LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GRAZIOSI Chiara – Presidente –
Dott. SCRIMA Antonietta – rel. Consigliere –
Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –
Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –
Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 29169/2018 proposto da:
S.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FLAMINIA VECCHIA 691, presso lo studio dell’avvocato MARCO FABIO LEPPO, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
C.G., elettivamente domiciliato in ROMA, CIRCONVALLAZIONE CLODIA 88, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI ARILLI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARCO RONDONI;
– controricorrente –
e contro
B.A., B.A.G., B.B., N.D., N.M., N.E.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 602/2017 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 10/06/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/06/2021 dal Consigliere Dott. ANTONEETTA SCRIMA.
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 2 settembre 1987, S.F. ed altri comproprietari dell’immobile denominato “*****”, sito in *****, adirono il Tribunale di Perugia per ottenere la restituzione dell’edifico, ritenendo cessato, con decorrenza *****, il contratto di locazione intercorso con C.G.. Gli attori chiesero, altresì, il risarcimento del danno per ritardata restituzione e la liberazione del terreno attiguo all’immobile e della casa del colono.
Si costituì il C., resistendo alle domande proposte dalle controparti. Sostenne, in particolare, di detenere legittimamente l’immobile sia per esserne anch’egli comproprietario, sia in ragione del fatto che i locatori non gli avevano corrisposto l’indennità di avviamento commerciale.
Il Tribunale di Perugia emise, all’esito dell’istruttoria, una prima sentenza non definitiva, accertando che il contratto di locazione era cessato ad ogni effetto dal ***** e che il C. era comproprietario dell’immobile per la quota di 4/96, successivamente aumentata a 50/320 per l’acquisto della quota di R.M.T..
La Corte di appello di Perugia, riunite le impugnazioni separatamente proposte da entrambe le parti avverso la sentenza, condannò il C. al rilascio dell’immobile.
Quest’ultimo propose ricorso per cassazione, che venne accolto dalla Corte di Cassazione con rinvio alla Corte di appello di Firenze.
All’esito del giudizio di rinvio, il C. venne condannato al rilascio dell’intero immobile con sentenza n. 1557/03.
Il giudizio di legittimità relativo alla decisione di appello si concluse con la sentenza di questa Corte n. 15604/2007 di rigetto del ricorso proposto dal C..
Il giudizio innanzi al Tribunale di Perugia proseguì con l’emissione di una nuova sentenza non definitiva, n. 2037/2010, che rigettò la domanda attorea di risarcimento del danno da ritardata riconsegna dell’immobile, dichiarò cessata la materia del contendere tra il C. e R.M.T., alla luce della transazione inter partes stipulata in data 9 dicembre 1997 (e in forza della quale il primo era divenuto comproprietario dell’albergo nella misura di 50/320), dispose nuova c.t.u. per la quantificazione della somma dovuta dal C. a titolo di canoni di locazione nel periodo tra il 1 aprile 1983 e il 9 dicembre 1997.
Con sentenza definitiva n. 86/2013 il Tribunale di Perugia, precisato che l’attrice non aveva mai chiesto la corresponsione dei canoni nel periodo compreso tra il 1983 e il 1997, affermò che il rapporto tra le parti, successivamente al 9 dicembre 1997, doveva ritenersi regolato dalle norme sulla comunione. Pertanto, respinse integralmente le richieste risarcitorie e di indennizzo proposte dagli attori.
Avverso detta sentenza e avverso la sentenza non definitiva n. 2037/2010, S.F. interpose appello, in proprio e quale erede di S.A..
La Corte di appello di Perugia, in accoglimento dell’appello, condannò C.G. al pagamento, in favore di S.F., della somma di Euro 13.687,25, “da ridurre proporzionalmente secondo la quota di comproprietà dell’immobile”, oltre interessi di legge.
