Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.440 del 13/01/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28779-2014 proposto da:

R.M.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PORTUENSE 104, presso ANTONIA DE ANGELIS, rappresentata e difesa dall’avvocato GIAMPIERO DE LUCA;

– ricorrente –

contro

PROVINCIA REGIONALE DI CATANIA (oggi CITTA’ METROPOLITANA DI CATANIA), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANTONIO MORDINI 14, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO SPINOSO, rappresentata e difesa dagli avvocati ENRICO GUARNERA, MARIA GIUSEPPA FRONTINO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 479/2014 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 30/05/2014 R.G.N. 1146/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/10/2020 dal Consigliere Dott. ROBERTO BELLE’;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MASTROBERARDINO PAOLA, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato GIAMPIERO DE LUCA;

udito l’Avvocato ANTONIO SPINOSO per delega verbale Avvocato MARIA GIUSEPPA FRONTINO.

FATTI DI CAUSA

1. Tra R.M.G. e la Provincia Regionale di Catania è intervenuto verbale di conciliazione presso la D.P.L., con il quale l’Amministrazione ha riconosciuto, a titolo transattivo e fatti “salvi i poteri di autoorganizzazione” della P.A., con decorrenza dalla data della stessa transazione, l’inquadramento della lavoratrice, già dipendente dell’ente, nella migliore categoria D1, posizione economica D2.

Il provvedimento di inquadramento provvisorio in soprannumero assunto consequenzialmente dalla P.A. è stato poi revocato in autotutela dalla stessa. Da ciò sono seguiti due procedimenti giudiziari.

Con il presente giudizio la R. ha chiesto l’accertamento del proprio diritto e la pronuncia di sentenza costitutiva del rapporto, sulla base del verbale di conciliazione o, in subordine, la condanna della P.A. all’inquadramento predetto ed al pagamento delle differenze stipendiali, oltre al risarcimento del danno.

La Corte d’Appello di Catania ha riformato la sentenza del Tribunale della stessa città favorevole alla lavoratrice ed ha quindi rigettato le sue domande, argomentando sul fatto che legittimamente la P.A. aveva ritirato in autotutela l’atto di reinquadramento, in quanto essa non avrebbe potuto, ai sensi della L. n. 80 del 2006, art. 13 instaurare rapporti tali da determinare situazioni di soprannumerarietà.

La Corte di merito rilevava altresì come all’art. 29, comma 4 del CCNL stabilisse espressamente che gli enti dovevano prevedere in dotazione il numero dei posti dei profili in questione, sulla base di concertazione sindacale, con accesso poi in forza verifica selettiva, norme anch’esse che erano previste imperativamente per le P.A. e di cui il verbale di conciliazione avrebbe determinato l’aggiramento.

Il verbale di conciliazione – affermava quindi la Corte di merito – era gravato da “nullità e/o inefficacia” in quanto stipulato in contrasto con le norme inderogabili predette, “aventi rilevanza di ordine pubblico” e pertanto la P.A. era incorsa in errore nel darvi originariamente attuazione e viceversa aveva poi correttamente rimosso quanto illegittimamente disposto.

2. Avverso tale sentenza la R. ha proposto ricorso per cassazione con cinque motivi, resistiti dalla Provincia di Catania con controricorso.

3. Contemporaneamente alla presente causa, la R. ha posto in esecuzione, nelle forme di cui all’art. 612 c.p.c., il medesimo verbale, quale titolo esecutivo.

Avverso tale esecuzione la Provincia ha proposto opposizione, rigettata dal Tribunale, con pronuncia pacificamente passata in giudicato successivamente alla proposizione del ricorso per cassazione.

Il Tribunale, pur riconoscendo l’infungibilità e quindi l’ineseguibilità in forma specifica, aveva affermato l’impossibilità per la P.A. di revocare o disattendere il verbale di conciliazione.

Nella memoria in vista della fase camerale la ricorrente ha prodotto i documenti relativi al predetto giudicato, al fine di farne valere gli effetti preclusivi a suo dire sussistenti rispetto alla decisione della presente causa.

4. Il giudizio, dapprima destinato alla trattazione camerale, è stato quindi rimesso alla pubblica udienza.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, la ricorrente sostiene la violazione dell’art. 11 disp. gen., nonchè la violazione e falsa applicazione del D.L. n. 4 del 2006, art. 11 conv. in L. n. 80 del 2006 (art. 360 c.p.c., n. 3) censurando la sentenza impugnata per aver respinto la domanda in applicazione della L. n. 80 del 2006, laddove il diritto all’inquadramento superiore era stato acquisito in forza della transazione in data 6 dicembre 2005, stipulata anteriormente alla data di entrata in vigore di essa.

