Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.38644 del 06/12/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso (iscritto al N. R.G. 348/2017) proposto da:

S.G., (C.F.: *****) e V.I., (C.F.:

*****), rappresentati e difesi, in virtù di procura speciale apposta a margine del ricorso, dall’Avv. Raffaele Pellegrino, ed elettivamente domiciliati presso lo studio dell’Avv. Raffaele Versace, in Roma, c.so Trieste n. 185;

– ricorrenti –

contro

V.A., (C.F.: VNC NLL 36A09 L845I) e F.M., (C.F.:

*****), rappresentati e difesi, in virtù di procura speciale a margine del controricorso, dall’Avv. Benedetto Migliaccio, ed elettivamente domiciliati presso lo studio dell’Avv. Massimo Lauro, in Roma, v. Ludovisi, n. 35;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Corte di appello di Napoli n. 2452/2016 (pubblicata il 17 giugno 2016);

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 30 settembre 2021 dal Consigliere relatore Dott. Aldo Carrato;

letta la memoria depositata dalla difesa dei ricorrenti ai sensi dell’art. 380-bis.l. c.p.c.

RITENUTO IN FATTO

1. Con atto di citazione notificato il 27 aprile 1995 i coniugi V.A. e F.M. convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale di Torre Annunziata, S.G. e V.I., esponendo che:

– erano proprietari di un fabbricato con annesso appezzamento di terreno in *****, distinto in catasto al foglio *****, in virtù di atto per notar C. del 26 novembre 1982;

– che i citati convenuti, proprietari di fabbricati e terreni a confine, con lettera del 29 luglio 1994 avevano rivendicato come di loro esclusiva proprietà alcuni beni, che, invece, si sarebbero dovuti ritenere comuni in base ai titoli, come il cortile ubicato subito dopo la fascia di terreno larga mt 1,20 della p.lla *****, la cisterna e il lavatoio;

– che, inoltre, gli stessi convenuti avevano realizzato, tra il 1986 e il 1994, un capannone in cemento armato adibito a fabbricazione di scarpe e pellami senza rispettare le distanze legali dal confine, stabilita in mt. 4 dal vecchio regolamento edilizio e in mt. 10 dal nuovo P.R.G.;

– che lo S.G. aveva realizzato, sul locale in lamiere e ferro costruito al confine con i beni di essi attori, una canna fumaria che si elevava di circa un metro rispetto alla copertura di detto locale, così violando sia la normativa sulle distanze legali tra le costruzioni sia quella sulle distanze legali delle canne fumarie, oltre che quella sulle immissioni di fumo, le quali superavano la normale tollerabilità;

– che il capannone determinava immissioni acustiche che superavano anch’esse la normale tollerabilità sia con riferimento all’art. 844 c.c. che in relazione al D.P.C.M. 1 marzo 1991, avuto riguardo alla L. n. 349 del 1968, art. 2, comma 14;

– che il viale di passaggio di essi attori, sul quale esisteva una pretesa servitù di passaggio a beneficio del fondo S., aveva subito un aggravamento di tale servitù in ordine al passaggio più intenso effettuato dai convenuti per il raggiungimento dell’abusiva costruzione del capannone industriale, servitù che, in ogni caso, andava accertata se effettivamente esistente in base ai titoli (dovendosi ritenere essere stata già esclusa dalla sentenza n. 145/1991 dell’allora Pretore di Sorrento in un altro giudizio intercorso tra le stesse parti);

– che lo S. aveva edificato, nel 1990, sulla illegale baracca in lamiere costruita sulla precedente cisterna, un manufatto costituito da un terrazzo con antistante scala in muratura, il tutto recintato da una ringhiera metallica, senza rispettare le distanze legali dalla costruzione di essi attori e con veduta diretta ed obliqua sul loro fondo;

– che lo stesso S. aveva eseguito anche un nuovo corpo di fabbrica, in prosieguo all’illegale fabbricato in muratura già realizzato nel 1983, coperto con solaio e all’interno della p.lla *****, anch’esso senza rispettare le distanze legali dalla costruzione di essi attori e violando la distanza dalla veduta dai medesimi esercitata dal terrazzo del loro fabbricato in appiombo verso il fondo S..

Tutto ciò premesso, i predetti attori chiedevano la condanna dei convenuti: – al ripristino dello “status quo ante”, con demolizione ed arretramenti in riferimento a tutte le violazioni evidenziate; – al risarcimento dei danni, anche ai sensi dell’art. 872 c.c., nella misura di lire 300 milioni; – alla cessazione di tutte le molestie e turbative, specie per la declaratoria di comunione di alcuni beni (come il cortile, la cisterna e il lavatoio), e delle immissioni; – al pagamento delle necessarie indennità; all’accertamento dell’esistenza o meno della pretesa servitù di passaggio, con la condanna dei convenuti al pagamento delle spese giudiziali.

