, per il sindaco ipoteticamente venuto meno ai suoi doveri, di escludere la sua responsabilità.
2.4.4.1. Nella specie, l’unica data dalla quale si ha certezza dell’avvenuta assunzione dell’incarico da parte dei sindaci supplenti (dopo le dimissioni dell’ A. e della C.) e’, pertanto, quella del verbale del 10 febbraio 1996 riportato in ricorso.
2.5. Resta da precisare che l’onere di allegazione e di prova nelle azioni di responsabilità avverso l’organo sindacale si atteggia nel senso che spetta all’attore allegare l’inerzia del sindaco e provare il fatto illecito gestorio, accanto all’esistenza di segnali d’allarme che avrebbero dovuto porre i sindaci sull’avviso; assolto tale onere, l’inerzia del sindaco integra di per sé la responsabilità, restando a carico del medesimo l’onere di provare di non aver avuto nessuna possibilità di attivarsi utilmente, ponendo in essere tutta la gamma di atti, sollecitazioni, richieste, richiami, indagini, sino alle denunce alle autorità civile e penale (cfr., in motivazione, Cass. n. 18770 del 2019). Costituisce, infatti, costante indirizzo interpretativo quello per cui la natura contrattuale della responsabilità degli amministratori e dei sindaci verso la società comporta che quest’ultima ha soltanto l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità fra queste ed il danno verificatosi, mentre incombe sugli amministratori e sindaci l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti (cfr. Cass. n. 28642 del 2020, in motivazione; Cass. n. 2975 del 2020; Cass. n. 17441 del 2016; Cass. n. 14988 del 2013; Cass. n. 22911 del 2010).
2.6. Alla stregua dei suddetti principi, rileva il Collegio che la sentenza impugnata si sottrae solo in parte alle censure proposte dall’odierno, articolato motivo di ricorso dell’ A. e della C..
2.6.1. Invero, la corte palermitana, dopo aver dato ampiamente. conto dei gravi e reiterati illeciti gestori (condotte distrattive; false fatturazioni, etc.) ascritti al Ci. quale Presidente della soc. coop. a r.l. Movie e gestore di fatto dell’attività sociale della stessa, ha rimarcato – come si è già anticipato – che il rapido declino della società cooperativa e l’aumento delle perdite di esercizio avrebbero dovuto allertare l’intero organo amministrativo ed il collegio sindacale e chiedere, al riguardo, dettagliate informazioni, accompagnate da un’approfondita verifica di tutte le scritture contabili, comportamento che avrebbe assai verosimilmente consentito di fare emergere l’illecita attività distrattiva dei fondi sociali. Di ciò, tuttavia, non vi era traccia agli atti, “risultando, piuttosto, dai verbali delle adunanze dell’assemblea e dai verbali del collegio sindacale l’atteggiamento sostanzialmente passivo degli amministratori e dei sindaci rispetto alle scelte assunte dal Ci. (correttamente il Tribunale ha parlato di un “appiattimento”), senza che vi sia mai stata una manifestazione di dissenso o, comunque, una richiesta di chiarimenti…” (cfr. pag. 13 della sentenza impugnata).
2.6.2. La descritta situazione di grave illiceità dei comportamenti del Ci., quale rumoroso “campanello di allarme” e macroscopico “segnale” circa la condizione di illegalità della gestione dell’attività sociale, avrebbe dovuto indurre i sindaci, per ognuno degli illeciti gestori dedotti e provati dalla cooperativa attrice, ed in relazione ai tempi di permanenza in carica di ciascun collegio sindacale, a tentare di porvi riparo, a vigilare in modo non sporadico ed in profondità sulla quotidiana gestione, ad interessare la pubblica autorità, per prevenire ulteriori eventuali condotte criminose. Ne’, si noti, sarebbe stato onere della società attrice prima, e del giudice del merito poi, individuare lo specifico atto che, in particolare, in quel giorno ed in quel luogo, il sindaco avrebbe dovuto porre in essere al fine di esonerarsi da responsabilità: posto che, a fronte di una condizione di illiceità reiterata e senza scrupoli, la mera inerzia lo condanna, integrando assolvimento adeguato dell’onere di allegazione attorea. E’, invece, onere del sindaco medesimo provare di essere senza colpa, perché fattori insuperabili – che egli allora e’, sì, tenuto ad identificare e provare – gli abbiano impedito la conoscenza degli eventi e la possibilità di attivarsi (cfr. Cass. n. 18870 del 2019, in motivazione).
