Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.505 del 14/01/2021

Pubblicato il

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24937-2018 proposto da:

C.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FRANCESCO CRISPI, 89, presso lo studio dell’avvocato LEONE PONTECORVO, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati ARMANDO PONTECORVO, GHERARDO FIUME, giusta procura notarile in atti;

– ricorrente –

contro

M.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI SANTA COSTANZA, 2, presso lo studio dell’avvocato STEFANO RUGGIERO, rappresentata e difesa dall’avvocato MAURO PALADINI giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso il provvedimento n. 991/2018 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 23/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 02/12/2020 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie depositate dalla ricorrente.

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE A seguito dell’apertura della successione di M.U., deceduto il *****, venivano pubblicati due testamenti (del ***** e del *****) con i quali C.C., moglie del de cuius, era istituita unica erede. Quest’ultima, il 10 aprile 2013, era convenuta in giudizio da M.L., nipote di M.U., dinnanzi al Tribunale di Verbania, affinchè fosse accertata la nullità, ex art. 606 c.c., o, in via subordinata, l’annullabilità ex art. 591 c.c., n. 3, dei suddetti testamenti; in ogni caso la sussistenza del reato di cui all’art. 643 c.p., e la conseguente indegnità a succedere della beneficiaria ex art. 463 c.c., nn. 4, 5, 6. L’attrice chiedeva, quindi, di essere dichiarata unica erede di M.U., con condanna della convenuta alla restituzione dei beni facenti parte della massa ereditaria, o nel caso di dismissione, alla refusione del valore equivalente, oltre che delle somme di cui ai prelievi effettuati sul c/c ***** intestato al de cuius.

L’attrice, la quale era in possesso di 7 testamenti di data anteriore, nei quali era stata istituita unica erede, aveva sottoposto il testamento del 2005 ad una valutazione di un esperto grafologo che aveva concluso per la non autenticità. Aveva, quindi, sporto denuncia e ne era seguito il procedimento penale R.G. 2532/2010 per i reati di cui agli artt. 476,482,585,489 e 491 c.p., al cui esito il GIP presso il Tribunale di Verbania aveva emesso provvedimento di archiviazione, avendo il perito nominato dal Tribunale concluso per la autenticità dei testamenti. Parimenti era stata respinta la richiesta di avocazione presso la Procura Generale, con provvedimento nel quale, tuttavia, veniva messo in luce come si sarebbe potuta ipotizzare l’integrazione del reato di circonvenzione di incapace ex art. 643 c.p., sulla scorta della documentazione medica attestante uno stato psico-fisico deficitario del de cuius, ma il cui accertamento era impedito dalla causa di non punibilità ex art. 649 c.p..

L’attrice sosteneva, pertanto, che i testamenti pubblicati dalla C. non fossero espressione della volontà del de cuius, considerato che l’autografia non sarebbe stata dirimente, ben potendo la mano essere stata guidata da altra persona, e che nel 2005 il de cuius si trovava in condizioni psico-fisiche tali da non avere la capacità di intendere e di volere e, conseguentemente, di testare. La C., inoltre, avrebbe dovuto essere considerata incapace a succedere, essendo i testamenti effetto di violenza psichica e di dolo, ravvisabile nella situazione di isolamento in cui la convenuta aveva posto il de cuius in un momento di fragilità emotiva dovuta alle sue precarie condizioni di salute (nel 2003 gli veniva diagnosticata una neoplasia rettale; nel giugno 2004 un tumore alla tiroide e nel 2005 una malattia psichiatrica).

Impugnava tutte le operazioni bancarie compiute tra il gennaio 2004 e il settembre 2006 sul conto corrente *****, sul quale la C. aveva la delega ad operare ed il cui saldo alla data di apertura della successione era pari a Euro 34,54, trattandosi di operazioni esulanti dal normale menage familiare ed integranti una donazione nulla per difetto di forma, o comunque di operazioni annullabili per difetto di capacità naturale del de cuius, ovvero invalide in quanto effetto del reato di circonvenzione di incapace.

Si costituiva la convenuta contestando la ricostruzione dei fatti. In particolare, assumeva l’autenticità dei 9 testamenti redatti dal 2003 al 2009 nei quali, ad eccezione di uno, era stata istituita erede. A parere della C., era espressione della volontà del de cuius indicare la moglie, alla quale era legato in matrimonio dal 1/6/2004, come beneficiaria delle sue sostanze, anche in considerazione dell’interruzione dei rapporti tra il de cuius e la nipote M., avvenuta a partire dal 2005. Parimenti infondate sarebbero state le insinuazioni inerenti ai prelievi sul conto corrente, essendo la C. stessa l’unica persona che si potesse occupare delle esigenze del marito, con il quale condivideva ogni decisione. Chiedeva, quindi, il rigetto delle domande dell’attrice e, in via riconvenzionale, di accertare e dichiarare di essere unica erede universale di M.U., o in subordine, laddove fosse accertata l’invalidità dei testamenti, accertare la propria qualità di legittimaria, con diritto alla riserva della metà del patrimonio, oltre che ai diritti ex art. 540 c.c., con conseguente riduzione delle disposizioni del testamento del *****.

