Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.391 del 13/01/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – rel. Consigliere –

Dott. CONTI Roberto Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 28617/2015 proposto da:

P.M.R., elettivamente domiciliata in Roma, Via Giovanni Antonelli n. 50, presso lo studio dell’avvocato Francesco Caccioppoli, rappresentata e difesa dall’Avvocato Ettore Freda, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Ente Provincia Frati Minori di Santa Maria delle Grazie, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via S. Erasmo n. 19, presso lo studio dell’Avvocato Diletta Bocchini, rappresentata e difesa dall’Avvocato Raffaele Capasso, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

contro

Comune di Lacedonia, in persona del Sindaco pro tempore, domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’Avvocato Alberto Megliola, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4289/2014 della Corte d’appello di Napoli, depositata il 27/10/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 26/11/2020 dal Cons. Dott. Alberto Pazzi.

FATTI DI CAUSA

1. P.M.R. – in qualità di comproprietaria e usufruttuaria di un’abitazione con retrostante terreno, in adiacenza del quale era stato costruito dal Comune di *****, su un fondo appartenente all’ente Provincia dei frati minori di Santa Maria delle Grazie concessogli in comodato, un campo da calcetto e un manufatto adibito a spogliatoio – conveniva in giudizio l’ente proprietario perchè, una volta accertato che il manufatto era stato edificato in violazione delle distanze prescritte dagli artt. 873 e 905 c.c., lo stesso fosse condannato a demolire ed arretrare a distanza legale il fabbricato o, in alternativa, al risarcimento dei danni.

Il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, una volta disposta la chiamata in causa del Comune di Lacedonia richiesta dall’ente convenuto per essere manlevato in caso di soccombenza, riteneva che il manufatto contestato dovesse essere considerato quale opera pubblica, essendo stato edificato dal Comune di Lacedonia previa declaratoria della sua pubblica utilità L. n. 1 del 1978, ex art. 1.

Ne discendeva, a dire del primo giudice, che il vicino non poteva pretendere l’arretramento o comunque la condanna a un facere nei confronti della P.A., ma al più un indennizzo, che però nel caso di specie non era stato domandato nei confronti dell’amministrazione municipale.

2. La Corte d’appello di Napoli, a seguito dell’impugnazione proposta dalla P., ravvisava l’esistenza di un intervento edificatorio deliberato dall’ente locale, realizzato con propri fondi e qualificato di pubblica utilità, malgrado la disponibilità dell’area fosse stata acquisita in virtù di un contratto di comodato e non tramite un provvedimento espropriativo.

Questa modalità di acquisizione della disponibilità dell’area non era tuttavia capace – a dire dei giudici distrettuali – di privare l’opera della sua qualificazione pubblicistica, sicchè la realizzazione della stessa non poteva essere ricondotta ad attività realizzata iure privatorum e come tale essere suscettibile di riduzione in pristino per la porzione lesiva del regime delle distanze legali.

3. Per la cassazione della sentenza di rigetto dell’appello proposto, pubblicata in data 27 ottobre 2014, ha proposto ricorso P.M.R. prospettando due motivi di doglianza, ai quali hanno resistito con controricorso l’ente Provincia dei frati minori di Santa Maria delle Grazie e il Comune di Lacedonia.

RAGIONI DELLA DECISIONE

4. Il primo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, art. 10 Cost., artt. 934,873 e 905 c.c. e L. n. 2359 del 1865, art. 13, nonchè della L. n. 865 del 1971: la Corte di merito – in tesi di parte ricorrente – avrebbe errato nel qualificare l’opera come pubblica per effetto della dichiarazione di pubblica utilità, che non aveva efficacia sia perchè nessun termine era stato indicato, sia perchè non era stata mai avviata l’espropriazione e i lavori erano stati iniziati e ultimati a distanza di anni.

Per di più la dichiarazione di pubblica utilità doveva riguardare opere pubbliche, che a loro volta presupponevano l’occupazione, l’espropriazione o la cessione volontaria delle aree, mentre nel caso di specie il manufatto era stato realizzato su un terreno concesso al Comune in comodato precario; di conseguenza, non essendo mai stato acquisito il terreno dall’ente locale, l’opera era divenuta di proprietà dell’ente comodante, ai sensi dell’art. 934 c.c. e, quale bene di proprietà privata, era assoggettabile alla normativa codicistica sulle distanze.