2.6.3. Nemmeno è corretto, peraltro, ritenere, in linea di principio, che i sindaci non dovrebbero comunque rispondere di fatti avvenuti prima della loro nomina, atteso che rientra nei doveri dei componenti il collegio sindacale di verificare la correttezza non solo formale della contabilità e la sua rispondenza ai fatti reali da documentare, specialmente quando sia rilevabile una entità anomala delle poste contabili. In siffatte ipotesi, tuttavia, è innegabile che il giudice di merito non possa esimersi dal motivare in ordine all’esigibilità delle dovute corrispondenti condotte da parte di quei sindaci che abbiano concretamente assunto le loro funzioni solo dopo il verificarsi degli illeciti gestori dell’organo amministrativo. E, specularmente, analogo obbligo motivazionale deve ravvisarsi con riguardo alla posizione di coloro che abbiano ricoperto la medesima carica in un intervallo temporale solo anteriore rispetto alla commissione degli illeciti predetti.
2.6.4. Parimenti non può condividersi l’assunto per cui i sindaci non avrebbero dovuto rispondere delle condotte distrattive operate fraudolentemente, e senza che essi potessero accorgersene, dal Ci. nella indicata qualità: invero, l’accertamento controfattuale, sopra ricordato, induce a ravvisarne la responsabilità tutte le volte in cui la loro olimpica inerzia non sia stata minimamente scalfita dall’idea di esercitare uno dei numerosi poteri di cui essi per legge dispongono, al fine di garantire la legalità dell’agire gestorio: onde, a fronte di una simile inerzia, è onere del sindaco giustificarla mediante l’allegazione di impedimenti non superabili con la diligenza professionale della carica. Pertanto, in una vicenda come la presente, caratterizzata dall’agire dell’amministratore senza il rispetto dei principi di corretta gestione, protrattosi nel tempo – reiterata falsa fatturazione rilevante; distrazione di somme – la responsabilità dei sindaci risiede già nel fatto di non aver rilevato le macroscopiche violazioni e, quindi, di non avere in alcun modo ad esse reagito.
2.6.5. Alteris verbis, laddove i sindaci abbiano mantenuto un comportamento inerte, non vigilando adeguatamente sulla condotta illecita gestoria contraria alla corretta amministrazione dell’impresa, non è sufficiente ad esonerarli da responsabilità la dedotta circostanza di essere stati tenuti all’oscuro dagli amministratori o, magari, di avere essi assunto la carica dopo l’effettiva realizzazione di alcuni dei fatti dannosi, allorché, accettato l’incarico, fosse da essi esigibile lo sforzo diligente di verificare la situazione e di porvi rimedio, onde l’attivazione conformemente ai doveri della carica avrebbe potuto permettere di scoprire tali fatti e di reagire ad essi, prevenendo danni ulteriori.
2.7. Merita condivisione, invece, nei limiti di cui appresso, l’assunto dell’ A. e della C. secondo cui (cfr. pag. 12 del loro ricorso) la corte distrettuale, “pur avendo rilevato, nel periodo oggetto di causa (1995-1998), la successione in carica di due collegi sindacali, non si era curata di distinguere la responsabilità differente dei due organi rispetto alle varie distinte operazioni, asseritamente non controllate, in relazione alla loro epoca, con evidente violazione degli artt. 2403 e 2407 c.c., potendo ogni collegio rispondere soltanto delle omissioni relative alla sua durata in carica, restando esclusa una responsabilità per il periodo successivo del primo e per quello antecedente il secondo, con la conseguenza di cumulare indistintamente la responsabilità dell’uno e dell’altro, mediante ricorso ad un criterio di solidarietà arbitrariamente posto “a monte” del ragionamento, anziché da applicarsi eventualmente “a valle” dello stesso, con ulteriore violazione dell’art. 2055 c.c., utilizzato inauditamente come “fonte” di una obbligazione collettiva e non come e’, quale elemento di responsabilità congiunta a fronte dell’unicità della vera “fonte” di ogni singola obbligazione”.