La Corte territoriale reputò che il C. avesse legittimamente ritenuto l’immobile fino al momento in cui i locatori non lo avevano costituito in mora, attraverso l’offerta reale di pagamento dell’indennità di avviamento. Quanto al fatto che il locatore fosse contestualmente anche comproprietario dell’edificio, la Corte ritenne che tale circostanza non incidesse sull’obbligo di riconsegna, potendo al più determinare una riduzione dell’ammontare del canone preso a riferimento quale criterio di quantificazione del danno, proporzionalmente alla quota di comproprietà. Per quanto ancora in questa sede rileva, la Corte territoriale reputò, altresì, sine titulo l’occupazione – da parte del C. – dei terreni circostanti la struttura e della casa del colono, quantificò il danno per mancata restituzione dei beni già locati, ex art. 1591 c.c., a decorrere dal 12 luglio 2009 (data di notifica dell’offerta reale di pagamento dell’indennità di avviamento) sino all’effettivo rilascio, nella somma di Euro 8.687,25, (Euro 10.296,00 da cui quella Corte detrasse i 50/230 relativi alla comproprietà del C.), precisando che detto danno andava quantificato prendendo a parametro l’importo del canone vigente al momento della cessazione del titolo locatizio e tenendo conto della quota parte di proprietà dell’appellante.
Per l’occupazione abusiva dell’abitazione del colono e dei terreni, la Corte dispose il risarcimento del danno, determinato equitativamente nella somma di Euro 5.000,00.
La Corte di merito, pertanto, in accoglimento dell’appello, condannò il C. al pagamento, in favore di S.F., della somma di Euro 13.687,25 da ridurre proporzionalmente secondo la quota di comproprietà dell’immobile, oltre interessi di legge dalla data di quella pronuncia, e condannò l’appellato C. alle spese di lite.
Avverso la pronuncia della Corte territoriale ha interposto ricorso per cassazione in cinque motivi S.F., in proprio e quale erede di S.A..
Ha resistito con controricorso C.G..
Non hanno svolto attività difensiva in questa sede gli intimati B.A., A.G. e B. nonché N.D., M. ed E..
Fissato per l’udienza pubblica del 9 giugno 2021, il ricorso è stato trattato in Camera di consiglio, in base alla disciplina dettata dal sopravvenuto del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8-bis, inserito dalla Legge di Conversione n. 176 del 2020, senza l’intervento del Procuratore Generale e dei difensori delle parti, non avendo nessuno degli interessati fatto richiesta di discussione orale.
Il P.M., in prossimità della Camera di consiglio, ha depositato conclusioni scritte, chiedendo l’accoglimento del secondo e terzo motivo di ricorso.
Sia la ricorrente che il controriicorrente hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1591 c.c., prima parte (diritto al pagamento dell’indennità di occupazione) e dell’art. 1220 c.c. (offerta non formale)” per avere la Corte territoriale negato il risarcimento del danno subito dai proprietari dello stabile nel periodo antecedente alla data di offerta reale del pagamento dell’indennità di avviamento commerciale al C..
Osserva la S. che se il diritto al risarcimento del maggior danno è legato all’offerta dell’indennità di perdita d’avviamento, al contrario l’indennità di occupazione è comunque dovuta al conduttore fino al momento dell’effettiva riconsegna, a prescindere dalla corresponsione di (rectius: dall’offerta formale di corrispondere) detta identità. La Corte territoriale non avrebbe rettamente inteso la massima giurisprudenziale richiamata in motivazione (Cass. n. 19634/2016), così erroneamente pervenendo a tali conclusioni. Sostiene la ricorrente che il conduttore, il quale alla scadenza del contratto rifiuti la restituzione dell’immobile, in attesa che il locatore gli corrisponda l’indennità di avviamento dovuta, è pur sempre obbligato al pagamento del corrispettivo convenuto per la locazione, anche se il risarcimento del maggior danno resta condizionato all’offerta formale dell’indennità di avviamento.
1.1. Il motivo è fondato.
E’ pur vero che questa Corte ha affermato in alcune sue pronunce che “nei rapporti di locazione di immobili urbani adibiti ad uso non abitativo, in cui l’esecuzione del provvedimento di rilascio dell’immobile è condizionata all’avvenuto versamento della indennità per l’avviamento commerciale, della L. n. 392 del 1978, ex art. 34, comma 3 e art. 69, comma 8, fin quando tale corresponsione non avvenga, anche solo nella forma dell’offerta reale non accettata, la ritenzione dell’immobile da parte del conduttore avviene “de iure” e rappresenta la causa di giustificazione impeditiva della scadenza dell’obbligo di consegna, con la conseguenza che non insorgono la mora nella riconsegna ed il conseguente obbligo di risarcimento ai sensi dell’art. 1591 c.c.” (Cass. 3/10/2016, n. 19634; Cass., ord., 16/10/2017, n. 24285; Cass., ord., 27/03/2018, n. 13492).