5. Il secondo mezzo lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 934,873 e 905 c.c. e L. n. 2359 del 1865, art. 13 e della L. n. 865 del 1971, nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo: la Corte d’appello non avrebbe tenuto conto delle risultanze contrattuali, secondo cui la struttura sarebbe stata gestita dall’ente comodante, che quindi ne sarebbe rimasto proprietario e avrebbe al più dovuto rimborsare una quota proporzionale del costo di costruzione.

Il Comune di Lacedonia, in ogni caso, era obbligato – a dire della ricorrente – al rispetto delle distanze anche qualora si fosse trattato di un manufatto di sua proprietà, avendo operato iure privatorum al di fuori dei suoi poteri pubblicistici o sine titulo, in assenza di qualsiasi potere giuridico ad essa conferito dalla legge.

6. I motivi, da esaminarsi congiuntamente in ragione della stretta connessione fra loro esistente, sono fondati, nei termini che si vanno a illustrare.

6.1 La giurisprudenza di questa Corte (Cass. 492/1980) e del Consiglio di Stato (5907/2000) ha ritenuto in passato che “l’assenza di una esplicita disposizione di legge sull’esenzione dei beni demaniali dal rispetto delle distanze legali esclude che possa continuare a ritenersi valido il principio sancito dall’art. 572 c.c. 1865 secondo il quale, appunto, i beni del demanio pubblico – in ragione della loro natura e funzione – erano esenti dall’osservanza delle distanze legali previste dal codice medesimo nonchè dai regolamenti comunali”.

Questa tesi non trova riscontro nella dottrina maggioritaria, secondo cui, e in maniera condivisibile, l’esenzione per gli edifici demaniali dal rispetto della disciplina dettata dagli artt. 873 c.c. e segg., è implicitamente contenuta nella previsione dell’art. 879 c.c..

La disciplina delle distanze prevista dal codice civile, dunque, presiede alla regolamentazione dei rapporti di vicinato ed alla tutela del diritto di proprietà e vincola anche la Pubblica Amministrazione, non solo nel caso in cui la stessa operi iure privatorum, ma anche quando risultino coinvolti beni ad essa appartenenti e non riconducibili fra quelli indicati nell’art. 879 c.c..

La sostanziale portata di tale disposizione va individuata nella constatazione che nel caso in cui la Pubblica Amministrazione operi nel legittimo perseguimento di un interesse pubblico e compia un intervento edificatorio qualificato di interesse pubblico, la modalità di realizzazione dell’opera costituisce un’estrinsecazione di una potestà della Pubblica Amministrazione.

Ne consegue che l’esecuzione di una simile opera non può essere ricondotta ad un’attività realizzata iure privatorum e non è suscettibile di riduzione in pristino per la parte in cui lede il regime convenzionale e regolamentare delle distanze, poichè le scelte della competente autorità circa l’ubicazione dell’opera, al fine di perseguire nel migliore dei modi la pubblica utilità, sono idonee a comprimere la posizione giuridica soggettiva del privato.

6.2 Questi principi riguardano l’opera pubblica in quanto tale, anche nell’ipotesi in cui essa non sia realizzata mediante il ricorso a procedimenti di natura ablatoria, ed operano in ragione dell’esistenza di un riconosciuto interesse pubblico alla sua realizzazione della stessa. Sotto questo profilo non rilevano le deduzioni della ricorrente in merito alla mancata emanazione del decreto di esproprio: se è vero che la dichiarazione di pubblica utilità è stata in origine e per lungo periodo caratterizzata dall’esercizio della potestà espropriativa, è altrettanto vero che nel corso degli anni essa ha progressivamente acquistato una piena autonomia, come si desume da numerosi interventi legislativi aventi ad oggetto la declaratoria di pubblico interesse rispetto a beni ed attività del tutto avulsi da procedimenti di natura ablativa.