I convenuti, costituendosi in giudizio, eccepivano la nullità dell’atto di citazione per asserita mancata specificazione dell’oggetto di causa e l’improponibilità di alcune delle domande, insistendo, in ogni caso, per il rigetto di tutte.

Inoltre, proponevano domanda riconvenzionale per l’ottenimento della condanna degli attori alla rimozione della tubazione fognaria da loro installata nel sottosuolo del cortile indicato in citazione nonché alla demolizione del vano edificato nel 1995 sulla p.lla *****, senza il rispetto della distanza legale prevista dal vigente PRG e dal PUT, e dal quale gli attori esercitavano una illegittima veduta sul loro fondo, e del capannone edificato contestualmente, in prossimità del primo manufatto, sempre a distanza illegale, il tutto con condanna degli attori al risarcimento dei danni e alla rifusione delle spese del giudizio.

All’esito dell’espletata istruzione probatoria (nel corso della quale era anche esperita c.t.u.), il Tribunale adito, con sentenza n. 1860/2003, così provvedeva:

– accoglieva parzialmente la domanda attrice (rigettandola nel resto), statuendo la contitolarità in capo agli attori dei proporzionali diritti di comunione sul cortile interno e sui comodi ivi esistenti (cisterna e lavatoio) del cui uso avrebbero potuto disporre nei limiti di cui all’art. 1102 c.c. unitamente ai convenuti;

– accoglieva, per quanto di ragione, la domanda riconvenzionale dei convenuti, condannando gli attori, in solido, a demolire i due locali descritti ai nn. 1 e 2 della stessa riconvenzionale (ovvero il vano terraneo delle dimensioni di mt 3 x 4,20 edificato sulla particella *****, adibito a pollaio, ed il capannone in muratura di blocchi di lapilcemento delle dimensioni di mt 2,50 x 5), con eliminazione anche delle servitù idriche ed elettriche realizzate sempre dagli attori, con condanna di questi ultimi al pagamento della somma di Lire 15 milioni a titolo di risarcimento dei danni.

2. Decidendo sull’appello formulato in via principale da V.A. e F.M. e su quello avanzato in via incidentale dagli appellati S.G. e V.I., la Corte di appello di Napoli, con sentenza n. 2452/2016 (pubblicata il 17 giugno 2016), così statuiva: – rigettava le domande formulate dai citati appellanti principali di cui ai capi 4), 5), 7) e 8) dell’atto di citazione di primo grado; – in accoglimento della domanda dagli stessi formulata al capo 6) dell’atto di citazione in primo grado, dichiarava l’inesistenza della servitù di passaggio a carico del loro fondo e da favore della proprietà dei confinanti appellati sul percorso come individuato nella relazione del c.t.u.; – dichiarava inammissibili le domande riconvenzionali avanzate in primo grado dai due appellati; – rigettava l’appello incidentale; – compensava per intero tra le parti le spese del doppio grado di giudizio e regolava quelle relative alle disposte c.t.u., ponendole per metà a carico di ciascuna delle stesse parti.

A fondamento dell’adottata decisione la Corte partenopea riteneva, innanzitutto, fondato il primo motivo dell’appello principale circa l’inammissibilità delle avverse domande riconvenzionali formulate nel giudizio di primo grado siccome tardive, posto che esse erano state proposte con costituzione a mezzo di comparsa di risposta alla seconda udienza (e non alla prima indicata nell’atto di citazione), non rilevando, al fine della rimessione in termini, il rinvio della prima udienza riportata nell’atto introduttivo del giudizio per l’adesione dell’avvocato degli attori all’astensione proclamata dal foro locale.

Con riferimento, invece, agli altri motivi del gravame principale, la Corte territoriale ne ravvisava la fondatezza nei ristretti limiti precedentemente specificati (essendo risultato prive di fondamento le altre doglianze, siccome sfornite di prova od insussistenti sulla scorta delle risultanze della c.t.u.).

Quanto all’appello incidentale il giudice di secondo grado ne rilevava l’infondatezza non avendo gli appellanti incidentali dato prova, sulla base dei titoli di provenienza, della titolarità esclusiva dei beni di cui, invece, era rimasta accertata la comunione; così era da ritenersi altrettanto privo di fondatezza l’altro motivo del gravame incidentale relativo alla supposta violazione dell’art. 1102 c.c. per l’asserita illegittimità dell’occupazione del suolo e del sottosuolo del cortile a mezzo tubi abusivamente collocati, non risultando riscontrato se, per le loro dimensioni e caratteristiche, le tubature occupassero integralmente lo spazio comune.

3. Avverso la citata sentenza di appello hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, S.G. e V.I.. Si sono costituiti con controricorso gli intimati V.A. e F.M..

