Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.34797 del 17/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Presidente –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16764/2019 proposto da:

M.O., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LIMA n. 28 SC A, presso lo studio dell’avvocato MARCO ALBANESE, rappresentato e difeso dall’avvocato ANNA MARIA BALSAMO;

– ricorrente –

contro

M.B., elettivamente domiciliato presso l’avvocato VINCENZO TARANTO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

M.A., e M.G.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 2404/2018 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 16/11/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 29/04/2021 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI.

RILEVATO

che:

M.O. conveniva davanti al Tribunale di Catania i suoi fratelli M.A., B. e G., perché fosse dichiarata nulla o fosse annullata una transazione con loro stipulata in data 10 maggio 2011, per carenza di causa transattiva nonché per errore di diritto su un punto incontroverso ex art. 1969 c.c., ed errore di calcolo sulla massa divisionale. La transazione era stata proposta da M.B. per concludere una causa da lui instaurata nei confronti dei fratelli davanti al Tribunale di Catania, sezione distaccata di Paternò, n. 184/2003 R.G., riguardante la divisione dell’eredità dei genitori e anche altri beni; la causa, a seguito della transazione, era stata poi dichiarata estinta.

Il Tribunale rigettava ogni domanda attorea con sentenza del 10 marzo 2014, avverso la quale M.O. proponeva appello, cui resistevano i fratelli.

La Corte d’appello di Catania rigettava il gravame con sentenza del 16 novembre 2018.

M.O. ha proposto ricorso, da cui si è difeso con controricorso soltanto M.B..

CONSIDERATO

che:

Il ricorso è articolato in cinque motivi.

1. Il primo motivo denuncia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione degli artt. 115,116 c.p.c., artt. 1362,1363,763 c.c. e art. 764 c.c., comma 2 e omesso esame di fatto discusso e decisivo.

Questo motivo è scindibile in due submotivi.

1.1.1 In primo luogo si lamenta che l’atto stipulato dal ricorrente M.O. con i suoi fratelli M.A., B. e G. in data 10 maggio 2011 è stato considerato “transazione divisionale”, il che costituirebbe una interpretazione errata, perché non considerante un complesso di circostanze e comportamenti delle parti, che condurrebbero invece a qualificarla, esattamente, “divisione transattiva”.

Il giudice d’appello inoltre non avrebbe tenuto in conto fatti che avrebbero portato il ricorrente “a sottoscrivere l’atto divisionale”. Nel giudizio pendente davanti al Tribunale di Catania come n. 184/2003 R.G. che i litiganti volevano chiudere con tale atto, M.O. era rappresentato dallo stesso avv. Lodovico Soresi che avrebbe poi in questa causa difeso in primo e in secondo grado M.G. e A., e che sarebbe pure stato “firmatario anche della transazione”. Poiché ai sensi dell’art. 1362 c.c., è necessario determinare l’effettiva volontà delle parti anche alla luce dei comportamenti posteriori alla stipulazione del negozio, e poiché ai sensi dell’art. 1363 c.c., è necessario interpretare le clausole le une mediante le altre, si dovrebbe giungere ad affermare che dalla scrittura del 10 maggio 2011 emerge che essa “era finalizzata, oltre che alla attribuzione dei cespiti”, ad attribuire “una o somma altissima” a M.B. senza alcuna contropartita o concessione a M.O., onde non vi sarebbe stata ragione perché quest’ultimo accettasse “una così evidente disparità”. L’accordo doveva “garantire lo scioglimento della comunione”, ma vi sarebbero stati “inclusi anche beni che non potevano rientrarvi addirittura per intero”, e vi sarebbe stato commesso un errore aritmetico; l’attuale ricorrente avrebbe firmato in buona fede “soprattutto dietro consiglio ed assistenza del legale dell’epoca”: sarebbe mancata pertanto “la volontà di chiudere in via transattiva la vicenda divisionale”, e il giudice d’appello avrebbe omesso di valutarlo.

