Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.270 del 12/01/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – rel. Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al numero 10766 del ruolo generale dell’anno 2017 proposto da:

Z.M., (C.F.: *****), rappresentata e difesa, giusta procura in calce al ricorso, dagli avvocati Giuseppe Casalino, (C.F.: CSLGPP37T09G964M), Nicola Casalino, (C.F.: CSLNCL69A14G964D), ed Eugenio Casalino, (C.F.: CSLGNE71A09G964J)

– ricorrente –

nei confronti di:

EQUITALIA SERVIZI DI RISCOSSIONE S.p.A., (C.F.: *****), in persona del legale rappresentante pro tempore COMUNE DI NAPOLI (C.F.: *****), in persona del Sindaco, legale rappresentante pro tempore;

– intimati –

per la cassazione dell’ordinanza del Tribunale di Napoli in data 31 gennaio 2017 (pronunziata nella causa iscritta al n. 22301 dell’anno 2016 del R.G.A.C.) e della sentenza del Giudice di Pace di Napoli n. 1111/2016, pubblicata in data 18 gennaio 2016;

udita la relazione sulla causa svolta alla Camera di consiglio del 23 novembre 2020 dal Consigliere Dott. Augusto Tatangelo.

FATTI DI CAUSA

Z.M. ha proposto opposizione in relazione alla procedura di riscossione avviata nei suoi confronti dal locale agente della riscossione Equitalia Sud S.p.A. (poi divenuta Equitalia Servizi di Riscossione S.p.A.) sulla base di due cartelle di pagamento emesse per crediti del Comune di Napoli aventi ad oggetto sanzioni amministrative per violazioni del C.d.S., convenendo in giudizio sia l’agente della riscossione che l’ente creditore.

L’opposizione è stata rigettata dal Giudice di Pace di Napoli.

Il Tribunale di Napoli ha dichiarato inammissibile l’appello proposto dalla Z., ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c., ritenendo che non sussistessero ragionevoli probabilità di un suo accoglimento.

Ricorre la Z., sia contro l’ordinanza del tribunale che contro la sentenza del giudice di pace, sulla base di quattro motivi.

Non hanno svolto attività difensiva in questa sede gli enti intimati.

Il ricorso è stato trattato in Camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375 e 380 bis.1 c.p.c..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo del ricorso si denunzia (quale “ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost.”) “Violazione dell’art. 348 ter c.p.c. (error in procedendo) e del contraddittorio per non avere il Tribunale, investito dell’appello, previamente invitato le parti a discutere sulla questione dell’inammissibilità dell’appello; e per l’omessa pronuncia in ordine ai motivi di appello”.

Con il motivo di ricorso in esame – rivolto contro l’ordinanza del tribunale che ha dichiarato inammissibile l’appello ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c., per la insussistenza di ragionevoli probabilità di un suo accoglimento – sono avanzate due distinte censure.

La ricorrente deduce, in primo luogo, che il tribunale avrebbe dichiarato inammissibile il suo appello, ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c., senza preliminarmente invitare le parti a discutere la relativa questione.

Sostiene, inoltre, che il tribunale non avrebbe pronunciato su alcuni dei motivi di gravame.

1.1 La prima censura è ammissibile, essendo denunziato un vizio che si prospetta come proprio dell’ordinanza derivante dalla violazione della legge processuale, conformemente a quanto sancito in proposito da questa stessa Corte (cfr. in particolare: Cass., Sez. U., Sentenza n. 1914 del 02/02/2016, Rv. 638368 – 01, secondo cui “l’ordinanza di inammissibilità dell’appello resa ex art. 348 ter c.p.c., è ricorribile per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7, limitatamente ai vizi suoi propri costituenti violazioni della legge processuale quali, per mero esempio, l’inosservanza delle specifiche previsioni di cui all’art. 348 bis c.p.c., comma 2 e art. 348 ter c.p.c., comma 1, primo periodo e comma 2, primo periodo – purchè compatibili con la logica e la struttura del giudizio ad essa sotteso”; Cass., Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 20758 del 04/09/2017, Rv. 645477 – 01, secondo cui “l’inosservanza della specifica previsione, di cui all’art. 348 ter c.p.c., comma 1, di sentire le parti prima di procedere alla trattazione ex art. 350 c.p.c. e di dichiarare inammissibile l’appello, costituisce un vizio proprio dell’ordinanza di inammissibilità resa a norma dell’art. 348 bis c.p.c. e, pertanto, integra una violazione della legge processuale deducibile per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7, escludendo anche la necessità di valutare se da tale violazione sia derivato un concreto ed effettivo pregiudizio al diritto di difesa delle parti; nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio l’ordinanza della corte territoriale, che, dopo aver disposto un rinvio puro e semplice della prima udienza, aveva dichiarato inammissibile l’appello senza procedere a sentire specificamente le parti sull’applicabilità dell’art. 348 bis c.p.c.”).