E proprio rispetto a un’ipotesi di tal fatta le Sezioni Unite di questa Corte hanno avuto modo di ribadire, occupandosi di una fattispecie relativa alla costruzione di pale eoliche a distanza infralegale e tenendo conto della finalità pubblica conseguente al fatto che una simile opera rientrava nel novero del piano energetico nazionale, che “è indiscutibile che l’esecuzione di un’opera di pubblica utilità e che rappresenti un elemento di esercizio di un servizio pubblico (la rete elettrica nazionale) non può essere ricondotta – sol per effetto della violazione dei suoi limiti di dislocazione spaziale – ad attività realizzata jure privatorum (come nella vicenda esaminata da Cass. 6469 del 2008) e pertanto essere considerata suscettibile di riduzione in pristino per la parte in cui l’opus lede il regime (legale e regolamentare) delle distanze; di contro l’opera in discorso può ingenerare, innanzi al giudice ordinario, soltanto la reazione indennitaria che l’ordinamento prevede e consente, quella di cui alla L. n. 2359 del 1865, art. 46 e, quindi, della successiva disposizione di cui al D.P.R. n. 327 del 2001, art. 44” (v. Cass., Sez. U., 24410/2011, citata all’interno della decisione impugnata).

Non è quindi necessario che l’opera pubblica sia realizzata su fondo demaniale per andare esente dalla disciplina delle distanze, potendo la stessa essere collocata anche su un fondo privato, a condizione, però, che l’opera sia intrinsecamente assimilabile, per la finalità pubblica perseguita, al pubblico demanio.

6.3. Nella fattispecie in esame l’opera ritenuta di pubblico interesse (costituita da un campetto da calcio e dal relativo spogliatoio, pacificamente appartenenti al proprietario del fondo a mente dell’art. 934 c.c.) non ha di per sè un’intrinseca finalità pubblica, non rientrando in nessuna delle categorie a cui questo carattere è ricollegato.

La finalità pubblica riconosciuta dal Comune è ricollegata, per altro, a un titolo, obbligatorio e non reale, costituito da un contratto di comodato, che, per sua natura, attribuisce un diritto di godimento temporaneo e precario, al cui spirare l’ente proprietario riotterrà il godimento del bene e il libero esercizio di tutti i poteri dominicali, con il conseguente venir meno della finalità pubblica perseguita dall’amministrazione comodataria.

Il disposto dell’art. 879 c.c., comma 1, prevede che “alla comunione forzosa non sono soggetti gli edifici appartenenti al demanio pubblico e quelli soggetti allo stesso regime, nè gli edifici che sono riconosciuti di interesse storico, archeologico o artistico, a norma delle leggi in materia”.

Il bene in questione, da considerare a tutti gli effetti appartenente alla Provincia dei Frati minori di Santa Maria delle Grazie, è privo di quel carattere di demanialità necessario ai fini dell’inapplicabilità della disciplina dettata in tema di distanze (cfr. Cass. 5258/2011), nè, all’evidenza, può considerarsi di interesse storico, archeologico o artistico.

Neppure le descritte caratteristiche della finalità pubblica perseguita appaiono idonee a far ritenere che l’opera in questione rimanga esente dall’applicazione della disciplina delle distanze.

Infatti, l’esenzione erroneamente affermata nella decisione impugnata trova giustificazione in una dichiarazione di pubblica utilità di carattere instabile e provvisorio – perchè dipendente da un titolo di natura obbligatoria il cui venir meno non solo andrà a recidere l’esile legame fra l’opera e la pubblica amministrazione, ma farà anche svanire la finalità pubblica perseguita, ricollegata alla disponibilità dell’area – e quindi di per sè insufficiente a rendere l’opera assimilabile al pubblico demanio.

La prospettiva di una riespansione dei diritti dominicali nella loro pienezza, a cui è correlata la precarietà della dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, induce quindi a ritenere che il confinante possa far valere, nei confronti dell’ente proprietario del manufatto, il rispetto delle distanze.

7. In conclusione, sulla base delle ragioni appena illustrate, la sentenza impugnata andrà cassata, con rinvio della causa alla corte distrettuale, la quale, nel procedere al suo nuovo esame, si atterrà ai principi sopra illustrati, avendo cura anche di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di Appello di Napoli in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 26 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2021

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