1.1.2 Questa doglianza, costituente il primo dei due submotivi, è formulata ictu oculi in modalità assolutamente generiche, per cui, anche a prescindere dalla sua – pure evidente – sostanza di richiesta al giudice di legittimità di effettuare un’alternativa revisione fattuale, risulta inammissibile.

1.2.1 Successivamente – integrando così l’ulteriore sub motivo – si adduce che il giudice d’appello si sarebbe limitato ad affermare che l’atto deve essere “qualificato transazione”. Invece la divisione transattiva e la transazione divisionale si distinguono per la sproporzione dei beni (che qui sarebbe stata sottovalutata in entrambi i giudizi di merito, perché ambedue le sentenze avrebbero affermato che i fratelli si erano attribuite le quote “con precisazioni e conguagli, analiticamente descritti”): pertanto l’atto in questione sarebbe una divisione transattiva.

D’altronde, per indagare la volontà delle parti occorre applicare gli artt. 1362 c.c. e segg., tenendo conto quindi della lettera e del complesso di circostanze e comportamenti: criteri, questi, che il giudice d’appello avrebbe violato. Sarebbe infatti erroneo avere valutato soltanto l'”alternativa secca” tra divisione transattiva e transazione divisoria, senza tenere conto di altre ipotesi, come “il negozio preparatorio di divisione e la contraddittorietà del medesimo” in quanto “nel giudizio di primo grado” si sarebbe evidenziato che il negozio prevedeva che M.B. vendesse al fratello O. “beni non suoi per appartenere allo stesso O.”.

L’erroneità sussisterebbe anche perché non si sarebbe tenuto in conto che “l’unico elemento apprezzato come decisivo (la cosciente sproporzione dei cespiti) è significativo solo a patto di escludere motivatamente la suddetta ipotesi terza”, cioè il negozio preparatorio di divisione, che “per la sua natura non definitiva osta ad un giudizio di tal fatta, richiedendo ulteriori accordi sui conguagli”. Pertanto quel che verrebbe ad emergere sarebbe la “volontà di procedere alla divisione come una preliminare assegnazione dei beni oggetto della comunione in relazione alle personali aspettative”.

Insegna Cass. 3396/1981 che, per escludere la rescindibilità dell’atto di divisione ex art. 764 c.c., comma 2, non è sufficiente accertare che esso contenga una contestuale transazione, ma è necessario accertare altresì che quest’ultima, regolando ogni controversia, pure potenziale, sulla determinazione delle quote, “abbia riguardato proprio le questioni costituenti il presupposto e l’oggetto dell’azione di rescissione”. E, nel caso in esame, nella scrittura privata sussisterebbe una sproporzione tale da legittimare l’esercizio dell’azione di rescissione.

Inoltre gli accordi “paradivisori”, diretti a determinare porzioni dei beni da assegnare a determinate condizioni, “pur non producendo l’effetto distributivo” dei beni tipico del contratto di divisione, avrebbero finalità preparatoria della divisione, e non se ne potrebbe recedere unilateralmente. Vi sarebbe quindi rescindibilità ai sensi degli artt. 763 e 764 c.c., “per lesione oltre il quarto”.

Attribuire “esclusivo ed automatico rilievo all’evidente sproporzione dei beni oggetto dell’accordo divisorio” renderebbe ingiustificatamente impossibile proporre l’azione di rescissione “nella quasi totalità dei casi”, e comunque quando “la lesione della parte è di maggiore portata”. Infatti la rescissione ex art. 763 c.c., differisce dalla rescissione ordinaria perché non occorre approfittamento dello stato di bisogno e riduce la lesione rilevante da metà a un quarto; pertanto “se l’elemento discriminante per individuare la causa transattiva del negozio” fosse solo la proporzionalità dei beni, sarebbe “sempre preclusa la rescissione per lesione oltre il quarto” presupponente una sproporzione di cui “la parte difficilmente potrebbe rivendicare l’inconsapevolezza”.

Si sarebbe dovuto applicare il principio per cui, per interpretare un negozio come transazione divisionale, ove la causa transattiva prevale sulla causa divisionale, non si può presumere una volontà di transigere con rinuncia ai propri diritti in base alla consapevolezza della sproporzione.