Essa però non è fondata.

La stessa ricorrente riporta il contenuto del verbale dell’udienza tenuta davanti al tribunale di Napoli, in cui il giudice ha dato espressamente atto di “riservarsi, in via preliminare, sull’ammissibilità dell’appello ex art. 348 bis c.p.c.”.

Essendo il verbale di udienza redatto in forma sintetica, laddove il giudice istruttore indichi espressamente la questione in ordine alla quale si riserva di provvedere, deve di regola intendersi avere fatto riferimento ad una questione che, su richiesta delle parti o su rilievo officioso, è stata oggetto di discussione o, quanto meno, è stata sottoposta all’attenzione delle stesse parti nel corso dell’udienza (ma sulla quale non ritiene di essere in grado di provvedere immediatamente). Non è quindi indispensabile che egli dia espressamente conto di avere invitato, con formula sacramentale, le parti a discutere della questione stessa, perchè la si possa qualificare come ritualmente resa oggetto di contraddittorio.

D’altra parte non può certo ipotizzarsi che il giudice che dichiari espressamente di riservarsi di provvedere fuori udienza in ordine ad una determinata questione, all’esito dell’udienza stessa, intenda far riferimento ad una questione non sottoposta alle parti, in violazione del contraddittorio. E’ appena il caso di osservare, in proposito, che nella fattispecie esaminata in occasione del precedente sopra richiamato, di cui a Cass., n. 20758 del 2017, il giudice non si era riservato di provvedere fuori udienza espressamente in ordine alla questione dell’ammissibilità dell’appello ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c., ma aveva effettuato un mero rinvio della prima udienza senza alcun riferimento alla questione dell’ammissibilità dell’appello. E’ altresì opportuno sottolineare che, in base agli indirizzi di questa stessa Corte, non può ritenersi necessaria la fissazione di una udienza specificamente dedicata alla trattazione della questione di ammissibilità dell’appello (così come è stato del resto espressamente escluso che il giudice sia tenuto a concedere un termine alle parti per lo scambio di memorie e a svolgere una specifica relazione sulla questione: Cass., Sez. 2, Sentenza n. 9225 del 20/05/2020, Rv. 657700 – 01) e la decisione può essere adottata anche alla prima udienza (anzi, anche anteriormente: Cass., Sez. 3, Sentenza n. 12293 del 15/06/2016, Rv. 640215 – 01: “il giudice d’appello, se ha sentito le parti, può pronunciare l’ordinanza ex art. 348 bis c.p.c., in un’udienza anteriore a quella ex art. 350 c.p.c., o fissata ex art. 351 c.p.c., comma 3, a fini inibitori, atteso che l’effetto semplificatorio e accelera torio di tale anticipazione della dichiarazione di inammissibilità dell’appello non comporta alcuna lesione del diritto di difesa dell’appellante”), purchè dopo la verifica di integrità del contraddittorio (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 12887 del 26/06/2020, Rv. 658020 – 01) e prima della trattazione del merito della causa (Cass., Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 19333 del 20/07/2018, Rv. 650283 – 01; Sez. L, Sentenza n. 10409 del 01/06/2020, Rv. 657870 – 01), sempre che la questione venga in qualche modo sottoposta alle parti, di modo che esse possano interloquire su di essa.

Deve dunque, in conclusione, affermarsi il seguente principio di diritto: laddove il giudice dia espressamente atto, nel verbale di udienza, di riservarsi di provvedere in ordine ad una determinata questione (processuale o di altra natura), deve di regola ritenersi che egli intenda riferirsi ad una questione resa oggetto di discussione nel corso dell’udienza, o comunque sottoposta al contraddittorio delle parti presenti, quanto meno laddove non risulti espressamente il contrario in base a quanto emerge dal verbale stesso.