2.7.1. Giova premettere, invero, in linea generale, che, nell’ipotesi in cui due o più soggetti concorrono a causare un evento di danno con distinti comportamenti colposi, la responsabilità per fatto illecito dà luogo ad un’obbligazione in cui la ragione della domanda non è data da ciascun fatto concreto che determina l’evento, ma da tutti i possibili fatti riconducibili al medesimo titolo di responsabilità che hanno concorso a determinare il danno (cfr. anche Cass. 9.11.2006, n. 23918, in motivazione, e Cass. 3.3.2010, n. 5057, in motivazione). La diversità dei fatti che hanno dato causa all’evento, quindi, non genera diverse obbligazioni risarcitorie, ma la medesima.
2.7.2. E’ noto, peraltro, che quando il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno (art. 2055 c.c., comma 1). Tale principio, posto dalla legge in modo espresso in materia di responsabilità extracontrattuale, vale certamente anche per la responsabilità contrattuale (cfr. Cass. n. 13039 del 1991; Cass. n. 5287 del 1998), quand’anche il danno derivi dall’inadempimento di contratti diversi, ovvero quando la responsabilità abbia per alcuno dei danneggianti natura contrattuale e, per altri, natura extracontrattuale: questo perché tale forma di responsabilità, trovando la sua ragion d’essere in un’esigenza di tutela del danneggiato, ha il suo fondamento nell’unicità del fatto dannoso, la quale non viene meno se le norme violate sono diverse (cfr. Cass. n. 10987 del 1996; Cass. n. 7231 del 1995; Cass. n. 2605 del 1993). Significativo, in proposito, si rivela l’insegnamento di Cass., SU, n. 16503 del 2009 (cfr. in motivazione), secondo cui “in contrapposizione all’art. 2043 c.c., che fa sorgere l’obbligo del risarcimento dalla commissione di un “fatto” doloso o colposo, il successivo art. 2055 c.c. considera, ai fini della solidarietà nel risarcimento stesso, il “fatto dannoso”, sicché, mentre la prima norma si riferisce all’azione del soggetto che cagiona l’evento, la seconda riguarda la posizione di quello che subisce il danno, ed in cui favore è stabilita la solidarietà”. Ed analoga solidarietà passiva è espressamente sancita dall’art. 2407 c.c., comma 2, per il quale i sindaci “sono solidalmente responsabili con gli amministratori, per i fatti o le omissioni di questi, quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica”: non vi è alcun elemento, nella formulazione di tale disposizione, che possa autorizzare a ritenere che essa deroghi ai principi generali in tema di partecipazione nella produzione dell’evento dannoso e deve quindi escludersi che la responsabilità dei sindaci, verso il danneggiato, sia commisurata, in percentuale, all’entità del loro concorso nella causazione dell’evento dannoso (cfr. Cass. n. 5287 del 1998).
2.7.3. In altri termini, la diversità delle condotte illecite e dei soggetti che le hanno poste in essere è circostanza del tutto indifferente alla integrazione della fattispecie di cui all’art. 2055 c.c., comma 1, atteso che l’unica questione rilevante ai fini della responsabilità solidale dei soggetti che hanno contribuito alla produzione dell’eventus damni attiene alla verifica del rapporto di causalità materiale, ex art. 41 c.p., (da intendersi in senso civilistico secondo il criterio del “più probabile che non”) tale per cui tutte le cause concorrenti, preesistenti, simultanee o sopravvenute, debbono ritenersi parimenti determinanti, ove non accertata l’esclusiva efficienza causale di una di esse (cfr. Cass. n. 7016 del 2020).