Il secondo motivo afferma ancora la violazione e falsa applicazione dell’art. 11 D.L. 80 cit. in quanto norma destinata a regolare la macrorganizzazione della P.A. e non certo un atto gestionale di microrganizzazione, quale era l’avanzamento di categoria della ricorrente, cui esclusivamente aveva avuto riguardo il verbale di conciliazione.

Con il terzo motivo è invece affermata la violazione e falsa applicazione dell’art. 29 del c.c.n.l. Regioni ed Autonomie Locali del 14.9.2000, dell’art. 1418 c.c., nonchè del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2 (art. 360 c.p.c., n. 3) per avere la Corte erroneamente ritenuto, indebitamente accomunandola all’art. 11 cit., l’imperatività della norma contrattuale.

Il quarto motivo censura invece, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, l’omesso esame di fatti decisivi, con riferimento all’avere la Corte territoriale ritenuto la ricorrenza di due elementi della situazione di soprannumerarietà, di cui all’art. 11 cit., che invece non sussistevano, dati dal fatto che la soprannumerarietà vietata dalla norma doveva verificarsi in sede di determinazione della dotazioni organiche e dunque in occasione di un qui inesistente atto di macroorganizzazione e dal fatto che non ricorreva il presupposto della presenza di vacanze di organico, di cui alla norma stessa. La R. aggiungeva altresì che la Corte territoriale aveva omesso di considerare come al funzionario preposto alla definizione conciliativa erano stati prodotti gli atti formali da cui emergeva il possesso da parte della ricorrente dei requisiti utili al passaggio d’ufficio, richiesto e concesso dietro contestuali rinunce economiche, e ciò a confutazione dell’assenza della verifica dei requisiti selettivi richiesta dalla norma collettiva.

Infine, per il caso di accoglimento dei motivi di impugnazione, la R. manifestava l’intento di riproporre quanto sostenuto con l’appello incidentale in merito al proprio diritto ad ottenere sentenza costitutiva del rapporto nei termini e con la qualifica disconosciuti dalla controparte.

2. Rispetto all’esame dei motivi è logicamente preliminare la questione sul sopravvenuto giudicato, su cui fa leva la memoria difensiva della R..

2.1 Va anzi premesso che il formarsi del preteso giudicato in epoca successiva alla proposizione del ricorso consente di far valere lo stesso attraverso le memorie di cui all’art. 372 c.p.c. (Cass., S.U., 16 giugno 2006, n. 13916), come è avvenuto.

2.2 Ciò posto, la sentenza del Tribunale di Catania resa in sede di opposizione a precetto afferma che il verbale di conciliazione sottoscritto dalla P.A. “in nessun caso… può essere revocato o disatteso dall’amministrazione parte dell’accordo”.

Il senso della pronuncia non è però quello, propugnato in sostanza dalla ricorrente, di un’affermazione della validità in ogni caso della transazione.

Ad interpretare correttamente quel giudicato va infatti valorizzato il contesto motivazionale in cui esso si inserisce, rilevandosi come quell’affermazione segua immediatamente l’altra con cui il Tribunale precisava come “gli effetti del verbale di conciliazione sono identici a quelli per l’impiego privato, ex art. 2113 c.c. non escluso dall’applicazione alla conciliazione nel pubblico impiego”.

Se ne desume pianamente che quanto sostenuto dal Tribunale di Catania è soltanto che la P.A. in nessun caso poteva revocare o disattendere gli effetti di quell’atto in virtù di poteri unilaterali di imperio, in quanto gli effetti di un verbale di conciliazione sono i medesimi propri, sotto il profilo obbligatorio per l’ente pubblico, di quelli che esso rivestirebbe in un rapporto di natura esclusivamente privatistica.

Viceversa, il decisum non può essere inteso come tale da far ritenere sottratto il verbale di conciliazione a verifiche rispetto alla sua validità, per il solo fatto di essere stato sottoscritto.

Questa Corte (Cass. 23 ottobre 2017, n. 25020) ha del resto già affermato che “la inoppugnabilità prevista dall’art. 2113 c.c., u.c. non si riferisce alle azioni generali di nullità e di annullabilità dell’atto, perchè (…) l’intervento dell’ufficio provinciale del lavoro è finalizzato a sottrarre il lavoratore alla condizione di soggezione rispetto al datore di lavoro, che potrebbe indurre a sottoscrivere transazioni e rinunce frutto della prevaricazione esercitata dal datore. Rimangono, invece, esperibili i mezzi ordinari di impugnazione concessi ai contraenti per far valere i vizi che possono inficiare il regolamento contrattuale, ossia le cause di nullità o di annullabilità, poichè rispetto a tali azioni l’intervento dell’ufficio provinciale del lavoro non può esplicare alcuna efficacia sanante o impeditiva”, sottolineandosi in tale pronuncia come “ad analoghe conclusioni questa Corte è pervenuta in relazione alle conciliazioni stipulate ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 66 rilevando che delle stesse può essere senz’altro fatta valere la nullità qualora in sede conciliativa l’amministrazione abbia, in violazione di norme inderogabili di legge, riconosciuto al dipendente un trattamento giuridico ed economico allo stesso non dovuto (Cass. 18.2.2015 n. 3246)”.