In base al principio appena enunciato, deve affermarsi che la questione dell’ammissibilità dell’appello ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c., era stata nella specie resa ritualmente oggetto di contraddittorio e, di conseguenza, che la decisione sulla stessa è stata legittimamente adottata, sotto il profilo processuale.

1.2 La seconda censura, avente ad oggetto la pretesa omessa pronunzia su alcuni dei motivi di appello da parte del tribunale, è inammissibile.

All’ordinanza che dichiara inammissibile l’appello per l’insussistenza di ragionevoli probabilità di un suo accoglimento, ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c., non essendo una sentenza che definisce il merito del giudizio, non può essere direttamente applicabile l’art. 112 c.p.c.. Al più, la suddetta ordinanza può essere censurata sotto il profilo della completezza della motivazione, nei limiti in cui tale vizio possa trovare ingresso nel giudizio di legittimità, secondo quanto chiarito dalla Sezioni Unite di questa Corte per cui, in sostanza, sussiste incompatibilità della denuncia del vizio di omessa pronuncia con il contenuto e la struttura della decisione ex art. 348 ter c.p.c. (cfr. Cass., Sez. U., Sentenza n. 1914 del 02/02/2016, Rv. 638368 – 01, in motivazione: “…… nell’ipotesi di ordinanza ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., in cui non è (invece) possibile una pronuncia di inammissibilità dell’impugnazione per mancanza di ragionevole probabilità di accoglimento se non in relazione a tutti i motivi d’appello – ed a tutti gli appelli proposti avverso la medesima sentenza – non risulta (pertanto) neppure configurabile una omessa pronuncia riguardo a singoli motivi di appello, potendo eventualmente porsi, nei limiti e nei termini in cui sia consentito dalla legislazione vigente, soltanto un problema di motivazione della decisione – necessariamente complessiva – assunta…….”).

D’altra parte, il vizio di motivazione dell’ordinanza in questione non è denunciabile con il ricorso straordinario per cassazione, salvo che non si tratti di motivazione del tutto mancante sul piano grafico o in ipotesi da ritenersi nella sostanza a quest’ultima equivalenti, cioè quando la decisione non contiene una effettiva esposizione delle ragioni che la giustificano, perchè propone contrasti irriducibili fra affermazioni inconciliabili ovvero si presenta perplessa o comunque risulta obiettivamente incomprensibile e quindi non idonea a rivelare la ratio decidendi, essendo peraltro necessario che tale situazione risulti esclusivamente dal medesimo testo della sentenza senza che sia necessario il raffronto con uno o più atti processuali (cfr. anche Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 20861 del 21/08/2018, Rv. 650429 – 01: “l’ordinanza di inammissibilità dell’appello resa ex art. 348 ter c.p.c. è ricorribile per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7, limitatamente ai vizi suoi propri costituenti violazioni della legge processuale quali, per mero esempio, l’inosservanza delle specifiche previsioni di cui all’art. 348 bis c.p.c., comma 2 e art. 348 ter c.p.c., comma 1, primo periodo e comma 2, primo periodo – purchè compatibili con la logica e la struttura del giudizio ad essa sotteso, mentre non sono deducibili nè “errores in iudicando” – art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – nè vizi di motivazione, salvo il caso che, però, trascende in violazione della legge processuale della motivazione mancante sotto l’aspetto materiale e grafico, della motivazione apparente, del contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili ovvero di motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”).

Nella specie, la motivazione espressa dal giudice di secondo grado a sostegno dell’ordinanza di inammissibilità del gravame sussiste certamente, non è apparente e neanche insanabilmente contraddittoria sul piano logico.

Il tribunale, sulla base della premessa per cui risultava correttamente intervenuta la notificazione delle due cartelle di pagamento per cui si procedeva (notificazione intervenuta, rispettivamente, nell’agosto 2014 e nel gennaio 2015, cioè prima del decorso del termine quinquennale di prescrizione, come precisato dal giudice di pace) e non era stata dedotta l’inesistenza della notificazione dei sottostanti verbali di accertamento delle infrazioni al C.d.S., ha – in modo logico e coerente – ritenuto l’infondatezza dei motivi di opposizione all’esecuzione (proposta tardivamente, solo nel settembre 2015), gli unici del resto oggetto di ammissibile gravame, non essendo appellabile la decisione di primo grado in relazione ai motivi di opposizione agli atti esecutivi.