La difesa dei ricorrenti ha anche depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis.1. c.p.c..

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo i ricorrenti hanno denunciato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 171 c.p.c., comma 2, nella formulazione in vigore alla data di introduzione del giudizio (27 aprile 1995), deducendo l’erroneità dell’impugnata sentenza nella parte in cui aveva qualificato come “prima udienza di comparizione” quella indicata in citazione del 10 luglio 1995, che, tuttavia, non venne celebrata per effetto della dichiarazione di adesione del procuratore degli attori all’astensione proclamata dal Consiglio dell’Ordine forense, ragion per cui la Corte di appello aveva ritenuto quella tenutasi l’11 aprile 1996 (nella quale vi fu la costituzione di essi ricorrenti, quali convenuti) come “udienza successiva” alla prima, onde doveva ritenersi che la stessa Corte aveva illegittimamente dichiarato inammissibili le domande riconvenzionali dei convenuti, siccome da considerarsi tardivamente formulate.

2. Con la seconda censura i ricorrenti hanno prospettato – con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione dell’art. 705 c.p.c., nonché degli artt. 112 e 115 oltre che dell’art. 2697 c.c., sul presupposto che la Corte di appello – in relazione alla domanda di cui al capo 6) dell’atto di citazione (inerente un’actio confessoria della servitù di passaggio in favore della proprietà S. sul viale di passaggio degli attori e del suo aggravamento per raggiungere l’abusivo capannone industriale di cui al capo 3) dello stesso atto introduttivo) – non aveva rilevato l’improponibilità della relativa domanda ai sensi del citato art. 705 c.p.c. poiché, con riguardo alla stessa contestata servitù, pendeva procedimento possessorio tra le parti. Inoltre con questa doglianza i ricorrenti danno dedotto l’assunta violazione dell’art. 112 c.p.c. per non aver la Corte di appello pronunciato sull’eccezione, riproposta in sede di gravame, circa la nullità per indeterminatezza dell’oggetto della domanda inerente l’accertamento della pretesa servitù di passaggio.

3. Con il terzo ed ultimo motivo i ricorrenti hanno denunciato – in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – l’omesso esame del fatto decisivo di cui alla precedente doglianza.

4. Rileva il collegio che il primo motivo è privo di fondamento e deve, perciò, essere respinto.

Costituisce principio pacifico acquisito nella giurisprudenza di questa Corte che l’astensione collettiva degli avvocati dall’attività giudiziaria, deliberata dal Consiglio nazionale forense, dà facoltà (non comportandone, propriamente, l’obbligo) ai professionisti di astenersi dalla partecipazione alle attività di udienza (civile o penale), ma – ferma restando la previsione di svolgimento obbligatorio dell’attività di patrocinio in ipotesi puntualmente descritte – non legittima l’astensione dall’attività di deposito degli atti processuali, (v., in tal senso, già con riguardo alla disciplina processuale antecedente all’entrata in vigore della L. n. 353 del 1990, fissata al 30 aprile 1995 per quanto rileva in questa sede, Cass. n. 21344/2004 e Cass. n. 24816/2005; v., pure in disciplina successiva, Cass. n. 21689/2017), anche, quindi, con riferimento alla valutazione della costituzione tempestiva o meno in giudizio della parte convenuta.

Correttamente la Corte di appello partenopea ha, nell’impugnata sentenza, chiarito in premessa che, nel caso di specie, poiché l’atto di citazione era stato notificata in data antecedente al 30 aprile 1995 (ossia nella vigenza del c.d. “vecchio rito”), trovava applicazione la precedente versione dell’art. 171 c.p.c., comma 2, secondo cui “se una delle parti si è costituita entro il termine rispettivamente a lei assegnato, l’altra parte può costituirsi successivamente fino alla prima udienza, ma restano ferme per il convenuto le decadenze di cui all’art. 167”.

Ciò comportava, quindi, che i convenuti – anche se con riferimento alla data del 10 luglio 1995 (cui era stata differita d’ufficio quella indicata per la prima udienza di comparizione nell’atto di citazione per il 6 luglio 1995) era stata indetta l’astensione collettiva del foro locale – avrebbero dovuto costituirsi, per non incorrere nelle preclusioni stabilite dall’art. 167 c.p.c. (in correlazione con il precedente art. 166), entro la data riportata nell’atto introduttivo e non entro quella dell’11 aprile 1996 coincidente con quella dell’udienza immediatamente successiva alla quale la causa era stata rinviata, dopo che nella prima il difensore degli attori era comparso al solo fine di far attestare la propria adesione all’astensione degli avvocati con la fissazione da parte del giudice di detta seconda udienza.

