LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –
Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –
Dott. SPENA Francesca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 9151/2016 proposto da:
B.L., BR.RO., F.F., FO.CA., tutti elettivamente domiciliati in ROMA, VIA GIOVAN BATTISTA VICO 22, presso lo studio dell’avvocato GIANLUIGI ORANGES, (Studio Bernardini & Sabino) che li rappresenta e difende;
– ricorrenti –
contro
A.O.R.N. – AZIENDA OSPEDALIERA DI RILIEVO NAZIONALE *****, in persona del Commissario Straordinario pro tempore, domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato LUIGI ABATE;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 6183/2015 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 02/10/2015 R.G.N. 759/2012;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 12/10/2021 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA.
RILEVATO
che:
1. con sentenza n. 6183/2015 del 2 ottobre 2015 la Corte di appello di Napoli confermava la decisione del locale Tribunale che aveva parzialmente accolto la domanda proposta nei confronti dell’Azienda Ospedaliera di Rilievo Nazionale “*****” da Fo.Ca., B.L., Br.Ro. e F.F., dipendenti con profilo di collaboratore professionale sanitario infermiere, inquadrati nella categoria D, che avevano dedotto di aver svolto (dal giugno 2007) mansioni corrispondenti alla superiore categoria DS, riconoscendo solo in favore dei predetti l’indennità di pronta disponibilità (art. 7 c.c.n.l. sanità 2001), a decorrere dalla loro assegnazione al servizio di emergenza 118 ed aveva rigettato la domanda intesa al riconoscimento delle differenze retributive e dell’indennità di coordinamento, ex art. 10 c.c.n.l. sanità 2001;
2. la Corte territoriale, come già il Tribunale, riteneva che i ricorrenti non avessero assolto l’onere probatorio su di essi gravante per dimostrare lo svolgimento di mansioni superiori a quelle del proprio inquadramento tali da giustificare il superiore livello richiesto;
osservava che tanto dalle linee guida quanto dalle dichiarazioni dei testi, ascoltati in primo grado, emergeva una corrispondenza tra le mansioni svolte e quanto indicato dalla declaratoria della categoria D;
rilevava che i ricorrenti avevano svolto mansioni di inquadramento con responsabilità proprie, secondo quanto indicato nella declaratoria della cat. D ma non mansioni con le caratteristiche di autonomia e responsabilità dei risultati come individuate nella declaratoria della cat. DS;
3. quanto al preteso diritto all’indennità di coordinamento, richiamava l’art. 10 c.c.n.l. sanità che prevede, quale requisito necessario per la corresponsione dell’indennità, lo svolgimento di “reali funzioni di coordinamento”;
riteneva che non fosse sufficiente la mera appartenenza alla categoria D per ottenere l’indennità in questione ma che fosse necessario un “quid pluris” sull’effettivo svolgimento di attività di direzione del personale e di responsabilità sull’operato altrui;
richiamava la giurisprudenza di legittimità sull’interpretazione dell’art. 10 c.c.n.l. secondo cui, ai fini della corresponsione dell’indennità, è necessario che l’incarico di coordinamento risulti in via documentale o sia stato assegnato da coloro che avevano il potere di conformare la prestazione lavorativa del dipendente;
osservava che le mansioni dei ricorrenti, per quanto era emerso dagli atti di causa e secondo quanto previsto nell’Atto di Intesa Stato-Regioni, non avevano la funzione di coordinare le attività dei servizi assegnati né il personale appartenente allo stesso;
4. ricorrono per la cassazione della sentenza i dipendenti sulla base di quattro motivi di ricorso;
5. l’Azienda Ospedaliera di Rilievo Nazionale “*****” ha resistito con controricorso.
