LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE L
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DORONZO Adriana – Presidente –
Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –
Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –
Dott. PONTERIO Carla – rel. Consigliere –
Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 1527-2019 proposto da:
TELECOM ITALIA SPA, in persona del Procuratore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUIGI GIUSEPPE FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ARTURO MARESCA, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati FRANCO RAIMONDO BOCCIA, ENZO MORRICO, ROBERTO ROMEI;
– ricorrente –
contro
D.M., elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II 209, presso lo studio dell’avvocato LUCA SILVESTRI, rappresentato e difeso dagli avvocati FRANCESCO CIRILLO, ERNESTO MARIA CIRILLO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2923/2018 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 29/06/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 10/11/2020 dal Consigliere Relatore Dott. CARLA PONTERIO.
RILEVATO
che:
1. la Corte d’Appello di Napoli, con sentenza n. 2923 pubblicata il 29.6.2018, ha respinto l’appello di Telecom Italia s.p.a., confermando la decisione di primo grado di rigetto dell’opposizione proposta dalla suddetta società avverso il decreto ingiuntivo n. 2172/2013 emesso dal Tribunale di Napoli su ricorso di D.M., per il pagamento della retribuzione del mese di aprile 2013;
2. la Corte territoriale ha premesso che con sentenza n. 2292/2013 del Tribunale di Napoli era stata dichiarata l’illegittimità della cessione del rapporto di lavoro del D. da Telecom Italia spa a Telepost spa; che il predetto, dopo la pronuncia di tale sentenza, aveva continuato a lavorare presso la cessionaria ma nel periodo oggetto di causa (aprile 2013) era stato collocato in cassa integrazione guadagni; ha riconosciuto il diritto dell’appellato al risarcimento dei danni corrispondenti all’importo della retribuzione maturata per il mese di aprile 2013; ha escluso la detraibilità ai fini dell’aliunde perceptum delle somme percepite dal lavoratore a titolo di indennità di mobilità in ragione della natura previdenziale della stessa e della ripetibilità in ipotesi di non spettanza;
3. avverso tale sentenza Telecom Italia s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, cui ha resistito con controricorso D.M.;
4. la proposta del relatore è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c..
CONSIDERATO
che:
5. col primo motivo del ricorso Telecom Italia s.p.a. ha dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti in relazione alla condotta del D. che ha accettato la collocazione in CIGS da parte della cessionaria, nonchè la risoluzione del rapporto di lavoro (come da verbale di conciliazione trascritto e prodotto), idonea a determinare l’inammissibilità dell’avversa pretesa;
6. col secondo motivo la società ricorrente ha denunciato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, violazione dell’art. 112 c.p.c. nella parte in cui la sentenza ha riconosciuto il diritto del lavoratore al risarcimento del danno a fronte di una domanda di condanna al pagamento della retribuzione, così tramutando completamente l’azione proposta;
7. col terzo motivo ha censurato la sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione o falsa applicazione degli artt. 210 e 213 c.p.c. nella parte in cui la Corte d’appello ha ritenuto di non ammettere le prove richieste da Telecom spa; nonchè per violazione degli artt. 1223 e 1227 c.c. nella parte in cui ha rigettato l’eccezione di aliunde percipiendi;
8. i motivi di ricorso non possono trovare accoglimento;
9. il primo motivo è inammissibile per novità della questione non avendo la ricorrente allegato in quali atti processuali, che avrebbe dovuto trascrivere, e in che termini la questione sarebbe stata posta nei giudizi di merito; nè ha allegato l’impossibilità di una tempestiva introduzione della questione nei precedenti gradi di giudizio;
10. il motivo è, comunque infondato, alla luce dei principi enunciati da questa Corte in fattispecie completamente assimilabili a quella in esame;
11. si è infatti precisato come soltanto un legittimo trasferimento d’azienda comporti la continuità di un rapporto di lavoro che resta unico ed immutato, nei suoi elementi oggettivi, esclusivamente nella misura in cui ricorrano i presupposti di cui all’art. 2112 c.c. che, in deroga all’art. 1406 c.c., consente la sostituzione del contraente senza consenso del ceduto. Ed è evidente che l’unicità del rapporto venga meno qualora, come appunto nel caso di specie, il trasferimento sia dichiarato invalido, stante l’instaurazione di un diverso e nuovo rapporto di lavoro con il soggetto (già, e non più, cessionario) alle cui dipendenze il lavoratore “continui” di fatto a lavorare. D’altro canto, è insegnamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità che l’unicità del rapporto presupponga la legittimità della vicenda traslativa regolata dall’art. 2112 c.c.. Al contrario, ove sia accertata l’invalidità della cessione, il rapporto con il destinatario della stessa deve considerarsi instaurato in via di mero fatto e le vicende risolutive di quest’ultimo rapporto non possono ritenersi idonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere, rimasto in vita con il cedente. In sintesi, il trasferimento del medesimo rapporto si determina solo quando si perfeziona una fattispecie traslativa conforme al modello legale; diversamente, nel caso di invalidità della cessione (per mancanza dei requisiti richiesti dall’art. 2112 c.c.) e di inconfigurabilità di una cessione negoziale (per mancanza del consenso della parte ceduta quale elemento costitutivo della cessione), quel rapporto di lavoro non si trasferisce e resta nella titolarità dell’originario cedente (cfr. Cass. 3 luglio 2019 n. 17784; 28 febbraio 2019, n. 5998; in senso conforme, tra le altre: Cass. 18 febbraio 2014, n. 13485; Cass. 7 settembre 2016, n. 17736; Cass. 30 gennaio 2018, n. 2281, le quali hanno pure ribadito il consolidato orientamento circa l’interesse ad agire del lavoratore ceduto nonostante la prestazione di lavoro resa in favore del cessionario);
