LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GRAZIOSI Chiara – Presidente –
Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –
Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –
Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –
Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 3272/2019 R.G. proposto da:
L.G., rappresentato e difeso dall’Avv. Stefano Filippetti, con domicilio eletto in Roma, Piazza di Villa Carpegna, n. 43, presso lo studio dell’Avv. Marco Gregoris;
– ricorrente –
contro
C.F., rappresentato e difeso dagli Avv.ti Alberto Pepe e Paolo Carnevali, con domicilio eletto in Roma, Piazza Riccardo Balzamo Crivelli, n. 50, presso lo studio dell’Avv. Selene Sabellico;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Ancona, n. 959/2018, depositata il 18 giugno 2018;
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12 novembre 2020 dal Consigliere Emilio Iannello.
RILEVATO IN FATTO
1. La Corte d’appello di Ancona ha confermato la decisione di primo grado che aveva condannato L.G. alla restituzione in favore di C.F. della somma di Euro 4.000, versata quale deposito cauzionale per la locazione di immobile ad uso commerciale, oltre che al pagamento della somma di Euro 2.562,79 a titolo di risarcimento del danno per responsabilità precontrattuale ed ancora della somma di Euro 3.500, ex art. 96 c.p.c., comma 3.
Ha premesso in punto di fatto che:
– avendo necessità di reperire un immobile da destinare all’attività di ottico, il C. lo aveva individuato in un locale di mq 180 di proprietà del L. che, in un cartello pubblicitario, era offerto in locazione;
– dopo svariati incontri, nei quali, alla presenza di testimoni, il locatore aveva confermato che il locale aveva una consistenza di mq 180, che lo stesso era ad uso commerciale e che aveva tre posti macchina a servizio del negozio, il C. concluse la trattativa, concordando un canone di locazione di Euro 2.000,00 mensili e un deposito cauzionale di Euro 4.000,00, alla cui corresponsione seguì la consegna delle chiavi dell’immobile e la conclusione del contratto;
– alla consegna del locale il conduttore si rese conto che la metratura dichiarata era inferiore, che l’immobile non era accatastato come negozio bensì come magazzino e che non vi erano posti macchina ad uso esclusivo del negozio;
– chiese pertanto la restituzione della cauzione versata e il risarcimento delle spese sostenute per l’incarico conferito per la ristrutturazione del locale.
Ha quindi rilevato che “nel caso di specie è palese che il locatore abbia agito in mala fede inducendo il conduttore a concludere un contratto che altrimenti non avrebbe concluso, a nulla rilevando il fatto che il C. potesse sua sponte eseguire una semplice visura catastale per accertarsi della reale metratura dell’immobile e della sua destinazione d’uso. Infatti, se è pur vero che le parti durante le trattative conservano sempre la facoltà di verificare la convenienza dell’affare, tenuto conto delle proprie specifiche esigenze, è altrettanto vero che le medesime non possono comunque violare i limiti derivanti dai principi di correttezza e di buona fede ovvero il dovere di informazione della controparte circa le reali possibilità di conclusione del contratto, senza omettere circostanze significative in relazione all’economia del negozio, sì che la trattativa si svolga in modi coerenti e senza dar adito a comportamenti contraddittori”.
2. Avverso tale sentenza L.G. propone ricorso per cassazione affidato a cinque motivi, cui resiste l’intimato, depositando controricorso.
3. Essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.
In vista dell’odierna adunanza camerale il ricorrente ha depositato memoria ex art. 380-bis c.p.c., comma 2.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, violazione e falsa applicazione dell’art. 1337 c.c. e “inconciliabilità della motivazione ex art. 132 c.p.c., n. 4”.
Sotto il primo profilo lamenta che erroneamente la Corte d’appello ha ritenuto irrilevante il fatto che il C. potesse sua sponte eseguire una semplice visura catastale per accertarsi della reale metratura dell’immobile e della sua destinazione d’uso.
Sostiene che “non rilevare un’informazione, pur essenziale, ma che la controparte è in grado di procurarsi da sè, con uno sforzo mediamente ragionevole, non configura condotta scorretta, sanzionabile sul piano risarcitorio a titolo di responsabilità precontrattuale”.