Tali precedenti, tuttavia, non si confrontano con i principi affermati dalla sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte 15/11/2000, n. 1177 che ha esaminato funditus la questione relativa al rapporto tra la disciplina dettata dal codice civile all’art. 1591, e quella posta dalla L. n. 392 del 1978, art. 69 (seguita da numerose pronunce conformi)t che ha affermato, sulla base di esaustiva motivazione cui si rinvia, il principio – condiviso da questo Collegio e che va ribadito in questa sede – così ufficialmente massimato: “Nelle locazioni di immobili urbani adibiti ad attività commerciali disciplinate della L. 27 luglio 1978, n. 392, artt. 27 e 34 (e, in regime transitorio, dagli artt. 68, 71 e 73 della stessa Legge), il conduttore che, alla scadenza del contratto, rifiuti la restituzione dell’immobile, in attesa che il locatore gli corrisponda la dovuta indennità di avviamento, è obbligato al solo pagamento del corrispettivo convenuto per la locazione, e non anche al risarcimento del maggior danno”.
E’ stato pure affermato – proprio nel solco della pronuncia delle Sezioni Unite appena richiamate – che in materia di locazioni di immobili urbani adibiti ad uso diverso da quello abitativo, dal momento della cessazione del rapporto contrattuale sino a quello del pagamento dell’indennità di avviamento si viene ad instaurare tra le parti un rapporto ex lege, che risulta collegato geneticamente a quello precedente, ma nel quale le rispettive obbligazioni non si pongono in relazione di sinallagmaticità. Ne consegue che il conduttore, rimasto nella detenzione dell’immobile, per sottrarsi all’obbligo di pagamento del canone non può invocare l’applicazione dell’art. 1460 c.c., dovendo piuttosto compiere l’offerta di restituzione del bene a norma dell’art. 1216 c.c..
Quanto al pagamento dei canoni, il conduttore, alla scadenza del contratto, resta obbligato al pagamento dei canoni tutte le volte in cui permanga nella detenzione dell’immobile (quand’anche sia cessato l’esercizio dell’attività commerciale nell’immobile locato), a nulla rilevando che il locatore sia a sua volta inadempiente all’obbligo di pagamento dell’indennità per la perdita dell’avviamento. Per sollevarsi da tale obbligo, il conduttore hai l’onere di costituire in mora il locatore offrendo contestualmente, anche in modo informale, la restituzione dell’immobile (Cass., n. 15876/2013).
Va pure posto in rilievo che questa Corte con la sentenza 20/01/2016, n. 890, che richiama espressamente l’arresto delle Sezioni Unite sopra menzionato, ha affermato che: “Nelle locazioni di immobili urbani adibiti ad attività commerciali, disciplinate della L. n. 392 del 1978, artt. 27 e 34 (e, in regime transitorio, dagli artt. 68, 71 e 73 della stessa Legge), il conduttore che, alla scadenza del contratto, rifiuti la restituzione dell’immobile, in attesa che il locatore gli corrisponda la dovuta indennità di avviamento, è esonerato solo dal risarcimento del maggior danno ex art. 1591 c.c., restando comunque obbligato al pagamento del corrispettivo convenuto per la locazione, salvo che offra al locatore, con le modalità dell’offerta reale formale ex art. 1216 c.c., comma 2 e art. 1209 c.c., la riconsegna del bene condizionandola al pagamento dell’indennità di avviamento medesima, atteso il forte legame strumentale che lega le due prestazioni”.
Orbene, nel caso di specie, la Corte territoriale, richiamando Cass. 19634/2016, ha rigettato la domanda di risarcimento del danno da occupazione abusiva, fino al 2009, e cioè fino al momento dell’offerta formale, da parte dei locatori, del pagamento dell’indennità di avviamento, ritenendo sussistente il diritto di ritenzione del conduttore finché questi “non venga messo in mora tramite la proposta di offerta reale, a prescindere àal fatto che questa venga poi accettata o meno. Solo a decorrere da tale momento il titolo di rilascio non è più inibito per legge ed acquista efficacia, così da far nascere in capo al locatore il diritto al risarcimento per la ritardata consegna ex art. 1591 c.c.”.
Poiché l’offerta documentale risulta perfezionata in data 1 luglio 2009, solo da tale momento deve, per la Corte di merito, calcolarsi il periodo in cui il conduttore ritarda la restituzione (salvo poi, per mero evidente lapsus calami, v. sentenza p. 10, far riferimento per il calcolo di tale danno alla data del 12.7.2009, come pure evidenziato dalla ricorrente).