2.7.4. Deve ribadirsi, in proposito, il consolidato principio, enunciato da questa Corte, secondo cui l’unicità del fatto dannoso richiesta dall’art. 2055 c.c. ai fini della configurabilità della responsabilità solidale degli autori dell’illecito va intesa in senso non assoluto, ma relativo al danneggiato, sicché ricorre tale responsabilità, volta a rafforzare la garanzia di quest’ultimo e non ad alleviare la responsabilità degli autori dell’illecito, pur se il fatto dannoso sia derivato da più azioni o omissioni, dolose o colpose, costituenti fatti illeciti distinti, e anche diversi, sempre che le singole azioni o omissioni, legate da un vincolo di interdipendenza, abbiano concorso in maniera efficiente alla produzione del danno, a nulla rilevando, a differenza di quanto accade nel campo penalistico, l’assenza di un collegamento psicologico tra le stesse (cfr., ex aliis, Cass. n. 1842 del 2021; Cass. n. 7016 del 2020; Cass. n. 23450 del 2018; Cass. n. 18753 del 2017; Cass. n. 18899 del 2015; Cass., SU, n. 16503 del 2009, in motivazione).
2.7.5. Deve, altresì, escludersi, a norma dell’art. 41 c.p., comma 2, l’imputabilità del fatto dannoso a taluno degli autori delle condotte illecite esclusivamente nel caso in cui a uno solo degli antecedenti causali debba essere riconosciuta efficienza determinante ed assorbente, tale da escludere il legame eziologico tra l’evento dannoso e gli altri fatti, relegati al rango di mere occasioni (cfr. Cass. n. 7016 del 2020), sicché il giudice, ove quel fatto dannoso si articoli in una pluralità di azioni od omissioni poste in essere da più soggetti, è tenuto a verificare se, alla luce del criterio predetto, ricorra un unico fatto dannoso ovvero non si tratti, anche in parte, di fatti autonomi e scindibili che abbiano, a loro volta, prodotto danni distinti: dei quali, evidentemente, in forza del principio secondo cui ognuno risponde esclusivamente dell’evento di danno rispetto al quale la sua condotta, attiva o omissiva, abbia operato come causa efficiente ponendosi come suo antecedente causale necessario, può essere chiamato a rispondere solo chi, con la sua azione od omissione, vi abbia concorso (cfr. Cass. n. 1842 del 2021; Cass. n. 20192 del 2014).
2.7.6. Da quanto finora esposto deriva, allora, chiaramente, che presupposto per l’operatività dell’art. 2055 c.c. (norma che riproduce l’art. 1156 c.c. del 1865) è l’unicità del fatto dannoso alla cui produzione abbiano concorso diverse persone: pertanto, tale responsabilità solidale non ricorre nel caso di azioni di più soggetti da cui derivino distinti effetti dannosi, quando, quindi, le condotte realizzate da più soggetti abbiano leso separatamente interessi diversi del danneggiato. Restano, cioè, tuttora attuali gli insegnamenti di Cass. n. 7680 del 1991, secondo cui “la solidarietà dell’obbligazione di risarcimento del danno prevista dall’art. 2055 c.c., presuppone il concorso di più cause dello stesso evento e non ricorre, quindi, nel caso di azioni distinte anche per gli effetti”, nonché quelli di Cass. n. 2204 del 1989, a tenore della quale “la presunzione di colpa concorrente di tutti coloro che abbiano partecipato al fatto illecito opera sul presupposto che questo sia la risultante di una cooperazione di attività nella produzione di un medesimo evento lesivo. Se, invece, le azioni potenzialmente dannose sono plurime ma distinte, ancorché contemporanee, non può essere affermata una responsabilità congiunta e solidale, poiché la responsabilità, trattandosi di fatto illecito, deve di regola presumersi individuale. In tal caso, non sussiste la solidarietà prevista dall’art. 2055 c.c…. non potendosi addossare una responsabilità, per così dire, collettiva, sol perché non si è acquisita la prova dell’imputabilità individuale”.