Sotto il secondo profilo osserva che lo stato di colpa, in cui versava il C., risultante dalla stessa sentenza, non poteva essere dichiarato irrilevante, ma al contrario avrebbe dovuto condurre ad escludere l’applicazione dell’art. 1337 c.c..
2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, “nullità della sentenza e del procedimento per travisamento della prova testimoniale contenuta nel verbale di udienza del 6 ottobre 2011”, per avere la Corte d’appello ritenuto dimostrato l’effettivo versamento del deposito cauzionale sulla base delle deposizioni dei testi M. e V..
Rileva, infatti, che dal menzionato verbale si ricava che i testi non confermarono la circostanza e che, pertanto, l’informazione probatoria trattane dai giudici d’appello, di per sè decisiva, è stata travisata.
3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1227 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Corte d’appello compreso tra i danni risarcibili anche il pagamento dei compensi al tecnico incaricato dallo stesso conduttore della progettazione dell’arredamento del locale locato, trattandosi di danno che questo avrebbe potuto evitare, secondo ordinaria diligenza, mediante una semplice consultazione del catasto.
4. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 96 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Corte d’appello ritenuto corretta anche la condanna al pagamento di ulteriore somma per responsabilità processuale aggravata, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, benchè non fosse stato accertato che la condotta processuale fosse connotata da dolo o malafede.
Rileva in particolare che l’assunto, espresso in sentenza, secondo cui l’appellante fosse consapevole del proprio torto, è smentito dal fatto che le tesi difensive dallo stesso sostenute non possono ritenersi manifestamente infondate. Quanto, poi, alla pure stigmatizzata richiesta di rinvio dell’udienza, afferma che questa non evidenziava in realtà un intento dilatorio, ma semmai deflattivo.
5. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia infine, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della art. 91 c.p.c. e del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, in ordine alla liquidazione delle spese processuali poste a carico dell’appellante.
Lamenta che erroneamente, a tal fine, la Corte di merito ha fatto riferimento alla fase dibattimentale, non prevista nel giudizio civile; deduce inoltre che, quanto alla fase conclusionale, non avendo controparte depositato nè la comparsa conclusionale, nè la memoria di replica, è illegittima l’applicazione del valore medio (Euro 1.800) del parametro di riferimento.
6. Il primo motivo è inammissibile.
6.1. Lo è anzitutto là dove denuncia nullità della sentenza per irriducibile contrasto tra affermazioni inconciliabili.
Tale vizio è in astratto ipotizzabile in presenza di affermazioni che si annullino l’un l’altra, sul piano logico, in modo tale da rendere incomprensibile la motivazione; esito che certamente non è ravvisabile nella specie, ove il contrasto non è tra le affermazioni contenute in sentenza ma solo (e ben diversamente) tra la qualificazione giuridica operata in sentenza e quella auspicata dalla parte; come del resto dimostra la stessa prospettazione, evidentemente contraddittoria nell’ambito della stessa censura, di un contestuale vizio di error in iudicando, il quale postula che la parte abbia ben compreso la giustificazione offerta in sentenza e la ritenga frutto dell’applicazione di una erronea regola di giudizio.
6.2. Il motivo è anche inammissibile nella prima parte, ove prospetta, come detto, violazione o falsa applicazione dell’art. 1337 c.c..
Nella interpretazione datane dalla costante giurisprudenza di questa Corte, tale norma, e quella di cui all’art. 1338 c.c. che ne costituisce specificazione, mirando a tutelare nella fase precontrattuale il contraente di buona fede ingannato o fuorviato da una situazione apparente, non conforme a quella vera, e, comunque, dalla ignoranza della causa d’invalidità del contratto che gli è stata sottaciuta, presuppongono non solo la colpa di una parte nell’ignorare la causa di invalidità del contratto, ma anche la mancanza di colpa dell’altra parte nel confidare nella sua validità (Cass. 21/08/2004, n. 16508); con la conseguenza che “quando, in particolare, la causa di invalidità del negozio derivi da una norma imperativa o proibitiva di legge, o da altre norme aventi efficacia di diritto obiettivo, tali – cioè – da dover essere note per presunzione assoluta alla generalità dei cittadini e, comunque, tali che la loro ignoranza bene avrebbe potuto o dovuto essere superata attraverso un comportamento di normale diligenza, non si può configurare colpa contrattuale a carico dell’altro contraente, che abbia omesso di far rilevare alla controparte l’esistenza delle norme stesse” (Cass. 18/05/2016, n. 10156; 08/07/2010, n. 16149; 26/06/1998, n. 6337).
