LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –
Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –
Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –
Dott. TATANGELO Augusto – rel. Consigliere –
Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al numero 27288 del ruolo generale dell’anno 2017 proposto da:
BANCA POPOLARE DI BARI S.C.p.A., (C.F.: *****), in persona del procuratore speciale e legale rappresentante pro tempore, S.G., rappresentato e difeso, giusta procura in calce al ricorso, dall’avvocato Gianvito Giannelli, (C.F.: GNNGVT60526A662X);
– ricorrente –
nei confronti di:
CURATELA DEL FALLIMENTO DELLA ***** S.n.c., (P.I.: *****), in persona del Curatore fallimentare pro tempore, rappresentato e difeso, giusta procura in calce al controricorso, dall’avvocato Andrea Ruocco, (C.F.: RCCNDR76P11C514A);
– controricorrente –
per la cassazione della sentenza della Corte di Appello di Bari n. 837/2017, pubblicata in data 29 giugno 2017;
udita la relazione sulla causa svolta alla Camera di consiglio del 23 novembre 2020 dal Consigliere Dott. Augusto Tatangelo.
FATTI DI CAUSA
***** S.n.c. ha proposto opposizione all’esecuzione, ai sensi dell’art. 615 c.p.c., nel corso di un procedimento di espropriazione immobiliare promosso nei suoi confronti della Banca Popolare di Bari S.C.P.A. sulla base di una cambiale agraria rilasciata a copertura di un rapporto di finanziamento di scopo, chiedendo, oltre alla dichiarazione di inefficacia del precetto, del pignoramento e degli atti esecutivi, la condanna della banca opposta alla restituzione di somme indebitamente addebitate su un rapporto in conto corrente, per interessi ed accessori non dovuti.
Il Tribunale di Foggia ha accolto l’opposizione all’esecuzione, rigettando invece la domanda di restituzione delle somme che la società assumeva illegittimamente addebitate.
La Corte di Appello di Bari, in parziale riforma della decisione di primo grado, ha accolto anche tale seconda domanda, condannando la banca a pagare alla società opponente l’importo di Euro 202.909,77, oltre interessi.
Ricorre la Banca Popolare di Bari S.C.P.A., sulla base di tre motivi, illustrati con memoria.
Resiste con controricorso la Curatela del Fallimento della ***** S.n.c..
Il ricorso è stato trattato in Camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375 e 380 bis.1 c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Prescindendo dalla sua procedibilità, il ricorso è inammissibile.
1.1 Con il primo motivo si denunzia “art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. – omessa e/o insufficiente motivazione – violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., che disciplinano l’ammissione della consulenza tecnica, il principio di disponibilità e valutazione delle prove”.
Secondo la banca ricorrente, le allegazioni della società in merito all’applicazione delle clausole del rapporto di conto corrente che prevedevano interessi anatotistici e/o usurari e/o illegittime commissioni, non erano sufficientemente specifiche; di conseguenza, mentre correttamente il giudice di primo grado aveva rigettato la richiesta di consulenza tecnica volta ad accertare gli addebiti che si assumevano illegittimi, la corte di appello erroneamente avrebbe disposto tale mezzo istruttorio, sulla base degli estratti conto, accogliendo poi la domanda in base alle risultanze di esso. In definitiva, la consulenza tecnica di ufficio sarebbe stata utilizzata per colmare difetti di allegazione e prova delle domande proposte dalla società attrice.
Il motivo è inammissibile.
Le censure di violazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c., non risultano formulate con la necessaria specificità, in conformità ai canoni a tal fine individuati dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass., Sez. U., Sentenza n. 16598 del 05/08/2016, Rv. 640829 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016, Rv. 640192 – 01, 640193 – 01 e 640194 – 01; Sez. U, Sentenza n. 1785 del 24/01/2018, Rv. 647010 – 01, non massimata sul punto).
La censura di omessa e/o insufficiente motivazione – che peraltro, enunciata in rubrica, non viene poi adeguatamente esplicitata nell’esposizione a sostegno del motivo di ricorso in esame – non è più ammissibile, in base all’attuale formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (applicabile nella fattispecie, in ragione della data di pubblicazione della decisione impugnata).