CONSIDERATO
che:
1. con il primo motivo i ricorrenti denunciano, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, la violazione degli artt. 116 e 132 c.p.c., nonché dell’art. 111 Cost., comma 6, per omesso esame delle prove;
censurano la sentenza impugnata per aver ignorato il materiale probatorio acquisito in atti e per aver analizzato solo alcune dichiarazioni dei testi, stravolgendone, a parere dei ricorrenti, il significato e dalle quali emergeva invece la piena fondatezza delle pretese;
deducono, inoltre, l’illogicità della motivazione della sentenza impugnata, determinata dall’erronea valutazione delle prove;
2. il motivo non è fondato;
2.1. si osserva innanzitutto che in tema di ricorso per cassazione, la censura circa la violazione dell’art. 116 c.p.c., è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (cfr., tra le più recenti, Cass., Sez. Un., 27 dicembre 2019, n. 34474; Cass. 30 settembre 2020, n. 20867; Cass. 9 giugno 2021, n. 16016);
2.2. per il resto, le doglianze, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione di legge e dell’error in procedendo, censurano l’accertamento di fatto compiuto dalla Corte territoriale come riportato nello storico di lite e inammissibilmente propongono una diversa valutazione del materiale probatorio;
2.3. anche laddove è formalmente denunciato il vizio di omesso esame delle prove, i ricorrenti nella sostanza criticano la sufficienza del ragionamento logico posto dal giudice di merito a base dell’interpretazione degli elementi probatori del processo e, in sostanza, nella richiesta di una diversa valutazione degli stessi, ipotesi integrante un vizio motivazionale non più proponibile in seguito alla modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, apportata dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito in L. n. 134 del 2012;
ed infatti, secondo la rigorosa interpretazione di cui a Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054, non è più consentito denunciare un vizio di motivazione se non quando esso dia luogo, in realtà, ad una vera e propria violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 (ciò si verifica soltanto in caso di mancanza grafica della motivazione, di motivazione del tutto apparente, di motivazione perplessa od oggettivamente incomprensibile, oppure di manifesta e irriducibile sua contraddittorietà e sempre che i relativi vizi emergano dal provvedimento in sé, esclusa la riconducibilità in detta previsione di una verifica sulla sufficienza e razionalità della motivazione medesima mediante confronto con le risultanze probatorie);
2.4. nella specie è pienamente comprensibile oltre che coerente l’iter logico seguito dalla Corte territoriale, fondato sulla tipologia delle mansioni in concreto svolte dai ricorrenti, sull’individuazione della qualifica rivendicata nonché delle mansioni ad essa riconducibili in base alle declaratorie del c.c.n.l., sull’esame comparativo dei risultati di tali indagini attraverso un adeguato vaglio di corrispondenza anche alla luce delle testimonianze contenute nei verbali di udienza relativi ad altri contenzioni con lo stesso oggetto (la cui produzione era stata autorizzata dal giudice di prime cure);
3. con il secondo motivo denunciano l’omesso esame circa un fatto decisivo e controverso per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5;
deducono la nullità della sentenza per non aver considerato il ruolo effettivamente svolto del medico di centrale operativa, così come risultante dall’escussione dei testi;
sostengono il ruolo marginale e residuale assunto in concreto dal medico di centrale e che questo avrebbe comportato, come logica deduzione, il riconoscimento della diretta responsabilità dei ricorrenti in ogni singolo intervento gestito dall’unità;
4. il motivo è inammissibile;
4.1. anche in questo caso le doglianze non corrispondono a quelle ora formulabili alla luce del nuovo art. 360 c.p.c., n. 5;
4.2. secondo la già citate Sezioni Unite (Cass. nn. 8053 e 8054 del 2014), l’omesso esame deve riguardare un fatto (inteso nella sua accezione storico-fenomenica e, quindi, non un punto o un profilo giuridico) principale o primario (ossia costitutivo, impeditivo, estintivo o modificativo del diritto azionato) o secondario (cioè dedotto in funzione probatoria);