Come, però, pure precisato da questa Corte, la questione se il contraente, il quale abbia fatto erroneo affidamento nella validità del contratto o, comunque, nella utile conclusione del contratto, versasse al riguardo o meno in colpa, costituisce questione fattuale di competenza del giudice di merito (v. Cass. n. 16149 del 2010).
Ciò posto, appare evidente che la censura in esame nel postulare che la Corte territoriale abbia erroneamente sottovalutato il fatto che il conduttore potesse agevolmente accertarsi della reale metratura dell’immobile e della sua destinazione, piuttosto che prospettare l’applicazione di una erronea regola di giudizio, critica in realtà, inammissibilmente, la valutazione di merito sul punto operata dal giudice di merito.
Questo, invero, non omette affatto di considerare che la reale metratura dell’immobile e la sua destinazione d’uso potessero essere accertate dal C. attraverso una “semplice visura catastale” ma pone a raffronto tale possibilità con la condotta di controparte non meramente inerte (come di chi tace un’informazione che, comunque, può essere acquisita agevolmente acquisita dall’interessato) ma, ben diversamente, attiva nel mistificare, con dolo e mala fede, la dimensione e la destinazione dell’immobile, finendo pertanto con l’attribuire a tale ultima condotta ruolo causale preponderante e idoneo anche a giustificare il comportamento della controparte, sì da escludere ogni addebito di colpa a questa ascrivibile.
Trattasi evidentemente di una valutazione di merito non sindacabile in questa sede, tanto meno sotto il dedotto profilo della violazione di legge.
7. Il secondo motivo è parimenti inammissibile.
Secondo quanto ripetutamente chiarito da questa Corte, in tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 115 c.p.c., comma 1, (a tenore del quale “… il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero…”) è predicabile (solo) allorquando il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, “il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove”” (principio affermato da Cass. 10/06/2016, n. 11892 e successivamente avallato anche da Sez. U. 05/08/2016, n. 16598, non massimata, in motivazione).
Il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass. 10/06/2016, n. 11892).
Il ricorrente si richiama però alla distinzione, in effetti ben presente nella giurisprudenza di questa Corte, tra errore di valutazione della prova (ricadente sull’efficacia della prova rispetto all’obiettivo probatorio: demonstrandum; non sindacabile nei sensi testè detti) ed errore di percezione della “informazione probatoria” (ricadente sul contenuto oggettivo della prova: demonstratum; denunciabile, secondo i precedenti richiamati in ricorso, quale error in procedendo, per violazione dell’art. 115 c.p.c.).
Tale distinzione non può, tuttavia, giovare nella specie.
Occorre anzitutto considerare che essa può spesso rivelarsi, nei fatti, labile, ove si consideri che l'”informazione probatoria” costituisce pur sempre, anch’essa, oggetto di un’attività diretta alla acquisizione dell’elemento di giudizio offerto dalla fonte di prova. Ne va fatto, dunque, un uso assai rigoroso e prudente onde non farla diventare strumento di un surrettizio ingresso, nel giudizio di legittimità, di un sindacato di merito certamente estraneo alla sua struttura e funzione ordinamentale.
In tal senso bisogna dunque tener fermo che “travisamento delle prove” è nozione distinta da quella di “valutazione delle prove”.
Per la sua definizione può farsi riferimento alla giurisprudenza sull’art. 606 c.p.p., lett. e), la quale ha chiarito che il travisamento della prova non tocca il livello della valutazione, ma si arresta alla fase antecedente dell’errata percezione di quanto riportato dall’atto istruttorio.
E’ errore sul significante, che si traduce nell’utilizzo di un elemento di prova inesistente (o incontestabilmente diverso da quella reale), e non sul significato della prova. Manifestandosi anche le prove in enunciati linguistici, il travisamento concerne il misconoscimento dei dati linguistici, e dunque il livello percettivo che precede la valutazione. Quest’ultima interviene in una fase successiva, quando, delimitato il campo semantico, si aprono le diverse opzioni valutative.