L’odierna ricorrente afferma che la Corte avrebbe dovuto, nel rispetto dei – dalla medesima – citati orientamenti giurisprudenziali, disporre il pagamento dei canoni di locazione per il periodo corrispondente all’esercizio del diritto di ritenzione da parte del C..
E tale doglianza risulta fondata, non avendo la Corte di merito al riguardo fatto corretta applicazione dei principi sopra riportati.
2. Con il secondo motivo la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1591 c.c. e dell’art. 112 c.p.c., relativamente al diritto al pagamento del maggior danno. La S. lamenta che la Corte territoriale ha “di fatto” rigettato senza alcuna argomentazione il capo d’appello relativo alla richiesta di risarcimento del maggior danno da ritardata consegna espressamente previsto dall’art. 1591 c.c..
Ad avviso della ricorrente, essendo stata la domanda di risarcimento del maggior danno ex art. 1591 c.c., “formulata, argomentata e provata”, la Corte di merito avrebbe dovuto valutare le prove e accogliere la domanda quanto meno con decorrenza 7 gennaio 2009 (data di perfezionamento dell’offerta reale) e non già, senza nulla affermare al riguardo, rigettarla “di fatto” e “implicitamente”.
3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in quanto la Corte di appello, oltre ad aver errato nella determinazione della decorrenza dell’indennità di occupazione (12.7.2009 invece che quella a suo avviso corretta del 7.1.2009), avrebbe quantificato in maniera del tutto arbitraria i danni patiti dalla ricorrente per l’occupazione del complesso alberghiero, tenendo conto dell’ammontare del canone mensile a suo tempo convenuto. Ad avviso della S., il giudice non avrebbe potuto fare ricorso al criterio equitativo, in quanto questi avrebbe dovuto valutare, a norma delle disposizioni del codice di rito citate, gli analitici conteggi e i documenti prodotti in giudizio.
Le doglianze proposte si riferiscono anche alla liquidazione equitativa del risarcimento per occupazione sine titulo, da parte del C., dell’abitazione del colono e dei terreni circostanti, in quanto, a tale proposito, la Corte territoriale, “pur avendo proceduto alla liquidazione del danno in via equitativa” avrebbe dovuto “indicare, almeno sommariamente, i criteri seguiti nella propria determinazione”.
4. I motivi secondo e terzo, essendo strettamente connessi, ben possono esaminarsi congiuntamente.
4.1. Giova premettere che il conduttore in mora nella restituzione della cosa locata è soggetto, in base all’art. 1591 c.c., ad un duplice obbligo: quello (che sussiste sempre) di dare al locatore il corrispettivo convenuto fino alla riconsegna, che ha natura di debito di valuta ed è sottoposto al principio nominalistico, concretandosi in un debito determinato, sin dal momento della sua nascita, in una espressione monetaria, e quello (eventuale) di risarcire il maggior danno patito dal locatore, che, invece, non essendo fin dall’origine un debito di natura pecuniaria, ma traducendosi in un concreto e specifico ammontare monetario solo al momento della pronuncia giudiziale di liquidazione, importa che deve tenersi conto della svalutazione monetaria verificatasi tra il mancato rilascio e la liquidazione del danno (Cass., n. 15146/2018).
4.2. Tanto premesso deve ritenersi insussistente la lamentata violazione dell’art. 112 c.p.c., in quanto, come dalla stessa ricorrente dedotto, la domanda in parola è stata sostanzialmente rigettata (Cass., ord., 13/08/2018, n. 20718), mentre effettivamente sussiste il difetto di motivazione sul punto e tanto assorbe ogni ulteriore doglianza pure formulata con il secondo mezzo.
Le doglianze proposte sono pure fondate per quanto di ragione con riferimento ai danni relativi all’occupazione dei beni mai locati.
La liquidazione equitativa dei danni e’, infatti, dall’art. 1226 c.c., rimessa al prudente criterio valutativo del giudice di merito non soltanto quando la determinazione del relativo ammontare sia impossibile ma anche quando la stessa, in relazione alle peculiarità del caso concreto, si presenti particolarmente difficoltosa (Cass., ord. n. 9339/2019).