2.7.7. Fermo quanto precede, nel caso in esame, la corte d’appello ha rimarcato, con particolare riferimento alla posizione dei sindaci, che, “in caso di pregiudizio alla società derivante dal fatto degli amministratori, l’art. 2407 c.c., comma 2 prevede il sorgere della responsabilità solidale dei sindaci, qualora gli stessi (come nella specie) non abbiano ottemperato ai doveri di vigilanza inerenti alla loro carica e ricorra un nesso di causalità tra tale inosservanza e il danno arrecato alla società”, altresì puntualizzando che “proprio la suddetta responsabilità solidale di tutti i soggetti, ai quali è risultato imputabile il fatto dannoso, comporta che non può essere operata alcuna distinzione tra il diverso apporto di ciascuno degli amministratori e dei sindaci alla determinazione del danno, essendo l’unicità del fatto dannoso riferita soltanto al danneggiato (…). Consegue l’infondatezza del rilievo degli appellanti incidentali (..) con il quale si è censurata la sentenza impugnata, per avere attribuito a tutti i sindaci la medesima responsabilità, pur dando atto dei diversi periodi, in cui gli stessi hanno ricoperto la carica” (cfr. pag. 16-17 della sentenza impugnata).
2.7.8. Rileva, però, il Collegio che è da ritenersi pacifico (cfr. pag. 14 della sentenza appello), nel caso in esame, che amministratori e sindaci sono stati condannati in solido a risarcire alla società il pregiudizio prodotto al patrimonio sociale da una serie di condotte distrattive o appropriative, specificamente individuate, commesse tra il 1995 ed il 1998: il danno, cioè, è stato liquidato in misura coincidente con il risultato economico negativo di ciascuna delle operazioni di volta in volta poste in essere. Non si tratta, dunque, in questo caso, di unico fatto dannoso e/o di unico danno, ma di più fatti e danni, tanti quante sono le operazioni di sottrazione di somme poste in essere dal presidente infedele. In altri termini, si è al cospetto di danni molteplici verificatisi in momenti diversi, nei quali, peraltro, l’organo di controllo avevano diversa composizione: in particolare, la C. e l’ A. sono stati sindaci fino al 1996, mentre la B., la Co. ed il P. dal 1996 al 1998.
2.7.9. La corte d’appello, invece, ha condannato tutti (amministratori e sindaci) in solido a risarcire il danno nella misura corrispondente alla sommatoria indistinta delle varie operazioni commesse nell’uno e nell’altro periodo. Ma, così operando, ha violato sia l’art. 2055 c.c., comma 1, (alla stregua di tutto quanto si è già riferito circa la concreta ipotesi cui quella previsione si riferisce), sia l’art. 2407, comma 2 medesimo codice, atteso che prima bisognava accertare se sussistesse, o non, la responsabilità dei sindaci (oltre che degli amministratori) per ciascun danno accertato e derivante da ognuna delle operazioni distrattive poste in essere dall’organo gestorio, e poi porre a carico dei responsabili il relativo risarcimento. Risulta, del resto, veramente incomprensibile (a meno di non volersi invocare, del tutto illegittimamente, una sorta di mera “responsabilità da carica”) come l’ A. e la C. potessero essere chiamati a rispondere, per i danni al patrimonio sociale, pure in relazione a fatti di appropriazione pacificamente avvenuti dopo che essi avevano cessato le loro funzioni di sindaci.
2.8. Nei sensi finora precisati, dunque, il loro motivo di ricorso deve essere accolto, con conseguente cassazione, in parte qua, della sentenza impugnata, posto che, come condivisibilmente osservato dal sostituto procuratore generale, “la quantificazione del danno ancorata dalla Corte territoriale ad una sommatoria di fatti specifici distribuiti nel tempo, (..), non può essere comune ed indistinta fra tutti i sindaci, ma deve tenere conto del rispettivo contributo causale a tali fatti” (cfr. pag. 3 delle sue conclusioni scritte).