ma il riferimento al fatto secondario non implica che possa denunciarsi ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, anche l’omesso esame di determinati elementi probatori: basta che il fatto sia stato esaminato, senza che sia necessario che il giudice abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie emerse all’esito dell’istruttoria come astrattamente rilevanti;
a sua volta deve trattarsi di un fatto (processualmente) esistente, per esso intendendosi non un fatto storicamente accertato, ma un fatto che in sede di merito sia stato allegato dalle parti: tale allegazione può risultare già soltanto dal testo della sentenza impugnata (e allora si parlerà di rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza del dato extra-testuale);
sempre le S.U. precisano gli oneri di allegazione e produzione a carico del ricorrente ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4: il ricorso deve indicare chiaramente non solo il fatto storico del cui mancato esame ci si duole, ma anche il dato testuale (emergente dalla sentenza) o extra-testuale (emergente dagli atti processuali) da cui risulti la sua esistenza, nonché il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti e spiegarne, infine, la decisività;
l’omesso esame del fatto decisivo si pone, dunque, nell’ottica della sentenza n. 8053/14, come il “tassello mancante” (così si esprimono le S.U.) alla plausibilità delle conclusioni cui è pervenuta la sentenza rispetto a premesse date nel quadro del sillogismo giudiziario;
4.3. invece, con il mezzo in disamina, si suggerisce esclusivamente una rivisitazione del materiale istruttorio (e così della circostanza, asseritamente rilevante, della presenza solo sporadica del medico di centrale), affinché se ne fornisca una valutazione diversa da quella accolta dalla sentenza impugnata;
ma non può il ricorso per cassazione enucleare vizi di motivazione dal mero confronto tra le risultanze di causa, vale a dire attraverso un’operazione che suppone un accesso diretto agli atti e una loro delibazione non consentiti in sede di legittimità (v. Cass., Sez. Un., n. 8053/2014 cit.).
4.4. la Corte territoriale, peraltro, ha chiaramente valorizzato le circostanze (comunque assorbenti) che gli appellanti dovessero seguire protocolli predefiniti, che limitati margini di discrezionalità fossero ravvisabili nell’attribuzione del codice di intervento, che non risultassero provate funzioni di coordinamento ovvero di impulso propositivo con partecipazione alla programmazione dell’organizzazione del lavoro altrui;
5. con il terzo motivo i ricorrenti lamentano la violazione o falsa applicazione dell’allegato 1 del contratto collettivo sanità del 7 aprile 1999 “anche in combinato disposto con l’art. 13 del medesimo e in relazione agli artt. 1362 e 1363 c.c.” – art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3;
censurano la sentenza impugnata per non aver rispettato le operazioni interpretative necessarie per qualificare le mansioni dei ricorrenti adeguatamente;
sostengono, in particolare, che la Corte territoriale avrebbe dovuto considerare i profili caratterizzanti la qualifica richiesta, operare un raffronto con le mansioni concretamente svolte ed analizzare, sul piano probatorio, la gradazione dell’attività corrispondente al modello contrattuale invocato rispetto a quello attribuito;
assumono, inoltre, che i giudici di appello avrebbero trascurato gli indici di responsabilità, autonomia decisionale e di specializzazione, indici considerati determinanti per inquadrare i ricorrenti nella categoria DS;
6. il motivo è infondato;
6.1. come già ritenuto da Cass. 28 agosto 2018, n. 21258 e da Cass. 16 febbraio 2021, n. 4039 in casi del tutto analoghi “va… osservato che l’art. 13 del c.c.n.l. del Comparto sanità del 7.4.1999 (non modificato dalla contrattazione collettiva successiva, cfr. art. 8 del c.c.n.l. 19.4.2004), dopo avere precisato che il sistema di classificazione del personale è articolato in quattro categorie denominate, rispettivamente, A, B, C e D e che nell’ambito della categoria D è prevista l’individuazione delle posizioni organizzative di cui agli artt. 20 e seguenti, rinvia per la individuazione delle categorie e dei profili all’Allegato 1, precisando che i diversi profili all’interno di ciascuna categoria possono anche essere collocati su livelli economici differenti, definiti come “super” e che i profili ivi collocati assumono la denominazione di “‘specializzato” o di “esperto”; l’Allegato 1 del c.c.n.l. 7.04.1999 (come modificato dall’allegato 1 c.c.n.l. integrativo 20.09.2001 e dall’allegato 1 