Essa può ritenersi legittima nel solo caso in cui il danno stesso sia non meramente potenziale, bensì certo nella sua esistenza ontologica, pur non essendo suscettibile di prova del quantum, e richiede, altresì, onde non risultare arbitraria, l’indicazione di congrue, anche se sommarie, ragioni del processo logico sul quale è fondata (Cass., ord. n. 26051/2020; Cass., n. 3794/2008; Cass., n. 7896/2002).
Orbene, nel caso di specie, la Corte territoriale ha implicitamente ritenuto sufficientemente dimostrata la sussistenza del danno conseguente all’occupazione abusiva, da parte del C., del terreno circostante l’immobile e della casa colonica. Può dunque ritenersi in astratto legittimo l’esercizio del potere officioso di liquidazione equitativa del danno. La giurisprudenza di legittimità ha affermato però – come già ricordato – che qualora proceda alla liquidazione del danno in via equitativa, il giudice di merito, affinché la sua decisione non presenti i connotati della arbitrarietà, deve indicare i criteri seguiti per determinare l’entità del risarcimento, risultando il suo potere discrezionale sottratto a qualsiasi sindacato in sede di legittimità solo allorché si dia conto che sono stati considerati i dati di fatto acquisiti al processo come fattori costitutivi dell’ammontare dei danni liquidati (Cass., n. 8213/2013; Cass., n. 14166/1999).
Orbene, nel caso all’esame, la sentenza non indica alcun criterio a cui è stata ancorata la liquidazione equitativa, limitandosi ad affermare “si stabilisce in via equitativa la condanna del pagamento a carico dell’appellato C. e della somma complessiva di Euro 5.000,00”.
5. Con il quarto motivo, denunciando la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 392 del 1978, artt. 34 e 69 e dell’art. 112 c.p.c., la ricorrente sostiene che il diritto del locatore all’indennità per la perdita dell’avviamento, in forza del quale è stata ritenuta legittima l’occupazione dell’immobile fino al 2009, è in realtà inesistente per intervenuta prescrizione. Il C. avrebbe pure ottenuto dalla Regione Umbria, a seguito del terremoto del 1997 che avrebbe distrutto la struttura, adibita ad attività ricettiva, un’indennità per perdita dell’avviamento commerciale; inoltre, secondo il dictum della sentenza della Corte Costituzionale n. 576/1987, il diritto all’indennità di avviamento verrebbe meno ove l’immobile vada distrutto; infine, assume la ricorrente che, in base all’ordinanza di sgombero emanata dal Sindaco nel 1997, a seguito del terremoto, il C. si sarebbe allontanato dalla struttura alberghiera senza mai chiedere in seguito il pagamento di detta indennità, con conseguente prescrizione del relativo diritto.
Asserisce altresì la S. che l’eccezione di intervenuta prescrizione sarebbe stata per la prima volta proposta nell’atto d’appello e nel corso dell’udienza tenutasi innanzi alla Corte territoriale.
5.1. Orbene, è agevole rilevare che, da un lato, la prescrizione, per espressa previsione legislativa, non può essere rilevata d’ufficio ove non opposta dalla parte che vi abbia interesse (art. 2938 c.c.); dall’altro lato, l’art. 345 c.c., nella formula successiva alla riforma del 1990 esclude che possano essere proposte nel giudizio di gravame nuove eccezioni, se esse non siano rilevabili anche d’ufficio.
Alla luce delle numerose modifiche a cui è stato soggetto l’art. 345 c.p.c., che hanno anche riguardato la specifica parte della disposizione di cui deve farsi applicazione nel caso concreto, sembra opportuno svolgere le osservazioni che seguono.
Nel testo modificato dalla L. 14 luglio 1950, n. 581, art. 36, detta disposizione così stabiliva: “1. Nel giudizio d’appello non possono proporsi domande nuove e, se proposte, debbono rigettarsi d’ufficio. Possono però domandarsi gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata” nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa. 2. Le parti possono proporre nuove eccezioni, produrre nuovi documenti e chiedere l’ammissione di nuovi mezzi di prova, ma se la deduzione poteva essere fatta in primo grado si applicano per le spese del giudizio d’appello le disposizioni dell’art. 92, salvo che si tratti del deferimento del giuramento decisorio”.