Ne consegue l’inammissibilità della censura avanzata contro l’ordinanza in questione.

2. Con il secondo motivo si denunzia (quale “ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., comma 3 e art. 360 c.p.c.”) “2.A) Violazione o falsa applicazione degli artt. 615,479,480,474 e 100 c.p.c., in combinato disposto con il D.P.R. 29 novembre 1973, n. 602, art. 25 e del D.Lgs. n. 46 del 1999 art. 29 e con l’art. 201 C.d.S., comma 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; 2.B) omessa motivazione circa un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione alla eccepita mancata notifica o contestazione dei verbali di accertamento delle due violazioni non costituenti validi titoli posti a base delle due cartelle esattoriali, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”.

La ricorrente (impugnando in questo caso direttamente la decisione di primo grado, come nelle successive censure) deduce che il motivo di opposizione con cui aveva dedotto la mancata regolare e tempestiva notificazione dei verbali di accertamento delle infrazioni, costituente motivo di opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c., in quanto metteva in discussione l’esistenza del titolo esecutivo (da ritenersi caducato ai sensi dell’art. 201 C.d.S.), non sarebbe stato adeguatamente preso in considerazione dal giudice di pace.

La censura è infondata.

Le argomentazioni poste a suo fondamento (in particolare quelle con le quali si sostiene che la contestazione delle cartelle di pagamento per la mancata notificazione dei verbali di accertamento delle sottostanti infrazioni al C.d.S. va qualificata come opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c. e, come tale, non è soggetta a termini di decadenza) risultano in contrasto con i principi (che il ricorso non contiene ragioni idonee ad indurre a rivedere) sanciti da questa Corte (cfr. Cass., Sez. U., Sentenza n. 22080 del 22/09/2017, Rv. 645323 – 01), secondo cui “l’opposizione alla cartella di pagamento, emessa ai fini della riscossione di una sanzione amministrativa pecuniaria, comminata per violazione del C.d.S., ove la parte deduca che essa costituisce il primo atto con il quale è venuta a conoscenza della sanzione irrogata, in ragione della nullità o dell’omissione della notificazione del processo verbale di accertamento della violazione, deve essere proposta ai sensi del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 7 e non nelle forme dell’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., e, pertanto, entro trenta giorni dalla notificazione della cartella”.

Nella specie, a fronte della notificazione delle due cartelle di pagamento in discussione, avvenuta rispettivamente nell’agosto 2014 e nel gennaio 2015, l’opposizione è stata proposta nel settembre 2015, quindi ben oltre il termine di cui al D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 7, con conseguente radicale inammissibilità della stessa, in quanto tardiva.

Quanto appena esposto (anche eventualmente ad integrazione e correzione della motivazione espressa sul punto dal giudice del merito) assorbe e rende irrilevante ogni ulteriore questione avente ad oggetto la notificazione dei verbali di accertamento delle infrazioni.

3. Con il terzo motivo si denunzia (quale “ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., comma 3 e art. 360 c.p.c.”) “3.A) violazione o falsa applicazione dell’art. 140 c.p.c. (in combinato disposto con il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60) e art. 156 c.p.c., D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; 3.B) omessa motivazione circa un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione alla mancata prova da parte del concessionario della regolare notifica delle cartelle impugnate e, in particolare, degli adempimenti previsti dall’art. 140 c.p.c., per il perfezionamento del procedimento notificatorio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”.

Secondo la ricorrente, il giudice di pace avrebbe ritenuto erroneamente (non valutando adeguatamente le prove e malamente applicando le norme di diritto) che la notificazione delle cartelle di pagamento era avvenuta regolarmente.

In particolare, essa sostiene che – con riguardo alla suddette notificazioni, avvenute ai sensi dell’art. 140 c.p.c. – non risulterebbero presenti, nella relazione di notificazione, il “timbro” attestante il deposito dell’atto presso la casa comunale, la data di tale adempimento ed il numero della raccomandata contenente l’avviso di avvenuto deposito, che non sarebbe comunque stato documentato nè l’invio nè la ricezione di detta raccomandata e la riferibilità degli atti prodotti dagli enti opposti alle cartelle di cui è in discussione la regolare notificazione e neanche l’effettuazione delle ricerche per reperire il destinatario da parte dell’ufficiale notificatore.