3. Venendo, poi, ai quattro motivi del ricorso incidentale proposto anch’esso tempestivamente, alla stregua dei già riportati principi espressi, ex aliis, da Cass. n. 394 del 2021 (cfr. in motivazione), Cass. n. 15582 del 2020Cass. n. 33809 del 2019, Cass. n. 28259 del 2019 e Cass. n. 5695 del 2015) – da B.G., Co.Ga. e P.D., essi sono rubricati, rispettivamente:
I) “Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2236,2403 e 2697 c.c. e 115 c.p.c.”. Si assume che i sindaci B., Co. e P. non avevano in alcun modo concorso alla realizzazione delle condotte illecite descritte alla pagina 10 della sentenza impugnata, né erano stati indagati per l’eventuale concorso nel corrispondente reato. Doveva, dunque, escludersi, una responsabilità dolosa dei sindaci predetti, né erano stati accertati specifici atti, ad essi ascrivibili, cui ricondurre una loro responsabilità per colpa grave. Parimenti era mancata qualsivoglia dimostrazione dell’esistenza del nesso di causalità tra le loro condotte ed il danno invocato dalla soc. coop. a r.l. Movie, come pure quantificato dai giudici di merito. La corte distrettuale, infine, aveva condannato i suddetti odierni ricorrenti incidentali a risarcire danni provocati da un loro presunto omesso controllo per un periodo anteriore a quello in cui gli stessi hanno ricoperto la carica di sindaco della società;
II) “Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2407 e 2055 c.c.”. Si sostiene che la corte territoriale avrebbe dovuto accertare se, ed in che misura, la presunta omissione imputata agli odierni ricorrenti incidentali avesse, o meno, causato un diverso ed autonomo danno alla cooperativa Movie e, di conseguenza, condannarli al risarcimento di tale autonomo e specifico danno, qualora provato. Nessuna solidarietà era, quindi, ipotizzabile, tra il presidente malfattore (e reo confesso) ed i sindaci;
III) “Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. Si critica la sentenza impugnata per non aver tenuto in alcun conto che, nell’espletamento del loro incarico, i sindaci avevano utilizzato la stessa diligenza degli ufficiali della Guardia di Finanza che avevano effettuato gli accertamenti culminati nel processo verbale di contestazione, essendo pervenuti alle medesime valutazione di questi ultimi;
IV) “Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, per non essere stato considerato il fatto che la B. ed il P. avevano assunto la carica di sindaco soltanto nel 1996, sicché non avrebbero potuto certamente rispondere per il periodo precedente.
3.1. La prima, la seconda e la quarta di queste doglianze, scrutinabili congiuntamente perché connesse, possono trovare accoglimento, nei soli limiti di cui si dirà, alla stregua dei principi tutti già esposti con riferimento al ricorso (n. r.g. 6957/2016) della M. ed a quello (formalmente principale nel procedimento n. 7281/2016) dell’ A. e della C..
3.2. In proposito, invero, è sufficiente ribadire: i) che la corte distrettuale ha espressamente valutato la circostanza fattuale relativa all’estraneità dei vari componenti il collegio sindacale, rispetto ai fatti di reato contestati al Ci. (“a nulla rileva la circostanza, dedotta dagli appellanti incidentali, che di questi ultimi non sia stata provata la loro compartecipazione all’attività delittuosa perpetrata dal Ci. e dagli altri soggetti condannati nel giudizio penale e della loro conoscenza della condotta illecita”. Cfr. pag. 15 della sentenza impugnata), ma l’ha considerata del tutto irrilevante, correttamente assumendo che “…ciò che conta, in sede civile, è la violazione dei doveri di controllo e vigilanza, incombenti, oltre che sugli amministratori, anche sui componenti del collegio sindacale…”; li) che, laddove i sindaci abbiano mantenuto – come nella specie, per effetto di quanto si è ampiamente detto in precedenza – un comportamento inerte, non vigilando adeguatamente sulla condotta illecita gestoria contraria alla corretta amministrazione dell’impresa, non è sufficiente ad esonerarli da responsabilità la dedotta circostanza di essere stati tenuti all’oscuro dagli amministratori o, magari, di avere essi assunto la carica dopo l’effettiva realizzazione di alcuni dei fatti dannosi, allorché, accettato l’incarico, fosse da essi esigibile lo sforzo diligente di verificare la situazione e di porvi rimedio, onde l’attivazione conformemente ai doveri della carica avrebbe potuto permettere di scoprire tali fatti e di reagire ad essì, prevenendo danni ulteriori; iii) le specifiche argomentazioni già ampiamente esposte nei precedenti paragrafi da 2.7.1. a 2.7.9., da intendersi, qui, per brevità, interamente riportate. Le stesse, infatti, consentono agevolmente di giungere all’accoglimento della residua parte dei motivi di ricorso in esame, con conseguente cassazione, in parte qua, della sentenza impugnata, posto che, anche in relazione alle posizioni della B., della Co. e del P., vale la riportata conclusione del sostituto procuratore generale secondo cui “la quantificazione del danno ancorata dalla Corte territoriale ad una sommatoria di fatti specifici distribuiti nel tempo, (…), non può essere comune ed indistinta fra tutti i sindaci, ma deve tenere conto del rispettivo contributo causale a tali fatti”.