Legittimamente, quindi, rimanendo irrilevante (come già specificato) l’evento della proclamazione dell’astensione degli avvocati, la Corte territoriale ha ritenuto che la domanda riconvenzionale degli attuali ricorrenti (allora convenuti) avrebbe dovuto essere formulata con la comparsa di costituzione e risposta tempestivamente depositata nel termine previsto dall’art. 166 c.p.c. (cinque giorni prima dell’udienza fissata nell’atto di citazione) o, al più tardi, alla prima udienza (ma – nel giudizio dinanzi al Tribunale – pur sempre depositando nella relativa data l’atto di costituzione in cancelleria, mentre solo nel giudizio pretorile era possibile farlo anche direttamente in udienza), qualora gli attori si fossero costituiti tempestivamente, come in effetti avvenne (e, nel caso di specie, il difensore di questi ultimi vi presenziò anche se al solo fine di far prendere atto al giudice della sua adesione al c.d. “sciopero” degli avvocati). Per tali ragioni il giudice di secondo grado ha giustamente rilevato l’intervenuta preclusione dei convenuti in primo grado dal loro diritto di proporre domanda riconvenzionale, dichiarandola, perciò, tardivamente avanzata.

5. Anche la seconda censura è infondata e va respinta.

Osserva il collegio che, sulla scorta dello stesso svolgimento della censura e in base a quanto ritenuto nell’impugnata sentenza, le contestazioni operate con la comparsa di risposta degli attuali ricorrenti non erano riferite ad una possibile violazione dell’art. 705 c.p.c., bensì si discuteva della possibile opponibilità del “ne bis in idem” riconducibile alla sentenza n. 145/1991 emessa dal Pretore di Sorrento (confermata in appello con sentenza n. 4927/1999 del Tribunale di Napoli), escluso nella sentenza qui impugnata per diversità di oggetto e di natura delle due azioni proposte. Ne’ dal contenuto del motivo emerge, in modo specifico (v. pag. 21), che fosse stata posta la questione relativa al citato art. 705 c.p.c., discorrendosi solo del supposto aggravamento della servitù di passaggio di cui al punto 6 della domanda e della contestazione circa tale aggravamento in ordine al quale pendeva il giudizio di appello avverso la suddetta sentenza del Pretore di Sorrento.

Non sussiste nemmeno la violazione, dedotta in via subordinata, dell’art. 112 c.p.c., avendo, evidentemente, la Corte implicitamente ritenuto validamente formulata la domanda di accertamento della servitù ponendo riferimento, “per relationem”, al capo 6 sviluppato in premessa, e non, quindi, proposta in modo indeterminato (infatti anche alla stessa stregua del tenore della richiesta effettuata – v. pag. 22 del ricorso emerge la sufficiente individuazione di detta domanda).

6. Anche il terzo ed ultimo motivo va disatteso perché – diversamente da quanto con esso prospettato – non si verte affatto in una ipotesi di inesistenza della motivazione sull’accertamento del diritto di proprietà in capo ai sigg. V.- F., avendo, comunque, la Corte di appello espresso un ragionamento al riguardo (che, potrebbe, tutt’al più, ritenersi insufficiente con riferimento alla sola assoluta rilevanza conferita alla mancata contestazione del diritto di proprietà da parte degli odierni ricorrenti, ma ciò non riveste alcuna incidenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nuovo n. 5) “ratione temporis” qui applicabile: cfr., per tutte, Cass. SS.UU. n. 8053 e 8054 del 2014), non avendo i ricorrenti contrapposto all’actio negatoria servitutis un contrario titolo petitorio ed essendosi limitati a formulare l’eccezione di violazione del principio del “ne bis in idem” rispetto al giudizio conclusosi con la già citata irrilevante sentenza del Pretore di Sorrento, respinta per le ragioni anzidette, con ciò – quindi – non contestando l’esistenza del diritto di proprietà della parte avversa del fondo sul quale esercitare la pretesa servitù.

Con riferimento, infatti, all’actio negatoria servitutis, l’attore, sotto il profilo probatorio, deve, in generale, dimostrare con ogni mezzo ed anche in via presuntiva possedere il fondo in forza di un titolo valido e, a tal proposito, vale anche la “non contestazione” del convenuto, il quale si limiti ad accampare – senza la produzione di alcun titolo – un diritto di servitù sul fondo altrui, non disconoscendone, perciò, la proprietà altrui (cfr., per tutte, Cass. n. 472/2017).

7. In definitiva, alla stregua delle complessive argomentazioni svolte, il ricorso deve essere integralmente respinto, con la conseguente condanna dei ricorrenti, in solido fra loro, al pagamento delle spese del presente giudizio che si liquidano nei sensi di cui in dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte degli stessi ricorrenti, sempre con vincolo solidale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna i ricorrenti, in solido fra loro, al pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano in complessivi Euro 4.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre contributo forfettario, iva e cpa nella misura e sulle come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti in solido, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda civile, il 30 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 6 dicembre 2021

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