Il motivo è inammissibile, per difetto di specificità, in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e comunque perchè si risolve nella contestazione di accertamenti di fatto e nella richiesta di nuova e diversa valutazione delle prove.

Il giudice di pace ha ritenuto regolare la notificazione delle cartelle di pagamento e da tale premessa ha fatto (correttamente) discendere che non si era verificata la prescrizione dedotta dall’opponente (nè decennale, nè quinquennale), in quanto le infrazioni contestate erano avvenute rispettivamente in data 14 settembre 2009 e in data 25 marzo 2010 e le relative cartelle erano state notificate rispettivamente in data 22 agosto 2014 e 18 gennaio 2015 (in questo caso si tratta evidentemente di un motivo di opposizione all’esecuzione, come esattamente rilevato dal tribunale).

Orbene, le censure di cui al motivo di ricorso in esame in esame sono tutte fondate sull’effettivo contenuto delle relazioni di notificazione delle cartelle di pagamento di cui si controverte, ma nel ricorso non solo non è specificamente richiamato il contenuto dei relativi documenti, ma neanche si indicano con adeguata precisione gli estremi della loro produzione nel corso del giudizio di merito, nè si dà conto della loro esatta allocazione nel fascicolo processuale.

La Corte non è dunque messa in condizione di valutare, sulla base dell’esame del ricorso, la eventuale fondatezza nel merito delle censure avanzate dalla ricorrente.

D’altra parte, il giudice di pace ha espressamente accertato, in fatto, valutando la documentazione prodotta, e cioè relazioni di notificazione e/o avvisi di ricevimento, che l’ufficiale notificante aveva dato atto che gli atti da notificare erano stati regolarmente depositati presso il comune, essendo stata constatata la temporanea assenza del destinatario, e che quest’ultimo era stato informato dell’avvenuto deposito con lettera raccomandata con avviso di ricevimento, la cui produzione aveva consentito di verificare il rispetto delle prescrizioni legislative.

Le censure di cui al ricorso in esame, dunque, oltre a risultare inammissibili per la già rilevata violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, si risolvono in definitiva nella contestazione di accertamenti di fatto operati dal giudice del merito sulla base della sua prudente valutazione dei documenti prodotti e sostenuti da adeguata motivazione (non apparente nè insanabilmente contraddittoria sul piano logico, come tale non censurabile nella presente sede) nonchè nella richiesta di nuova e diversa valutazione delle prove, il che non è consentito nel giudizio di legittimità.

4. Con il quarto motivo si denunzia (quale “ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., comma 3 e art. 360 c.p.c.”) “Violazione o falsa applicazione dell’art. 209 C.d.S., L. n. 689 del 1981, art. 28, nonchè degli artt. 479,480 e 474 c.p.c., in combinato disposto con il D.P.R. 29 novembre 1973, n. 602, art. 25 e del D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 29, in relazione all’art. 2953 c.c., i quali prevedono la riscossione nel termine prescrizionale di cinque anni in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

La ricorrente deduce che il giudice di pace avrebbe errato nell’escludere la prescrizione dei crediti in riscossione, in quanto, una volta accertato che le cartelle di pagamento non erano state regolarmente notificate, dalla data di accertamento delle infrazioni al C.d.S. si sarebbe maturata la prescrizione quinquennale.

Il motivo è infondato.

E’ opportuno premettere che risulta priva di concreto rilievo ai fini della decisione la questione del termine di prescrizione applicabile nella specie, in quanto lo stesso giudice di pace, pur ritenendo applicabile la prescrizione decennale, ha comunque altresì accertato il mancato decorso anche del termine di prescrizione quinquennale, tra la data di accertamento delle infrazioni al C.d.S. e quella di notifica delle cartelle di pagamento (nonchè tra quest’ultima e quella di instaurazione del giudizio).

Le censure di cui al motivo di ricorso in esame, di conseguenza, in quanto fondate sul presupposto dell’accoglimento di quelle di cui al motivo che precede (cioè quelle relative alla mancata prova della notificazione delle cartelle di pagamento), che invece è stato respinto, non possono trovare seguito.

5. Il ricorso è rigettato.

Nulla è a dirsi in ordine alle spese del giudizio, non avendo gli intimati svolto attività difensiva.

Deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte:

– rigetta il ricorso;

– nulla per le spese.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso (se dovuto e nei limiti in cui lo stesso sia dovuto), a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 23 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 12 gennaio 2021

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