Proprio nella consapevolezza di tale distinzione quei precedenti ascrivono a travisamento di prove (error in procedendo per violazione dell’art. 115 c.p.c.) solo la postulazione in sentenza di informazioni probatorie che possano considerarsi obiettivamente e inequivocabilmente contraddette dal dato formale-percettivo delle fonti o dei mezzi di prova considerati o che, addirittura, risultino inesistenti e dunque sostanzialmente “inventate” dal giudice (v. Cass. 25/05/1995, n. 10749; cui adde Cass. 12/04/2017, n. 9356; 21/01/2020, n. 1163; v. anche Cass. 05/11/2018, n. 28174).
Il criterio da utilizzare per l’individuazione di un siffatto errore è quello stesso dettato dall’art. 395 c.p.c., n. 4 per la definizione di errore di fatto percettivo (deve cioè trattarsi di una svista obiettivamente ed immediatamente rilevabile ex actis o, come è stato detto, del travisamento di un “dato probatorio non equivoco e insuscettibile di essere interpretato in modi diversi ed alternativi” ed inoltre “decisivo”: v. Cass. n. 10749 del 1995, cit.), distinguendosi da questo solo perchè inerente ad un fatto controverso e dibattuto in giudizio (v. in tal senso Cass. n. 9356 del 2017).
Tale presupposto non è ravvisabile nella specie ove le dichiarazioni testimoniali trascritte non esprimono un contenuto apertamente e diametralmente opposto a quello che viene dai giudici di merito postulato a fondamento del ragionamento probatorio.
La sentenza, in altre parole, non può dirsi che muova da un dato probatorio, considerato nel suo aspetto formale e percettivo di mero enunciato linguistico, diverso da quello risultante dagli atti, ma semplicemente attribuisce a quello un significato probatorio diverso da quello che il ricorrente assume come corretto.
Se ne trae indiretta conferma dallo stesso ricorso che, nel riferire il contenuto di una delle deposizioni in questione (teste M.) ne rimarca il carattere di dichiarazione de relato actoris, con ciò però implicitamente evocando un vizio della sentenza (consistente per l’appunto nell’aver attribuito rilevanza a una tale dichiarazione testimoniale) impingente nel diverso piano (non della percezione, ma) della valutazione del materiale istruttorio.
Mette conto peraltro soggiungere, anche sotto tale ultimo profilo, che, secondo la univoca giurisprudenza di questa Corte, la deposizione de relato ex parte actoris può assurgere a valido elemento di prova quando sia suffragata – come avvenuto nella specie con riferimento alle altre testimonianze, ancorchè dall’analogo contenuto rappresentativo indiretto – da ulteriori risultanze probatorie che concorrano a confermarne la credibilità (v. ex aliis Cass. 31/07/2013, n. 18352; 19/05/2006, n. 11844).
8. E’ anche inammissibile il terzo motivo.
8.1. In tema di risarcimento del danno, l’ipotesi del fatto colposo del creditore che abbia concorso al verificarsi dell’evento dannoso (art. 1227 c.c., comma 1) va, come noto, distinta da quella (disciplinata dal comma 2 della medesima norma) riferibile ad un contegno dello stesso danneggiato che abbia prodotto il solo aggravamento del danno senza contribuire alla sua causazione, giacchè – mentre nel primo caso il giudice deve proporsi d’ufficio l’indagine in ordine al concorso di colpa del danneggiato, sempre che risultino prospettati gli elementi di fatto dai quali sia ricavabile la colpa concorrente, sul piano causale, dello stesso – la seconda di tali situazioni costituisce oggetto di una eccezione in senso stretto, in quanto il dedotto comportamento del creditore costituisce un autonomo dovere giuridico, posto a suo carico dalla legge quale espressione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede; ne consegue che la relativa eccezione non può essere dedotta per la prima volta nel giudizio di cassazione (v. ex multis Cass. n. 19218 del 2018; n. 16149 del 2010; n. 4799 del 2001).
Nella specie non risulta nemmeno dedotto che tale eccezione sia stata tempestivamente sollevata in primo grado.
Il ricorrente si limita a riferire di avere proposto la questione con il terzo motivo d’appello (del quale, a pag. 8 del ricorso, nella premessa espositiva, si riferisce sinteticamente il contenuto).