La L. 26 novembre 1990, n. 353, ha poi introdotto il regime di preclusione che è rimasto immutato anche a seguito delle successive novelle legislative. Ai sensi dell’art. 92, comma 2, della Legge medesima l’efficacia di tale disposizione è fissata a decorrere dal 30 aprile 1995, essendo inoltre espressamente previsto, con la norma transitoria di cui all’art. 90, comma 1, che “ai giudizi pendenti alla data del 30 aprile 1995 si applicano le disposizioni vigenti anteriormente a tale data” (salvo ulteriori specificazioni o eccezioni che non riguardano però l’art. 345 c.p.c.).
Nel caso di specie, il giudizio era già pendente alla data del 30 aprile 1995.
A seguito di un ulteriore intervento sul testo dell’art. 345 c.p.c., la L. n. 69 del 2009, art. 58, comma 2, così ha disposto: “Ai giudizi pendenti in primo grado alla data di entrata in vigore della presente legge si applicano gli artt. 132,345,616 c.p.c. (…), come modificati dalla presente legge”.
La L. n. 69 del 2009, è entrata in vigore il 4 luglio 2009.
Da ciò consegue che il giudizio d’appello conclusosi con la sentenza in questa sede impugnata rientra tanto nell’ambito d’applicazione della prima norma transitoria (essendo stato introdotto prima del 30 aprile 1995) che della seconda, essendo alla data del 4 luglio 2009 ancora pendente in primo grado (la sentenza non definitiva del Tribunale è stata depositata il 12 dicembre 2010, la sentenza definitiva di primo grado il 5 gennaio 2013, v. sentenza impugnata. p. 2).
Nel conflitto tra le due discipline, deve prevalere la seconda in ordine temporale, per il principio lex posterior derogat priori (art. 15 preleggi). E dunque, trova applicazione l’art. 345 c.p.c., nella formulazione che esclude la rilevabilità, per la prima volta in grado d’appello, delle eccezioni in senso stretto.
A tali conclusioni è pervenuta Cass., ord. 20/08/2018, n. 20793, con riferimento alla produzione di documenti in appello, affermando un principio che, salvo il riferimento alla data del 12 agosto 2012 (inerente ad ulteriori modifiche dell’art. 345, non interessanti però il comma 2, che qui rileva, ma il comma 3, inerente alle nuove prove ulteriormente novellato nel 2012), ben può essere utilizzato, mutatis mutandis, nella specie: “In caso di giudizi iniziati in primo grado in epoca anteriore al 30 aprile 1995, ancora pendenti in primo grado alla data del 4 luglio 2009 e conclusi con sentenza appellata prima del 12 agosto 2012, trova applicazione, quanto al giudizio di appello (in virtù della norma transitoria di cui alla L. n. 69 del 2009, art. 58, comma 2, prevalente, quale “lex posterior”, su quella di cui alla L. n. 353 del 1990, art. 90, comma 2,), l’art. 345 c.p.c., come modificato dalla L. n. 69 del 2009, art. 46, comma 18; ne consegue che, in presenza di dette condizioni, le parti non possono produrre nuovi documenti, né chiedere l’ammissione di nuovi mezzi di prova, salvo che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli nel giudizio di primo grado” per causa ad essa non imputabile”.
Pertanto, la doglianza sul punto va rigettata.
Nel resto, le censure sollevate difettano di specificità, non avendo la ricorrente riportato in quali esatti termini siano state, dalla medesima, proposte in sede di merito, né è riportato in motivo il preciso contenuto degli atti in esse richiamati, per la parte rilevante in questa sede, sicché tali doglianze, così formulate, sono inammissibili.
6. Con il quinto motivo la ricorrente censura la statuizione sulle spese, avendo la Corte territoriale provveduto a porre a carico del C. esclusivamente le spese dell’appello e non anche quelle del precedente grado, come avrebbe dovuto fare a seguito dell’accoglimento dell’appello e conseguentemente, dell’integrale accoglimento della domanda originariamente proposta.
La censura resta assorbita all’accoglimento del primo motivo e, sia pure per quanto di ragione, dei motivi secondo e terzo.
7. Il ricorso deve essere, pertanto, accolto per quanto di ragione e nei termini sopra precisati.
La sentenza impugnata va cassata in relazione alle censure accolte e la causa va rinviata, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Perugia, in diversa composizione.
8. Stante il sia pure parziale accoglimento del ricorso, va dato atto della non sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte della ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello eventualmente dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis (Cass., sez. un., 20/02/2020, n. 4315).
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Perugia, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 9 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 10 dicembre 2021
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