12. la sopravvivenza de iure del rapporto di lavoro con la società cedente rende quest’ultimo insensibile alle vicende, anche estintive, del distinto rapporto di lavoro instaurato di fatto col cessionario;
13. il secondo motivo di ricorso è infondato atteso che, secondo l’indirizzo costante di questa Corte, appartiene al giudice il potere-dovere di qualificare giuridicamente l’azione e di attribuire il “nomen iuris” al rapporto giuridico sostanziale dedotto in giudizio, anche in difformità rispetto alle deduzioni delle parti e tale potere-dovere trova un limite – la cui violazione determina il vizio di ultrapetizione – nel divieto di sostituire l’azione proposta con una diversa, perchè fondata su fatti diversi o su una diversa “causa petendi”, con la conseguente introduzione di un diverso titolo accanto a quello posto a fondamento della domanda, e di un nuovo tema di indagine. Si è inoltre precisato che il potere di qualificazione della domanda nei gradi successivi al primo va coordinato con i principi propri del sistema delle impugnazioni, sicchè con riferimento all’appello deve ritenersi precluso al giudice di secondo grado di mutare d’ufficio, in mancanza di gravame sul punto, la qualificazione adottata dal primo giudice (cfr. Cass. 4008 del 2006; n. 8082 del 2005; n. 15859 del 2002);
14. nel caso in esame, il tema della qualificazione della domanda proposta dal lavoratore, come riferita ad una prestazione retributiva oppure risarcitoria, costituiva specifico tema di indagine in quanto introdotto in appello come motivo di impugnazione da parte della società cedente (cfr. pag. 3 della sentenza d’appello: “va rilevato che la questione giuridica che pone la parte appellante – Telecom Italia spa – attiene alla natura risarcitoria e non retributiva di quanto percepito dalla parte appellata dalla società cessionaria e, pertanto, la necessità di detrarre l’aliunde perceptum”), sicchè deve escludersi qualsiasi profilo di violazione dell’art. 112 c.p.c.;
15. anche il terzo motivo di ricorso è infondato poichè la Corte di merito ha accertato che nel periodo in contestazione (mese di aprile 2013) il sig. D. era in cassa integrazione guadagni ed ha escluso la detraibilità delle somme dal medesimo percepite a titolo di indennità di mobilità, conformandosi ai principi enunciati da questa S.C. secondo cui, nell’ipotesi di nullità della cessione di azienda o di ramo di essa, le somme percepite dal lavoratore a titolo di indennità di mobilità non possono essere detratte da quanto egli abbia ricevuto per il mancato ripristino del rapporto ad opera del cedente, indipendentemente dalla qualificazione – risarcitoria o retributiva – del trattamento economico dovuto al lavoratore illegittimamente trasferito, poichè l’indennità opera su un piano diverso rispetto agli incrementi patrimoniali derivanti al lavoratore dall’essere stato liberato, anche se illegittimamente, dall’obbligo di prestare la sua attività, dando luogo la sua eventuale non spettanza ad un indebito previdenziale, ripetibile nei limiti di legge (Cass. n. 23306 del 2019; n. 7794 del 2017); ciò posto, risultano logicamente ininfluenti le prove richieste dalla società e non ammesse;
16. inammissibile è infine la censura sulla mancata detrazione dell’aliunde percipiendum; dal ricorso in esame (pag. 11) risulta che l’eccezione era stata sollevata nei seguenti in termini: “Infine, si consideri la necessità di detratte anche l’aliunde percipiendum”;
17. questa Corte ha precisato, a proposito del licenziamento illegittimo ma con valenza riferibile anche alla fattispecie in esame, che il datore di lavoro che affermi la detraibilità dall’indennità risarcitoria prevista dal nuovo testo dell’art. 18, st.lav., comma 4, a titolo di “aliunde percipiendum”, di quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire dedicandosi alla ricerca di una nuova occupazione, ha l’onere di allegare le circostanze specifiche riguardanti la situazione del mercato del lavoro in relazione alla professionalità del danneggiato, da cui desumere, anche con ragionamento presuntivo, l’utilizzabilità di tale professionalità per il conseguimento di nuovi guadagni e la riduzione del danno (Cass. n. 17683 del 2018);
18. la pacifica assenza di tali elementi nel ricorso in appello della società, e quindi la genericità dell’eccezione proposta, rendono logicamente plausibile il rigetto implicito della stessa ad opera della sentenza impugnata;
19. per le considerazioni svolte il ricorso deve essere respinto;
20. le spese di lite sono regolate secondo il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo;
21. si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.
PQM
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2.000,00 per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali nella misura del 15 % ed accessori di legge, da distrarsi in favore degli avvocati Ernesto Maria Cirillo e Francesco Cirillo, antistatari.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 10 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2021
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