1.2.2 Questo ampio secondo submotivo argomenta, dunque, sulle regole ermeneutiche e sulla differenza tra transazione divisionale e divisione transattiva ai fini della rescissione per lesione ai sensi dell’art. 763 c.c., della divisione. La censura continua però a basarsi su dati fattuali generici; e per di più non risulta che M.O. abbia nella presente causa agito per rescissione ex art. 763 c.c., avendo invece agito, come già sopra illustrato, per nullità per difetto di causa, annullamento ex art. 1969 c.c. e inefficacia “di un contratto di transazione” (ricorso, pagina 2).

Tutto il motivo risulta quindi inammissibile.

2.1 Il secondo motivo denuncia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione degli artt. 1965 e 1966 c.c..

Si lamenta che “il giudicante non ha ritenuto opportuno pronunciarsi sulla possibile carenza di causa tipica del contratto transattivo”.

L’art. 1965 c.c. individua, come elementi essenziali della transazione, sussistenza di una lite da risolvere o prevenire e reciproche concessioni. Queste ultime difetterebbero nel caso in esame; e si argomenta sul valore della quota concessa a M.B. (Euro 729.219) che avrebbe portato il ricorrente ad un sacrificio eccessivo e vessatorio, senza che sussista il “necessario equilibrio”. Non essendovi reciproche concessioni, l’accordo non sarebbe dunque qualificabile transazione e, mancando di questa gli elementi costitutivi, dovrebbe “essere considerato nullo o qualificato in altro modo”. La transazione infatti è contratto sinallagmatico ai sensi dell’art. 1965 c.c..

Inoltre, ai sensi dell’art. 1966 c.c., per transigere le parti devono avere la disponibilità dei diritti. Nel caso in esame, M.B. nell’accordo avrebbe venduto a M.O. “i terreni su cui si esercita l’attività di cava”, che però sarebbero già stati di proprietà di quest’ultimo. Se le parti – o anche solo una parte – conoscono l’altruità della cosa su cui si controverte, la transazione non è valida, non rilevando “la più volte invocata labiale autoattribuzione del diritto di proprietà” di M.B. “in forza della società di fatto allora esistente” tra i fratelli. Nell’originaria causa n. 184/2003 R.G. M.B. non avrebbe presentato alcuna domanda in ordine a tali terreni; e la transazione, destinata a chiudere detta causa, non avrebbe potuto fondarsi su un elemento ad essa estraneo. La proprietà dei terreni non sarebbe mai stata “oggetto né di controversia tra le parti né di prelitigiosità”.

2.2.1 Questo motivo, in primis, lamenta che “il giudicante non ha ritenuto opportuno pronunciarsi sulla possibile carenza di causa tipica del contratto transattivo”.

Ciò non corrisponde al vero: si trattava, infatti, dell’oggetto del primo motivo d’appello, e la corte territoriale, pur molto concisamente (tutta la motivazione, si nota per inciso, è alquanto scarna, ma rimane comunque sufficiente ad esternare il ragionamento seguito e le sue conseguenti conclusioni), lo ha vagliato in modo specifico, nella pagina 5s. della sentenza. Non sussiste, dunque, un’omessa pronuncia al riguardo.

Per quanto concerne le successive argomentazioni, che sono state successivamente inserite a proposito della sussistenza o meno della causa di transazione, è evidente che in tal modo viene in realtà richiesta una valutazione di fatto per sostenere che l’accordo non sarebbe transazione.

2.2.2 Nella seconda parte della censura – che, a ben guardare, integra ancora una volta un vero e proprio submotivo – viene invocato l’art. 1966 c.c., adducendo che per transigere le parti devono avere la disponibilità dei diritti, e che invece M.B., quando nell’accordo cedeva al fratello O. terreni di proprietà di quest’ultimo, tale disponibilità non avrebbe avuto.