3.3. Circa, invece, il terzo motivo del loro ricorso, va ricordato che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (formalmente invocato dai menzionati ricorrenti incidentali con la doglianza in esame), nel testo, indicato in precedenza, qui applicabile, riguarda un vizio specifico denunciabile per cassazione relativo all’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, da intendersi riferito ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, come tale non ricomprendente questioni o argomentazioni (cfr. Cass. n. 395 del 2021, in motivazione; Cass., SU, n. 16303 del 2018, in motivazione; Cass. n. 14802 del 2017; Cass. n. 21152 del 2015), sicché non sono consentite le censure che, come nella specie, irritualmente, estendano il paradigma normativo a quest’ultimo profilo (cfr., ex aliis, Cass. n. 4477 del 2021, in motivazione; Cass. n. 395 del 2021, in motivazione, Cass. n. 22397 del 2019; Cass. n. 26305 del 2018; Cass. n. 14802 del 2017). Invero, il giudizio di legittimità non può essere trasformato, surrettiziamente, in un nuovo, non consentito, ulteriore grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (cfr. Cass. n. 21381 del 2006, nonché le più recenti Cass. n. 8758 del 2017 e Cass., SU, n. 34476 del 2019).
4. Va sottolineato, infine, che M.D. (già ricorrente, come si è visto, nel procedimento n. r.g. 6957/2016), costituendosi con un atto denominato “controricorso” (anche) – avviato alla notifica il 5 aprile 2016 nel procedimento n. 7281/2916, ha aderito integralmente alle ragioni del ricorso dell’ A. e della C. ed ha chiesto la cassazione della sentenza impugnata “anche per i motivi proposti dai ricorrenti, cui si aderisce integralmente”.
4.1. Orbene, è noto che qualora un atto, anche se denominato controricorso, non contesti il ricorso principale ma aderisca ad esso, deve qualificarsi come ricorso incidentale di tipo adesivo, con conseguente inapplicabilità dell’art. 334 c.p.c. in tema di impugnazione incidentale tardiva (cfr. Cass. n. 24155 del 2017).
4.2. Tanto premesso, un siffatto ricorso incidentale della M. deve considerarsi inammissibile: i) per omessa specificazione dei motivi (cfr. Cass. n. 42 del 1970); ii) perché, in tema di ricorso per cassazione, una volta che la parte abbia già proposto un primo ricorso ed abbia, quindi, esercitato il relativo potere di impugnazione in ordine al provvedimento censurato, essa ha esaurito la facoltà di critica della decisione che assume a sé pregiudizievole, senza che possa proporre una successiva impugnazione, salvo che la prima sia invalida, non sia stata ancora dichiarata inammissibile o improcedibile e venga rispettato il termine di decadenza previsto dalla legge (cfr. Cass. n. 8552 del 2020; Cass. n. 24332 del 2016; Cas., SU, n. 9688 del 2013. In senso sostanzialmente conforme, si veda anche la più recente Cass., SU, n. 6691 del 2020). Nel caso di specie, il giudizio (n. r.g. 6957 del 2016) introdotto con il primo ricorso della M. è stato validamente instaurato, sotto il profilo processuale, sicché deve ritenersi inammissibile il menzionato suo secondo ricorso incidentale (proposto nel successivo procedimento n. 7281 del 2016).