c.c.n.l. 19.04.2004), come detto richiamato dall’art. 13, inquadra nell’ambito della categoria D (…) i lavoratori che ricoprono posizioni di lavoro che richiedono, oltre a conoscenze teoriche specialistiche e/o gestionali in relazione ai titoli di studio e professionali conseguiti, autonomia e responsabilità proprie, capacità organizzative, di coordinamento e gestionali caratterizzate da discrezionalità operativa nell’ambito di strutture operative semplici previste dal modello organizzativo aziendale”; “nell’ambito della categoria D” – prosegue ancora il menzionato precedente – “la posizione di livello economico super DS (…) e’, invece, attribuita ai lavoratori che ricoprono posizioni di lavoro che, oltre alle conoscenze teoriche specialistiche e/o gestionali” in relazione ai titoli di studio e professionali conseguiti, richiedono “a titolo esemplificativo e anche disgiuntamente” autonomia e responsabilità dei risultati conseguiti, ampia discrezionalità operativa nell’ambito delle strutture operative di assegnazione, funzioni di direzione e coordinamento, gestione e controllo di risorse umane, coordinamento di attività didattica, iniziative di programmazione e proposta”, con “livelli di autonomia e di responsabilità di pari ampiezza” che “sono ribaditi, in sintonia con la declaratoria generale della categoria D livello DS, anche nella descrizione del profilo professionale DS (programmazione nell’ambito dell’attività di organizzazione dei servizi sanitari la migliore utilizzazione delle risorse umane in relazione agli obiettivi assegnati e verifica dell’espletamento delle attività del personale medesimo, collaborazione alla formulazione dei piani operativi e dei sistemi di verifica della qualità ai fini dell’ottimizzazione dei servizi sanitari, coordinamento delle attività didattiche tecnico-pratiche e di tirocinio, di formazione del personale appartenente ai profili sanitari a lui assegnate, assunzione di responsabilità diretta per le attività professionali cui è preposto, formulazione delle proposte operative per l’organizzazione del lavoro nell’ambito dell’attività affidatagli)”, laddove “in coerenza con la declaratoria generale della categoria D, il profilo professionale del Collaboratore professionale sanitario è definito come quello proprio del lavoratore che svolge le attività attinenti alla sua competenza professionale specifica – comprese funzioni di carattere strumentale quali, ad esempio, la tenuta di registri – nell’ambito delle unità operative semplici, all’interno delle quali coordina anche l’attività del personale addetto; predispone i piani di lavoro nel rispetto dell’autonomia operativa del personale assegnato e delle esigenze del lavoro di gruppo; collabora all’attività didattica nell’ambito dell’unità operativa e, inoltre, può essere assegnato, previa verifica dei requisiti, a funzioni dirette di tutor in piani formativi”;
6.2. i suddetti dati analitici consentono di affermare che correttamente la Corte territoriale abbia sinteticamente individuato il tratto che connota le mansioni proprie del livello DS nell’ampiezza della discrezionalità, nella responsabilità per i risultati conseguiti, nella direzione e il controllo delle risorse umane e nei poteri di programmazione, profili di cui essa ha accertato l’insussistenza che è posta a base del rigetto della domanda;
6.3. corretto è stato anche il procedimento logico giuridico seguito dalla Corte territoriale ai fini della verifica richiesta, sviluppato nelle tre fasi dell’accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, dell’individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e del raffronto tra il risultato della prima indagine ed i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda (cfr., fra le tante, Cass. 12 maggio 2006, n. 11037; Cass. 28 maggio 2015, n. 8589; Cass. 30 marzo 2016, n. 6174; Cass. 27 settembre 2016, n. 18943; Cass. 4 ottobre 2017, n. 23180);
si è precisato che l’osservanza dell’anzidetto criterio “trifasico” non richiede che il giudice si attenga pedissequamente alla rigida e formalizzata sequenza delle azioni fissate dallo schema procedimentale, essendo sufficiente che ciascuno dei momenti di accertamento, di ricognizione e di valutazione trovi ingresso nel ragionamento decisorio (Cass. n. 18943/2016 cit.);