Anche qui però si propone una ulteriore valutazione di fatto, e sulla base di presupposti non autosufficienti, oltre a introdurre – inammissibilmente – un novum, in quanto non risulta che fosse stato invocato in precedenza il profilo relativo all’art. 1966 c.c. (nella premessa del ricorso a pagina 4s. si prospetta un errore, non una violazione dell’art. 1966 c.c.).

Il motivo merita quindi, in conclusione, il rigetto.

3.1 Il terzo motivo denuncia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “assoluta erroneità ed illegittimità della motivazione” sulla richiesta di applicazione dell’art. 1429 c.c., con esclusione della disciplina speciale di cui all’art. 1969 c.c.. Lamenta altresì motivazione contraddittoria e carente in ordine al rinvio all’art. 1429 c.c., nonché motivazione erronea e illegittima sulla carenza di errore di fatto.

Il giudice d’appello non avrebbe tenuto conto del fatto che M.O. aveva sempre invocato l’applicazione dell’art. 1965, e non dell’art. 1429 c.c., n. 4; M.O. aveva pure addotto che la rilevanza dell’errore soltanto sul caput non controversum ai sensi dell’art. 1969 c.c., è estendibile all’errore di fatto secondo l’insegnamento giurisprudenziale. E il Tribunale avrebbe affermato, come prospettava l’attuale ricorrente, che la transazione è impugnabile se l’errore di diritto verte su un caput non controversum, ma poi – ingiustificatamente e infondatamente – ritenendo che M.O. avesse chiesto l’applicazione dell’art. 1429, anziché dell’art. 1969 c.c., avrebbe dichiarato “inconferente il riferimento alla norma generale” di cui all’art. 1429.

Non sarebbe poi comprensibile perché “il Decidente” abbia ritenuto la domanda fondata sull’art. 1429, n. 4, norma mai invocata.

Da quanto esposto sarebbe viziato tutto il ragionamento logico-giuridico motivazionale.

Il giudicante avrebbe altresì errato affermando che rileva solo l’errore di diritto sul presupposto – e quindi antecedente logico – della res controversa laddove la giurisprudenza insegnerebbe che l’errore di diritto è invocabile solo se riguarda un caput non controversum, “incidendo in tal caso il vizio non sul negozio transattivo, bensì su un presupposto di questo”. Pertanto il vizio dovrebbe riguardare elementi su cui non vi sarebbe lite; lo stesso varrebbe per le questioni che, pur essendone presupposto, non costituiscano “oggetto della questione controversa in senso proprio, come può accadere nella c.d. divisione transattiva, nell’ipotesi di errore attinente alla comprensione di un bene nella massa divisionale”.

3.2.1 Questo motivo denuncia un vizio motivazionale orientato sul diritto, come sembra prospettare la rubrica almeno in parte, nonostante che il vizio motivazionale debba riguardare il fatto, quanto al diritto rilevando l’esattezza del risultato, e non la conformazione dell’iter adottato per raggiungerlo (di recente, v. S.U. 2 febbraio 2017 n. 2731: “La mancanza di motivazione su questioni di diritto e non di fatto deve ritenersi irrilevante, ai fini della cassazione della sentenza, qualora il giudice del merito sia comunque pervenuto ad un’esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame. In tal caso, la Corte di Cassazione, in ragione della funzione nomofilattica ad essa affidata dall’ordinamento, nonché dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., comma 2, ha il potere, in una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 384 c.p.c., di correggere la motivazione anche a fronte di un “error in procedendo”, quale la motivazione omessa, mediante l’enunciazione delle ragioni che giustificano in diritto la decisione assunta, anche quando si tratti dell’implicito rigetto della domanda perché erroneamente ritenuta assorbita, sempre che si tratti di questione che non richieda ulteriori accertamenti in fatto”; sulla stessa linea Cass. sez. L, ord. 1 marzo 2019 n. 6145; sulla non incidenza, in caso di questioni di diritto, dell’eventuale vizio motivazionale, neppure quando la motivazione è qualificabile come apparente, rilevando solo la corretta applicazione da parte del giudice di merito delle norme di diritto, cfr. pure Cass. sez. 2, ord. 13 agosto 2018 n. 20719; Cass. sez. 5, ord. 13 dicembre 2017 n. 29886; Cass. sez. 5, 3 agosto 2016 n. 16157; Cass. sez. 1, 24 giugno 2015 n. 13086; Cass. sez. L, 11 novembre 2014 n. 23989; Cass. sez. 1, 27 dicembre 2013 n. 28663; S.U. 5 novembre 2008 n. 28054; trattasi logicamente di principio generale, relativo anche alla giurisdizione di legittimità in materia penale, come da ultimo è stato confermato da S.U. pen., 16 luglio 2020 n. 29541; e v. pure Cass. pen. sez. 1, 20 maggio 2015 n. 16372 e Cass. pen. sez. 3, 23 ottobre 2014-11 febbraio 2015 n. 6174, Cass. pen. sez. 2, 20 maggio 2010 n. 19696 e Cass. pen. sez. 2, 21 gennaio 2009 n. 3706).

