Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.451 del 13/01/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 34760/2018 R.G. proposto da:

C.L., rappresentata e difesa dall’Avv. Filippo Ungari Trasatti, con domicilio eletto in Roma, via Arno, n. 88;

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO DELLA ***** S.R.L. in liquidazione, in persona del curatore p.t. Dott. B.M., rappresentato e difeso dall’Avv. Paola Matrundola, con domicilio eletto in Roma, via Po, n. 45;

– controricorrente –

avverso il decreto del Tribunale di Roma depositato il 7-1 novembre 2018.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21 ottobre 2020 dal Consigliere Guido Mercolino.

RILEVATO

che la Dott.ssa C.L. ha proposto ricorso per cassazione, per due motivi, illustrati anche con memoria, avverso il decreto del 6 novembre 2018, con cui il Tribunale di Roma ha rigettato l’opposizione da lei proposta avverso lo stato passivo del fallimento della ***** S.r.l., ed avente ad oggetto l’ammissione al passivo, in via privilegiata ai sensi dell’art. 2751-bis c.c., n. 2, di un credito di Euro 70.215,75, oltre interessi, per prestazioni d’opera professionale svolte in favore della società fallita;

che il curatore del fallimento ha resistito con controricorso.

CONSIDERATO

che con il primo motivo d’impugnazione la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2697 e 2712 c.c., e del D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 20, comma 1-bis, nonchè l’insufficienza e la contraddittorietà della motivazione del decreto impugnato, osservando che, nel ritenere non provato il conferimento dell’incarico professionale, il Tribunale non ha tenuto conto dell’avvenuta conclusione del contratto mediante lo scambio di una lettera d’incarico con la relativa risposta scritta, entrambe prodotte in giudizio;

che, nell’escludere l’idoneità della documentazione prodotta a comprovare l’esecuzione delle prestazioni professionali, per incertezza della provenienza e della data, il Tribunale non ha considerato che si trattava di modelli rilasciati dall’INAIL e delle ricevute degli invii telematici effettuati all’INPS, ovverosia di documenti informatici, aventi l’efficacia probatoria di cui all’art. 2712 c.c., in quanto il curatore non ne aveva disconosciuto la conformità all’originale;

che il motivo è inammissibile;

che nella parte concernente la conclusione del contratto a mezzo di dichiarazioni non contestuali le predette censure non attingono la ratio decidendi del decreto impugnato, il quale non ha affatto escluso astrattamente tale possibilità, ma si è limitato a rilevare in concreto la genericità delle lettere prodotte in giudizio, non recanti la specificazione della collaborazione richiesta alla ricorrente, nonchè la mancanza di data certa delle stesse, in conseguenza dell’omessa dimostrazione della relativa spedizione, rimaste incensurate in questa sede;

che nella parte riguardante l’esecuzione delle prestazioni le censure mirano invece a sollecitare una nuova valutazione della documentazione prodotta, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di controllare la correttezza giuridica delle argomentazioni svolte nel provvedimento impugnato, nonchè la coerenza logica delle stesse, nei limiti in cui risultano censurabili con il ricorso per cassazione, a seguito dell’entrata in vigore del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, (cfr. Cass., Sez. VI, 7/12/2017, n. 29404; Cass., Sez. V, 4/08/2017, n. 19547);

che tale disposizione, sostituendo l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ne ha infatti limitato l’ambito applicativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e risulti idoneo ad orientare in senso diverso la decisione, in tal modo escludendo la possibilità di far valere in sede di legittimità l’omessa o inadeguata valutazione di elementi istruttori (cfr. Cass., Sez. II, 29/10/ 2018, n. 27415; Cass., Sez. VI, 15/05/2018, n. 11863; 10/02/2015, n. 2498; Cass., Sez. lav., 9/07/2015, n. 14324);

che, al di fuori della predetta ipotesi, il vizio di motivazione è configurabile soltanto quando l’anomalia si converte in violazione di legge, per mancanza del requisito di cui all’art. 132 c.p.c., n. 4, e quindi nelle ipotesi in cui la motivazione manchi del tutto sotto l’aspetto materiale e grafico, oppure formalmente esista come parte del documento, ma risulti meramente apparente, perplessa, o costituita da argomentazioni talmente inconciliabili da non permettere di riconoscerla come giustificazione del decisum, e tale vizio emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. Un., 7/04/2014, n. 8053 e 8054; Cass., Sez. VI, 8/10/2014, n. 21257), restando pertanto esclusa la possibilità di far valere mera insufficienza o contraddittorietà della motivazione (cfr. Cass., Sez. III, 12/10/2017, n. 23940; 20/08/2015, n. 17037; Cass., Sez. I, 4/04/ 2014, n. 7983);

che è conseguentemente inammissibile anche il secondo motivo, con cui la ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2956 e 2959 c.c., sostenendo che, nel dichiarare prescritto il credito, il decreto impugnato non ha tenuto conto della genericità dell’eccezione di prescrizione sollevata dal curatore ed accolta dal Giudice delegato, nè dell’incompatibilità dell’eccezione di prescrizione presuntiva con l’avvenuta contestazione del conferimento dell’incarico professionale;

che, nell’ambito della motivazione del decreto impugnato, la dichiarazione di prescrizione del credito si configura infatti come una ragione distinta ed autonoma di rigetto della domanda, alternativa rispetto a quella costituita dalla mancata dimostrazione del conferimento dell’incarico professionale e dell’esecuzione delle prestazioni, la cui contestazione, anche se ritenuta fondata, non potrebbe in alcun caso condurre all’accoglimento del ricorso;

che ove, infatti, il provvedimento impugnato risulti fondato su due rationes decidendi distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’inammissibilità delle censure aventi ad oggetto una delle stesse comporta il venir meno dell’interesse all’esame di quelle riguardanti l’altra, il cui accoglimento risulterebbe comunque inidoneo a determinare la cassazione del provvedimento, per effetto della definitività della prima (cfr. Cass., Sez. III, 13/06/ 2018, n. 15399; 14/02/2012, n. 2108; Cass., Sez. V, 11/05/2018, n. 11493);

che il ricorso va dichiarato pertanto inammissibile, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.

PQM

dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.100,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 100,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 21 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2021

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