3. Ciò posto, i motivi di cui al ricorso per cassazione possono essere esaminati congiuntamente e vanno disattesi, sebbene con le precisazioni motivazionali che seguono.

L’assunzione, come anche il migliore posizionamento categoriale, sono vincolate al rispetto della struttura organizzativa della P.A. e delle c.d. piante organiche, che di essa sono espressione (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 6, comma 1, primo periodo, nel testo vigente all’epoca dei fatti) e la cui definizione, secondo la disciplina del tempo, prevedeva la previa “consultazione” delle organizzazioni sindacali (poi divenuta mera “informazione”, a partire dal D.L. n. 95 del 2012).

L’art. 29 del c.c.n.l., quale richiamato dalla Corte territoriale, prevedendo che la collocazione dei dipendenti nel profilo rivendicato dovesse seguire, in coerenza con la concertazione sindacale, le apposite previsioni organiche, riprende in sostanza tale assetto, ma è dalle norme primarie che deriva il principio imperativo, in quanto afferente alla stessa riserva di legge nell’organizzazione dei pubblici uffici (art. 97 Cost.).

Non è dunque attraverso un negozio privatistico di conciliazione che la P.A. può modificare il proprio assetto organizzativo inserendo un’unità di personale eccedente rispetto alla pianta organica esistente.

Da ciò, come giustamente afferma la Corte territoriale, deriva la nullità del verbale di conciliazione, perchè tale da prevedere l’inserimento senza condizioni della R. nella posizione rivendicata, con effetto fin dalla data della sottoscrizione, pur nella (poi) constatata assenza di posti liberi.

Più di recente, con la c.d. Riforma Madia, sono state apportate modifiche al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 6 che spostano il baricentro, con finalità di maggiore flessibilizzazione, verso un più elastico piano dei fabbisogni. Tale normativa non è applicabile ratione temporis e peraltro non permette anch’essa di alterare l’assetto dei pubblici uffici sulla base di un atto meramente negoziale, dovendosi comunque assicurare coerenza tra quel piano, soggetto a proprie regole sostanziali e procedurali, e quando in ipotesi previsto negozialmente tra la P.A. ed il singolo lavoratore.

4. D’altra parte, a fronte di un negozio nullo, la P.A. è tenuta a non darvi esecuzione, in esercizio di facoltà di mero diritto privato che anzi in ambito pubblicistico assume evidenti connotati di doverosità, senza che vi sia luogo a parlare di inesistenti volontà unilaterali di svincolarsi dal contratto o di poteri autoritativi, anche di autotutela (Cass. 25 giugno 2019, n. 17002; Cass. 31 maggio 2017, n. 13800).

Questa Corte ha del resto già affermato, con orientamento cui si intende assicurare continuità, che la P.A. è legittimata a far valere la nullità delle obbligazioni eventualmente assunte all’esito di un tentativo di conciliazione, astenendosi dal dare attuazione a transazioni con le quali, in violazione di norme inderogabili di legge, sia stato riconosciuto al dipendente un trattamento giuridico ed economico non dovuto (Cass. 25020/2017 cit.; Cass. 3246/2015 cit.).

5. Tutto ciò, oltre a far riconoscere la sostanziale correttezza del ragionamento della Corte territoriale rispetto a quanto previsto (in linea con il D.Lgs. n. 165 cit., art. 6) dalla contrattazione collettiva del tempo (con reiezione quindi del terzo motivo), rende superfluo il riferimento alla portata da attribuire al D.L. n. 4 del 2006 cit., art. 11 in quanto comunque l’imperatività del rispetto delle piante organiche deriva dall’insieme della disciplina normativa esistente.

Ne deriva altresì l’ininfluenza dl primo, del secondo e del quarto motivo di ricorso, che sono quindi parimenti da disattendere, così come superflue divengono le argomentazioni finali svolte dalla ricorrente per il caso di accoglimento dei motivi.

La decisione resta dunque orientata in senso analogo a quanto già stabilito, rispetto alla medesima vicenda sostanziale, ma per altri lavoratori, da Cass. 2 dicembre 2019, n. 31380.

6. All’integrale reiezione del ricorso segue la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15 ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 14 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2021

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