3.2.2 Comunque, in relazione all’art. 1429 c.c., quel che si impugna attiene alla sentenza di primo grado (si lamenta infatti che questa afferma, come prospettava M.O., che la transazione è impugnabile se l’errore di diritto verte un caput non controversum, ma poi ingiustificatamente e infondatamente, ritenendo che M.O. abbia chiesto l’applicazione dell’art. 1429, anziché dell’art. 1969 c.c., dichiara “inconferente il riferimento alla norma generale”, cioè all’art. 1429 c.c.), per cui è manifestamente inammissibile.

Dal canto suo peraltro – si rileva meramente ad abundantiam – il giudice d’appello non menziona l’art. 1429 c.c..

3.2.3 Quanto all’art. 1969 c.c., poi, non è sostenibile che sussista una equiparazione, ai fini di tale dettato normativo, tra errore di diritto ed errore di fatto, visto il testo inequivoco: una interpretazione in tal senso non rimarrebbe entro i confini che le sono propri, assumendo appunto una inaccettabile funzione aggiuntiva al testo della norma.

3.2.4 Il giudice d’appello infine, conformemente, più che alla giurisprudenza, a priori all’inequivoco dettato letterale proprio dell’art. 1969 c.c. (“La transazione non può essere annullata per errore di diritto relativo alle questioni che sono state oggetto di controversia tra le parti”, recita infatti la norma, la cui sottolineatura della espressione dirimente è ovviamente stata inserita nella presente trascrizione), ha espressamente affermato che quest’ultima disposizione rende rilevante “”il solo errore di diritto sulla situazione costituente presupposto della res controversa”, non potendo vertere, dunque, sull’oggetto, attuale o potenziale, della controversia (sentenza, pagina 8).

Tutto il motivo, in conclusione, è privo di pregio.

4.1 Il quarto motivo denuncia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 184 c.p.c., artt. 2250 e 2251 c.c..

Nella transazione sarebbero stati ceduti beni di proprietà del ricorrente e, per comunione legale, anche di proprietà di sua moglie. Pertanto la transazione sarebbe nulla perché non riguardante una lite pendente o potenziale.

La transazione sarebbe censurabile pure ai sensi dell’art. 184 c.c.: sarebbe stato infatti necessario per stipularla, visto quanto appena rilevato, il consenso della coniuge di M.O..

L’art. 2251 c.c., stabilisce poi che nella società semplice il contratto non è soggetto a forme speciali, salve quelle richieste dalla natura dei beni conferiti. Quindi i beni dell’attuale ricorrente avrebbero potuto appartenere alla società di fatto solo se conferiti ad essa con atto scritto, qui invece mancante. Sussisterebbe pertanto un errore di diritto su un caput non controversum del giudizio perché la valutazione dei terreni e dei fabbricati per il calcolo della quota non costituiva lite pendente né potenziale.