La ricomprensione di tali esborsi tra le poste del danno risarcibile trova dunque già in ciò piena e assorbente giustificazione: la loro riconduzione a imprudenza evitabile del danneggiato, formando oggetto di eccezione in senso stretto, ex art. 345 c.p.c., non poteva essere proposta per la prima volta in appello, nè era rilevabile d’ufficio.
8.2. Può comunque rilevarsi che la motivazione della sentenza impugnata è tale da abbracciare anche detta questione e palesarne, anche nel merito, l’infondatezza.
L’attribuzione, infatti, alla condotta del L. di un ruolo causale preponderante e idoneo anche a giustificare il comportamento della controparte, sì da escludere ogni addebito di colpa a questa ascrivibile, evidentemente esclude anche che possa ascriversi a colpa di questa l’esborso di somme effettuate in vista del programmato sfruttamento locativo dell’immobile.
In tal senso si esprime chiaramente la sentenza impugnata là dove afferma (pag. 5, secondo cpv.) che “il danno risarcibile… deve ravvisarsi nel danno emergente, trattandosi di spese eseguite in vista della conclusione del contratto”.
La censura svolta con il motivo in esame risulta dunque anche aspecifica, ovvero meramente apodittica e oppositiva, rispetto a tale ratio decidendi, non risultando nemmeno dedotto che si tratti di spese effettuate dopo l’acquisita conoscenza, da parte del C., delle reali condizioni dell’immobile.
Essa pertanto, anche per tale motivo, va considerata inammissibile.
9. Anche il quarto motivo è inammissibile.
Lungi dall’evidenziare affermazioni in diritto o l’applicazione di regole di giudizio contrastanti con la consolidata interpretazione dei presupposti della sanzione processuale di cui si discute, la censura si colloca interamente sul piano della ricognizione in fatto delle ragioni che, nella specie, giustificano il convincimento della loro sussistenza e si risolve, pertanto, nella sollecitazione di una nuova valutazione di merito, inammissibile in questa sede.
10. Anche il quinto e ultimo motivo è inammissibile.
Secondo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte in tema di spese processuali, salvo il rispetto dei parametri minimi e massimi, la determinazione in concreto del compenso per le prestazioni professionali di avvocato è rimessa esclusivamente al prudente apprezzamento del giudice di merito e sfugge, di conseguenza, al sindacato di legittimità (v. ex multis, da ultimo, Cass. 24/02/2020, n. 4782).
Nel caso di specie il rispetto dei parametri di cui al D.M. 10 marzo 2014, n. 55, non è posto in discussione, dolendosi il ricorrente – al di là dell’aggettivazione della fase decisoria come “dibattimentale”, imputabile a mero ininfluente errore materiale – solamente della applicazione di un importo medio bensì rientrante nel relativo range ma tuttavia, a suo dire, eccessivo rispetto all’effettiva consistenza delle prestazioni professionali rese, con ciò per l’appunto sollecitando una mera valutazione di merito, come detto riservata al prudente apprezzamento del giudice del merito ed estranea al giudizio di legittimità.
11. La memoria che, come detto, è stata depositata dal ricorrente, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., comma 2, non offre argomenti che possano indurre a diverso esito dell’esposto vaglio dei motivi.
12. Il ricorso deve essere pertanto dichiarato inammissibile con la conseguente condanna del ricorrente alla rifusione, in favore del controricorrente delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.300 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.;
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, il 12 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 7 gennaio 2021
Codice Civile > Articolo 1227 - Concorso del fatto colposo del creditore | Codice Civile
Codice Civile > Articolo 1337 - Trattative e responsabilita' precontrattuale | Codice Civile
Codice Civile > Articolo 1338 - Conoscenza delle cause d'invalidita' | Codice Civile
Codice Procedura Civile > Articolo 4 - (Omissis) | Codice Procedura Civile
Codice Procedura Civile > Articolo 91 - Condanna alle spese | Codice Procedura Civile
Codice Procedura Civile > Articolo 96 - Responsabilita' aggravata | Codice Procedura Civile
Codice Procedura Civile > Articolo 115 - Disponibilita' delle prove | Codice Procedura Civile
Codice Procedura Civile > Articolo 116 - Valutazione delle prove | Codice Procedura Civile
Codice Procedura Civile > Articolo 345 - Domande ed eccezioni nuove | Codice Procedura Civile