solo ove una delle predette fasi venga omessa, o comunque della stessa non si dia conto nella sentenza impugnata (situazioni, queste, insussistenti nel caso di specie), è configurabile il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, perché l’omissione si risolve nell’errata applicazione dell’art. 2103 c.c. o, per l’impiego pubblico contrattualizzato, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 (v. Cass. n. 11037/2006 cit. e, fra le più recenti, Cass. 15 gennaio 2018. n. 752);
6.4. risulta poi priva di pregio l’ulteriore insistenza dei ricorrenti, anche nel contesto del motivo qui in esame, su asseriti errori processuali o di valutazione della posizione del medico di centrale, per le ragioni già sopra espresse;
7. con il quarto motivo lamentano la violazione o falsa applicazione dell’art. 10, comma 3, del c.c.n.l. Sanità del 20 settembre 2001 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonché la violazione degli artt. 1362 c.c. e segg., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, e l’omesso esame di circostanze decisive per la controversia;
i ricorrenti censurano il ragionamento della Corte nell’aver trascurato la circostanza che al medico di centrale operativa non era attribuita alcuna responsabilità in materia di coordinamento;
sostengono che la Corte ha confuso la figura del coordinamento della gestione dell’intervento con responsabilità esclusiva dell’operatore con quella di coordinamento amministrativo tipico del Caposala, che non riguarda i ricorrenti;
sostengono che in base alla interpretazione data dalla giurisprudenza all’art. 10 c.c.n.l. Sanità 2001 debba riconoscersi l’indennità in questione, anche in considerazione dell’Atto di Intesa Stato-Regioni ove è stabilito che la Centrale Operativa assume il coordinamento di tutti gli interventi;
8. il motivo è infondato;
8.1. premesso che, secondo la citata Cass. 21258/2018, “l’indennità di coordinamento di cui agli artt. 8 e 10 del c.c.n.l. Comparto Sanità del 2001 non può essere riconosciuta al personale già inquadrato nel livello D alla data di entrata in vigore della contrattazione collettiva, se non vi è stato l’effettivo svolgimento delle mansioni correlate a detto emolumento, costituendo l’attività di coordinamento una funzione autonoma e distinta dalle altre che connotano la categoria di appartenenza”, è evidente che la Corte territoriale, ritenendo appunto che mancasse il requisito del coordinamento, non ha per nulla violato quella previsione;
8.2. in realtà il motivo, attraverso la reiterazione della contraria opinione secondo cui l’attività di coordinamento vi sarebbe stata, consta ancora una volta nell’inammissibile riproposizione, sotto l’apparente profilo della violazione di norme negoziali, di una diversa lettura dei dati istruttori e di merito; ciò anche senza contare che il riconoscimento dell’indennità di coordinamento al personale sanitario inquadrato in categoria D presuppone, secondo la costante interpretazione fornita da questa Corte dell’art. 10, comma 3, del c.c.n.l. in esame, che del conferimento dello specifico incarico di coordinamento o della sua verifica con atto formale, in sede di prima applicazione, vi sia traccia documentale, sulla base di assegnazione proveniente da coloro che avevano il potere di conformare la prestazione lavorativa del dipendente e che abbia ad oggetto le attività dei servizi di assegnazione nonché del personale (Cass. 27 aprile 2010, n. 10009 e poi le successive Cass. 22 settembre 2015, n. 18679; Cass. 28 maggio 2019, n. 14507; Cass. 20 febbraio 2020, n. 4386) mentre, successivamente, dopo la fase di prima applicazione (che qui rileva), è necessaria la ricorrenza di specifici requisiti di anzianità e la rispondenza ad ulteriori criteri da fissarsi a cura delle Aziende (Cass. 18 maggio 2018, n. 12339; Cass. 8 giugno 2021, n. 15955), ovverosia di elementi tutti di cui non vi è traccia nel motivo;
9. il ricorso va quindi complessivamente disatteso;
10. la regolazione delle spese segue la soccombenza;
11. occorre dare atto, ai fini e per gli effetti indicati da Cass., Sez. Un., n. 4315/2020, della sussistenza delle condizioni processuali richieste dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma-1 quater.
PQM
La Corte rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti al pagamento, in favore del l’Azienda controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per compensi professionali oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 12 ottobre 2021.
Depositato in Cancelleria il 27 dicembre 2021
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