Si censura inoltre l’avere il “Decidente” affermato che i fratelli avevano valutato separatamente tali immobili, come risulterebbe dal verbale della consulenza tecnica del 25 gennaio 2007, ove i “legali” e i commercialisti avrebbero dichiarato che i beni erano già stati separatamente valutati e divisi: non si spiegherebbe per quale ragione non era stata “allegata prova alcuna di tale accordo” e come mai “tale questione esclusa in corso di causa dai procuratori e consulente (sic) del M.O. ricompaia… senza alcun preventivo avviso e conflittualità presunta tra le parti in transazione”.

Se comunque “tali errori” fossero oggetto della controversia transatta, e perciò da includere la quota sociale ai sensi dell’art. 2289 c.c., dovrebbe invocarsi il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 77, comma 3, che stabilisce “quali beni del disposto normativo appartengono alla società di fatto”, norma illegittimamente disattesa “dai tecnici e dagli avvocati di quel tempo”.

Si argomenta quindi sull’art. 77 citato, nei commi secondo e terzo, e si giunge ad affermare che “l’autoattribuzione” degli immobili di M.B. sarebbe “priva di ogni valore giuridico” e atto di malafede; così nella stipulazione della transazione si sarebbe indotto l’attuale ricorrente “a ritenere che il riconoscimento della quota societaria” comportasse anche la proprietà dei beni su cui si svolgeva l’attività sociale.

Si richiama giurisprudenza per sostenere che il conferimento di immobili alla società deve avvenire con le forme di legge: tutto quanto rilevato dimostrerebbe invece l’annullabilità della transazione per rilevanza dell’errore di diritto su un caput non controversum. Viene ancora invocato l’art. 1966 c.c., per ribadire che M.B. “ha disposto in transazione su di un diritto non rientrante nella sua disponibilità”.

4.2 Questo motivo, occorre subito rilevare, a proposito dell’art. 1966 c.c., ripropone in realtà quanto era già stato addotto nel secondo motivo.

In ordine poi all’art. 184 c.c. e D.P.R. n. 917 del 1986, art. 77, comma 3, non vi è autosufficienza su una precedente proposizione di ciò, che deve pertanto qualificarsi un inammissibile novum.

Seguono poi, parimenti inammissibili, alcuni argomenti fattuali, in particolare sulla non proprietà di M.B. e la proprietà che sarebbe invece di M.O. e sua moglie.

La conclusione, infine, della censura in ordine all’esistenza di errore di diritto su questione non controversa pretermette di tenere in conto il passo della sentenza impugnata ove si afferma che tale questione era potenzialmente oggetto di controversia, essendo insita nelle pretese di M.B. (si veda pagina 7, in un passo che include due errori materiali ma è comunque agevolmente comprensibile).

Tutto il motivo, quindi, non gode di alcuna consistenza.

5.1 Il quinto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c.: nei due gradi di giudizio il ricorrente è stato condannato alle spese, ma la peculiarità delle questioni e la “forte penalizzazione” da lui subita avrebbero giustificato la compensazione E ciò soprattutto in quanto M.O. per la transazione avrebbe “subito un forte depauperamento” aggravato dalla condanna alle spese.

5.2 Il motivo per quanto riguarda la sentenza di primo grado è inammissibile; per quanto concerne le spese del secondo grado, invece, merita rigetto, non essendo ravvisabile nella sentenza impugnata alcuna violazione né dell’art. 91 c.p.c. (sussisteva infatti la soccombenza dell’attuale ricorrente) né dell’art. 92 c.p.c. (essendo la compensazione oggetto di una scelta discrezionale, che esige motivazione soltanto se viene disposta).

6. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente alla rifusione a controparte delle spese processuali, liquidate come da dispositivo. Il controricorrente ha chiesto l’applicazione dell’art. 96 c.p.c., comma 3, della quale peraltro non si ravvisano i presupposti, trattandosi meramente di un ricorso non meritevole di accoglimento, privo delle peculiarità richieste dalla suddetta norma.

Seguendo l’insegnamento di S.U. 20 febbraio 2020 n. 4315 si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2012, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere a controparte le spese processuali, liquidate in un totale di Euro 12.000, oltre a Euro 200 per gli esborsi, al 15% per spese generali e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 29 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 17 novembre 2021

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