C) Conclusioni e regime delle spese.
1. Riepilogando, dunque:
i) il ricorso (n. r.g. 6957 del 2016) di M.D. deve essere respinto, senza necessità di pronuncia in ordine alle spese di questo giudizio di legittimità posto che: i-a) il controricorso della Movie Società Cooperativa a r.l. non risulta esserle stato validamente notificato, né la menzionata società, come sarebbe stato suo preciso onere, anche alla luce del principio della ragionevole durata del processo (atteso che la richiesta di un provvedimento giudiziale avrebbe comportato un allungamento dei tempi del giudizio), ha provveduto a riattivare con immediatezza il processo notificatorio, senza necessità dell’apposita istanza a questa Corte formulata, peraltro, solo nella memoria ex art. 378 c.p.c. datata 22 marzo 2021; i-b) il controricorso dell’ A. e della C. è sostanzialmente privo di puntuali allegazioni difensive; i-c) sono rimasti solo intimati Ci.St., B.G., Co.Ga. e P.D..
Va dato atto, inoltre, – in assenza di ognì discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto recentemente precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 – che, stante il tenore della pronuncia adottata, sussistono, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte della M., di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il suo ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto, mentre “spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento”.
ii) il ricorso (n. r.g. 7281 del 2016) di A.M. e C.G., riqualificato come incidentale, deve essere accolto nei limiti di cui si è detto;
M) il ricorso incidentale di B.G., Co.Ga. e P.D. deve essere accolto, nei limiti descritti, in relazione al primo, secondo e quarto motivo, respingendosene il terzo;
iv) il ricorso incidentale di M.D. (tale dovendo considerarsi il suo controricorso adesivo depositato nel procedimento n. r.g. 7281 del 2016), infine, deve essere dichiarato inammissibile, con compensazione delle spese riguardanti i soli rapporti processuali riguardanti la stessa per la sostanziale assenza di puntuali allegazioni difensive nel ricorso predetto. Peraltro, stante il tenore della pronuncia adottata su quest’ultimo, sussistono, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte della M., di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per detto ricorso, salva la verifica, spettante all’amministrazione giudiziaria, della debenza in concreto del contributo medesimo per le stesse ragioni già precedentemente esposte.
2. La sentenza impugnata, pertanto, deve essere cassata e la causa rinviata alla Corte di appello di Palermo, in diversa composizione, per il corrispondente nuovo esame, in relazione ai soli motivi accolti di ciascuna impugnazione.
2.1. All’indicato giudice di rinvio è rimessa anche la regolamentazione delle spese di questo giudizio di legittimità diverse da quelle di cui al precedente complessivo punto sub-1).
P.Q.M.
La Corte, previa loro riunione ex art. 335 c.p.c.: a) rigetta il ricorso (n. r.g. 6957 del 2016) di M.D.. Nulla per le relative spese; b) accoglie, nei sensi di cui in motivazione, il ricorso (n. r.g. 7281 del 2016) di A.M. e C.G., riqualificato come incidentale; c) accoglie il ricorso incidentale di B.G., Co.Ga. e P.D., nei limiti descritti in motivazione, in relazione al primo, secondo e quarto motivo, respingendone il terzo; d) dichiara inammissibile il ricorso incidentale di M.D. (così riqualificato il suo controricorso adesivo depositato nel procedimento n. r.g. 7281 del 2016), con compensazione delle spese riguardanti i soli rapporti processuali ivi riguardanti la stessa.
Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di appello di Palermo, in diversa composizione, per il corrispondente nuovo esame, in relazione ai soli motivi accolti di ciascuna impugnazione, e per la regolamentazione delle spese di questo giudizio di legittimità diverse da quelle di cui al periodo precedente.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della M. (in relazione al suo ricorso introduttivo del procedimento n. r.g. 6957/2016 ed a quello incidentale nel procedimento n. r.g. 7281/2016), di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per ciascuno dei menzionati ricorsi a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione Prima civile della Corte Suprema di cassazione, il 8 aprile 2021.
Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2021
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