Per quanto poi attiene, in particolare, all’assunto secondo cui la domanda restitutoria della società mutuataria e correntista sarebbe stata formulata in maniera talmente generica da non potersi ritenere ammissibili gli approfondimenti istruttori disposti in proposito dai giudici di appello, si tratta di una censura che difetta della necessaria specificità, in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, in quanto non viene adeguatamente richiamato nel ricorso il concreto contenuto degli atti introduttivi e delle difese della parte attrice, da cui dovrebbe evincersi la pretesa genericità delle relative allegazioni, il che impedisce a questa Corte di valutarne la fondatezza nel merito.
1.2 Con il secondo motivo si denunzia “art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: sulla legittimità della commissione di massimo scoperto – violazione e falsa applicazione della L. 28 gennaio 2009, n. 2”.
Il motivo è inammissibile.
La corte di appello ha ritenuto illegittimi gli addebiti in conto corrente a titolo di “commissione di massimo scoperto” sulla base di due distinte ed autonome rationes decidendi, entrambe idonee, da sole, a sostenere la decisione: oltre ad affermare l’illegittimità in astratto della pattuizione della suddetta commissione, ha infatti ritenuto non sufficientemente chiara e specifica, in concreto, la convenzione stipulata tra le parti che stabiliva i criteri per calcolarne l’ammontare (con conseguente indeterminabilità del suo oggetto).
Orbene, la censura relativa alla seconda delle due indicate rationes decidendi risulta formulata, nell’ambito del motivo di ricorso in esame, in modo del tutto generico, in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, dal momento che non vi è uno specifico richiamo al contenuto della clausola contrattuale in questione e neanche risultano indicati gli estremi della avvenuta produzione del relativo documento nel corso del giudizio di merito ovvero la sua esatta allocazione nel fascicolo processuale: risulta in proposito richiamata esclusivamente l’allocazione nel fascicolo processuale di due documenti rappresentati da “comunicazioni fidi”, peraltro senza neanche un adeguato richiamo specifico del loro contenuto; non si tratta comunque della convenzione del cui oggetto si controverte.
Sotto il profilo in esame non è, quindi, possibile per questa Corte pervenire all’esame del merito delle censure avanzate dalla banca ricorrente in relazione alla decisione impugnata, il che – potendo tale decisione conservare il suo fondamento anche solo esclusivamente sulla base della appena indicata ratio decidendi, non adeguatamente censurata – determina l’irrilevanza di tutte le ulteriori questioni poste in relazione alla astratta legittimità della clausola che prevede la commissione di massimo scoperto.
1.3 Con il terzo motivo si denunzia “art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: violazione e falsa applicazione dell’art. 1421 e 1463 c.p.c., art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: omesso esame circa un fatto decisivo ai fini del giudizio e precisamente gli effetti della declaratoria di nullità del mutuo agrario sulle annotazioni in conto corrente”.
Anche questo motivo è inammissibile.
La censura non è formulata in modo adeguatamente chiaro e comprensibile.
La banca sembrerebbe intendere sostenere che, essendo stata accertata la nullità del mutuo che aveva dato luogo all’accredito, da parte sua, della somma mutuata sul conto corrente della società mutuataria, di tale accredito non avrebbe dovuto tenersi conto nella ricostruzione dell’andamento del rapporto in conto corrente.
Al di là delle difficoltà ad intendere il senso effettivo della doglianza, posto che non è in discussione che l’accredito in questione aveva avuto luogo in concreto, la ricorrente non indica in alcun modo gli atti e la fase del giudizio di merito in cui tale questione sarebbe stata posta.
Trattandosi di questione che richiederebbe, come è evidente, accertamenti di fatto e che, come tale, non può essere avanzata per la prima volta in sede di legittimità, non può, in questa sede, che rilevarsi il difetto di specificità della relativa censura, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, con riguardo alla sua non novità.
2. Il ricorso è dichiarato inammissibile.
Per le spese del giudizio di cassazione si provvede, sulla base del principio della soccombenza, come in dispositivo.
Deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.
P.Q.M.
La Corte:
– dichiara inammissibile il ricorso;
condanna la società ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità in favore della curatela controricorrente, liquidandole in complessivi Euro 7.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, nonchè spese generali ed accessori di legge.
Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso (se dovuto e nei limiti in cui lo stesso sia dovuto), a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 23 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 12 gennaio 2021
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