Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.433 del 13/01/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Presidente –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20910-2015 proposto da:

C.P., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato MASSIMILIANO CESARE FORNARI;

– ricorrente –

Contro

B.M., e B.R., nella qualità di eredi di B.V., elettivamente domiciliati in ROMA VIA TARANTO 21, presso lo studio dell’Avvocato FRANCESCO TROPEPI, che li rappresenta e difende;

– controricorrenti –

RILEVATO

che la Corte di Appello di Roma, con sentenza pubblicata il 20.4.2015, ha accolto il gravame interposto da B.V., nei confronti di C.P., avverso la pronunzia del Tribunale di Latina n. 2006/2010, resa in data 8.6.2010, con la quale era stato integralmente accolto il ricorso della C. diretto ad ottenere – previo accertamento di un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno ed indeterminato tra le parti, con decorrenza dal gennaio 1996 al dicembre 2000 (nonostante formali assunzioni a termine), con assegnazione alla lavoratrice di mansioni di bracciante addetta alla preparazione dei fondi, alla cura dei vigneti e degli oliveti per l’azienda agricola familiare di V.B., nonchè di lavoratrice domestica alle dipendenze di quest’ultima, con orario 7.30/12.30 – 13.00/16.00 per sette giorni alla settimana – la condanna della datrice di lavoro al pagamento della somma di Euro 68.100,15 a titolo di differenze retributive per ferie non godute, straordinari, mensilità supplementari e TFR, oltre accessori, come per legge, conformemente ai conteggi analitici allegati al ricorso;

che la Corte di merito, pertanto, ha respinto l’originaria domanda della lavoratrice, essendo emerso “un quadro probatorio complessivo totalmente contraddittorio e non altrimenti componibile in una prova sufficientemente certa in ordine ad un inserimento stabile nell’organizzazione aziendale tale da rendere il prestatore di lavoro continuativamente obbligato a porre le proprie prestazioni lavorative secondo le esigenze del datore di lavoro (analogamente per quanto concerne il lavoro domestico)”;

che per la cassazione della sentenza ricorre C.P. sulla base di un motivo contenente più censure, cui resistono con controricorso B.M. e B.R., in qualità di eredi di B.V., deceduta medio tempore;

che il P.G. non ha formulato richieste.

CONSIDERATO

che, con il ricorso, si censura, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la “violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 345 c.p.c.”; in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n 4, , la “nullità della sentenza o del procedimento per violazione dell’art. 132 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione sul punto decisivo della controversia”, perchè la Corte territoriale ha ritenuto, sul presupposto che l’acquisizione documentale fosse legittima, perchè indispensabile per la decisione, che “la produzione documentale effettuata dall’appellante comportasse l’inattendibilità dei testi escussi nel processo di primo grado ed invalidasse le argomentazioni poste a base dell’accoglimento del ricorso da parte del Tribunale”, senza avere riguardo al disposto dell’art. 345 c.p.c., ai sensi del quale “Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che la parte dimostri di non avere potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile…”; ed inoltre, perchè, nel caso di specie, l’interpretazione della domanda, da parte dei giudici di seconda istanza, ha “determinato un vizio riconducibile alla violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) o a quello del tantum devolutum quantum appellatum (art. 345 c.p.c.)”;

che il motivo è inammissibile sotto diversi e concorrenti profili: innanzitutto perchè solleva un coacervo di censure senza il rispetto del canone della specificità del motivo, che determina, nella parte argomentativa dello stesso, la difficoltà di scindere le ragioni poste a sostegno dell’uno o dell’altro vizio e, dunque, di effettuare puntualmente l’operazione di interpretazione e di sussunzione delle censure (al riguardo, tra le molte, Cass. nn. 21239/2015, 7394/2010, 20355/2008, 9470/2008); al riguardo, va sottolineato che le Sezioni Unite di questa Corte, dinanzi ad un motivo di ricorso che conteneva censure astrattamente riconducibili ad una pluralità di vizi tra quelli indicati nell’art. 360 c.p.c., hanno ribadito la stigmatizzazione di tale tecnica di redazione del ricorso per cassazione, evidenziando “la impossibilità di convivenza in seno al medesimo motivo di ricorso, di censure caratterizzate da irrimediabile eterogeneità” (Cass., S.U., nn. 17931/2013, 26242/2014); ed inoltre, in quanto, relativamente alla censura che attiene alla “violazione di legge”, la parte ricorrente non ha indicato sotto quale profilo le norme menzionate sarebbero state incise, in spregio alla prescrizione di specificità dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che esige che il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, comma 1, n. 3 codice di rito, debba essere dedotto, a pena di inammissibilità, mediante la puntuale indicazione delle disposizioni asseritamente violate ed altresì con specifiche argomentazioni intese motivatamente a dimostrare in quale modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in contrasto con le disposizioni regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le molte, Cass., Sez. VI, ord. nn. 187/2014; 635/2015; Cass. nn. 19959/2014; 18421/2009); pertanto, le doglianze mosse al procedimento di sussunzione operato dai giudici di seconda istanza si risolvono in considerazioni di fatto del tutto inammissibili e sfornite di qualsiasi delibazione probatoria (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 24374/2015; 80/2011);

che, infine, nella fattispecie, si dibatte della prova di un fatto già ritualmente allegato in primo grado ed in quella sede ritenuto dimostrato sulla base di elementi delibatori che i giudici di seconda istanza hanno reputato di non sicura valenza – ed altresì oggetto di contestazione da parte della datrice di lavoro -, tanto da accogliere la richiesta di una nuova prova idonea a dissipare ogni possibile incertezza (nella specie, si tratta dell’acquisizione di “due prospetti del Centro per l’Impiego di Latina relativi ai periodi lavorativi dei due testi escussi in primo grado”, dai quali risulta che gli stessi “per svariati mesi all’anno, lavorando altrove, non potevano aver lavorato insieme alla C. ovvero non potevano averla vista lavorare nel fondo della B.”, come, invece, dai medesimi dichiarato dinanzi al primo giudice; che, peraltro, il compito di valutare le prove e di controllarne l’attendibilità e la concludenza spetta in via esclusiva al giudice di merito; per la qual cosa, “la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata, per omessa, errata o insufficiente valutazione delle prove non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito” (cfr., ex multis, Cass., S.U., n. 24148/2013; Cass. nn. 14541/2014; 2056/2011); e, nella fattispecie, la Corte distrettuale è pervenuta alla decisione impugnata attraverso un percorso motivazionale condivisibile e scevro da vizi logico-giuridici circa la valutazione degli elementi delibatori posti a base della stessa, mentre le censure sollevate, al riguardo, dalla lavoratrice appaiono, all’evidenza, finalizzate ad una nuova valutazione degli elementi di fatto, attraverso la mera contestazione dei predetti elementi;

che per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso va respinto;

che le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;

che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, secondo quanto specificato in dispositivo.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 11 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2021

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