Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.27565 del 11/10/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20177/2017 proposto da:

R.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA EMILIO FAA’

DI BRUNO 52, presso lo studio dell’avvocato MASSIMILIANO CICCACCI, rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIO PORCARO;

– ricorrente –

contro

G.M., B.P., GI.MO., S.C., elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA SEMPEONE, 19/B, presso lo studio dell’avvocato IRMA BOMBARDINI, rappresentati e difesi dall’avvocato FABRIZIO CASTALDO;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1116/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 08/03/2017 r.g.n. 342/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 22/09/2020 dal Consigliere Dott. GIUSEPPINA LEO.

RILEVATO

che la Corte di Appello di Napoli, con sentenza pubblicata in data 8.3.2017, ha rigettato il gravame interposto da R.G., nei,confronti di G.M., S.C., B.P. e Gi.Mo., avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede n. 20308, resa il 26.11.2013, con la quale era stato respinto il ricorso proposto dal lavoratore al fine di ottenere “l’accertamento del diritto all’intera retribuzione per l’attività di portierato svolta dall’1.9.1978 in favore di tutti i condomini del Condominio ***** (composto da sette fabbricati e quattromila metri quadrati di spazi destinati a verde) di cui facevano parte gli appellati, in quanto comproprietari delle unità immobiliari presenti nel suddetto *****, con conseguente obbligazione pro quota degli stessi nella misura indicata nelle tabelle allegate al ricorso e la condanna dei convenuti al pagamento in proprio favore, a titolo di arretrati per retribuzioni maturate e non percepite dal mese di settembre 2007 al mese di marzo 2012 dell’importo di Euro 707,00”;

che per la cassazione della sentenza ricorre R.G. articolando tre motivi, cui G.M., S.C., B.P. e Gi.Mo. resistono con controricorso;

che il P.G. non ha formulato richieste.

CONSIDERATO

che, con il ricorso, si censura: 1) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 36 Cost.; artt. 1173,1175,1375,2239,2094 e 2099 c.c.; artt. 112 e 115 c.p.c., ed in particolare, si deduce che la decisione impugnata incorrerebbe nei vizi denunziati, peraltro con motivazione priva di un solido legame logico con la fattispecie sottoposta al suo vaglio, avendo i giudici di merito erroneamente ritenuto che gli intimati non dovessero corrispondere al ricorrente la somma richiesta “per la mancanza della loro qualità di condomini, ma non certo perché non avessero ricevuto la prestazione lavorativa del R.”; 2) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 36 Cost.; artt. 1324,1363,1366 e 2099 c.c., “anche in relazione agli artt. 2697 e 2729 c.c.; artt. 112,115,116 c.p.c.”, per avere la Corte di merito “male interpretato la Delib. Condominiale 14 giugno 2012” ed avere, pertanto, ritenuto che “tra il R. e gli appellati non è intercorso alcun rapporto di lavoro subordinato”; 3) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, la cui esistenza risulta dalla sentenza, che ha costituito oggetto di discussione tra le parti, anche in relazione agli artt. 2094,2099 e 2697 c.c.; artt. 112,115,116 c.p.c.”, per avere i giudici di secondo grado erroneamente ritenuto che con il ricorso introduttivo del giudizio il R. avesse chiesto “l’accertamento del diritto all’intera retribuzione per l’attività di portierato svolta dall'”1.9.1978 in favore di tutti i condomini del Condominio *****”, con conseguente omessa valutazione e motivazione delle ragioni esposte a sostegno della domanda e che porterebbero, a parere del ricorrente, ad una ricostruzione del fatto storico (mancata retribuzione della prestazione da parte di ciascun utilizzatore) diversa da quella ritenuta ed argomentata dal Tribunale, unicamente focalizzata sul non essere i condomini gli appellanti; che i primi due motivi – che possono essere trattati congiuntamente per ragioni di connessione – sono inammissibili sotto diversi e concorrenti profili. Al riguardo, è da premettere che il ricorso è stato redatto senza il rispetto dei canoni di specificità normativamente prescritti a pena di inammissibilità, poiché, innanzitutto, viola il disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, mancando “l’esposizione che garantisca a questa Corte di avere una chiara e completa cognizione del fatto sostanziale che ha originato la controversia, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti in suo possesso” (v. Cass., SS.UU., n. 11653/2006; Cass. nn. 8035/2020; 16103/2016, citt.); prescrizione, questa, che risponde “non ad una esigenza di mero formalismo, ma alla conoscenza chiara e completa dei fatti di causa, sostanziali e/o processuali, che permetta di bene intendere il significato e la portata delle censure rivolte al provvedimento impugnato” (v., ancora, Cass. n. 8035/2020);

che, inoltre, la parte ricorrente neppure ha specificato sotto quale profilo le norme che si assumono violate sarebbero state incise, né ha precisato, per ciascuna delle ragioni esposte nella sentenza sul punto oggetto della controversia, le contrarie ragioni, di fatto e di diritto, idonee a giustificare le censure, in spregio alla prescrizione di specificità dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che esige che il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, debba essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle disposizioni asseritamente violate, ma anche con specifiche argomentazioni intese motivatamente a dimostrare in quale modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in contrasto con le disposizioni regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le molte, Cass., Sez. VI, ord. nn. 187/2014; 635/2015; Cass. nn. 19959/2014; 18421/2009). Per la qual cosa, le doglianze mosse al procedimento di sussunzione operato dai giudici di seconda istanza si risolvono in considerazioni di fatto del tutto inammissibili e sfornite di qualsiasi delibazione probatoria (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 24374/2015; 80/2011), anche in considerazione del fatto che nella sentenza impugnata la decisione è supportata dalla verifica analitica degli elementi delibatori, nonché dal richiamo pertinente della giurisprudenza di legittimità (v., in particolare, pagg. 3 e 4 della sentenza impugnata);

che, infine, le censure sollevate sono direttamente ancorate all’esame di documentazione – quale la Delib. Condominiale 14 giugno 2012 – non prodotta, né indicata tra i documenti offerti in comunicazione con il ricorso di legittimità, né trascritta, in violazione del disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, ed in spregio del principio, più volte ribadito da questa Corte, che definisce quale onere della parte ricorrente quello di indicare lo specifico atto precedente cui si riferisce, in modo tale da consentire alla Corte di legittimità di controllare ex actis la veridicità delle proprie asserzioni prima di esaminare il merito della questione (tra le molte, con arresti costanti, Cass. n. 14541/2014), poiché il ricorso per cassazione deve contenere tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed a consentire la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza che sia necessario fare rinvio a fonti esterne al ricorso e, quindi, ad elementi o atti concernenti il pregresso grado di giudizio di merito (cfr., tra le molte, Cass. nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013); per la qual cosa, questa Corte non è stata messa in grado di poter apprezzare la veridicità delle doglianze svolte dal ricorrente, le quali appaiono dirette, nella sostanza, a sollecitare un ulteriore esame del merito, non consentito in questa sede;

che altresì inammissibile è il terzo motivo, in cui non è possibile la verifica di quanto dedotto dal R., non avendo egli riportato, né trascritto, il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, né l’atto di gravame, ancora una volta in violazione del disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6;

che per le considerazioni che precedono, il ricorso va dichiarato inammissibile;

che le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;

che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, secondo quanto specificato in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 1.800,00 per compenso professionale ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 22 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 ottobre 2021

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