Il Tribunale di Verbania, con la sentenza n. 568/2016, rigettava la domanda di nullità dei testamenti ex art. 606 c.c., ritenendo, sulla scorta dell’elaborato tecnico elaborato dalla prof. B. nell’ambito del procedimento penale, che fossero stati redatti di pugno dal testatore, senza alcun condizionamento esterno. Tuttavia, il Giudice di primo grado faceva proprie le conclusioni della consulenza medica svolta dal CTU incaricato, in ordine alla incapacità di autodeterminarsi del de cuius al momento della redazione delle schede testamentarie e, conseguentemente, annullava i testamenti ex art. 591 c.c..

Dichiarava, inoltre, l’indegnità a succedere della C., ritenendo che la redazione dei testamenti impugnati fosse stata frutto di violenza o dolo ai sensi dell’art. 463 c.c., n. 4.

A tale riguardo, dava rilievo alle schede testamentarie in possesso dell’attrice, dalle quali emergeva la minaccia di abbandono da parte della C., nel caso in cui il marito non l’avesse istituita erede; ai numerosi prelievi sul conto corrente del de cuius, alla vendita dei titoli ed all’estinzione dei rapporti, privi di qualsiasi giustificazione e inverosimilmente autorizzati dal M., al quale a partire dal 2005 era stata diagnosticata una malattia psicotica su base dementigena; infine, valutava le dichiarazioni rese sotto forma di sommarie informazioni nel procedimento penale da amici e parenti del de cuius, i quali affermavano di aver interrotto i rapporti con quest’ultimo nel momento in cui aveva iniziato la sua relazione con la C..

Il Tribunale, quindi, riteneva valida ed efficace l’ultima dichiarazione testamentaria resa dal de cuius in data *****, con conseguente apertura della successione testamentaria a favore della M., la quale era quindi dichiarata unica erede testamentaria, con condanna della convenuta alla restituzione dei beni della massa ereditaria.

Infine, ritenuto che gli assegni, oltre che nulli per difetto di idonea giustificazione causale, non trovavano alcuna spiegazione ed erano stati emessi nell’assenza di capacità di autodeterminarsi del de cuius, condannava la convenuta alla restituzione della somma di Euro 175.300,00, oltre interessi e alla refusione delle spese di giudizio.

C.C. proponeva appello avverso la suddetta sentenza, chiedendo il rigetto delle domande dell’attrice e l’accoglimento delle domande riconvenzionali già proposte in primo grado, con reiterazione delle istanze istruttorie e richiesta di produzione di nuovi documenti e rinnovazione e/o supplemento CTU, volta all’accertamento dello stato di capacità di intendere e di volere del de cuius.

Denunciava la sentenza di primo grado a causa della contraddittoria e insufficiente motivazione nell’esame delle prove che avevano condotto alla dichiarazione di indegnità ed all’annullamento dei testamenti, a causa del mero richiamo delle conclusioni del CTU senza dare atto in motivazione di tutti gli altri elementi documentali che smentivano le conclusioni tecniche. Lamentava la mancata e insufficiente motivazione per non aver dato rilievo alle dichiarazioni rese in sede di sommarie informazioni dal Dott. Mi. (medico di famiglia del de cuius) che si contrapponevano alle conclusioni del CTU.

Deduceva, in altre parole, che la dichiarazione di indegnità a succedere fosse stata pronunciata esclusivamente per presunzioni e di riflesso dallo stato di salute del M., rinviando asetticamente ai testamenti in possesso dell’attrice, espressione di contenuti che esulerebbero dalla serena e libera volontà di testare, utilizzando dichiarazioni rese da persone informate sui fatti nell’ambito delle indagini svolte nel procedimento penale poi conclusosi con l’archiviazione, in assenza di contraddittorio.

M.L. si costituiva nel giudizio di appello contrastando le avverse argomentazioni ed eccependo, preliminarmente, l’inammissibilità dell’appello ex art. 342 c.p.c., essendo assenti le modifiche richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado e l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione di legge. Chiedeva, quindi, la conferma della sentenza impugnata.

La Corte d’Appello di Torino, con la sentenza n. 991/2018 del 23/05/2018, ritenuto ammissibile l’appello ai sensi dell’art. 342 c.p.c., cionondimeno lo rigettava nel merito e condannava C.C. alla refusione delle spese del giudizio.

Quanto al profilo dell’accertamento dello stato di incapacità in cui versava il de cuius al momento del confezionamento delle schede testamentarie annullate, la Corte distrettuale osservava che il Tribunale correttamente aveva fatto proprie le conclusioni dal CTU, al quale era stato chiesto di analizzare la documentazione medica prodotta dall’attrice. L’appellante, in primo luogo, non aveva contestato la competenza ed imparzialità del CTU; nè il CTP aveva contestato le attestazioni riguardanti i referti e le certificazioni sanitarie compiute dall’ausiliario d’ufficio, limitandosi a negare l’esistenza di una psicopatologia di entità tale da eliminare la capacità di intendere e di volere al momento della redazione del testamento del 2005.

Detta circostanza era stata espressamente contraddetta dal CTU, sulla base della documentazione sanitaria e del R.M.N. encefalo del *****, attestanti, rispettivamente, la ricorrenza di allucinazioni, agitazione psico-motoria, disorientamento spazio-temporale e un’evidenziante vasculopatia cerebrale cronica; in altre parole, un decadimento demenziale talmente grave da far presumere, tenuto conto dell’andamento evolutivo sistematicamente peggiorativo di ogni demenza, che 5 settimane prima il de cuius non fosse in grado di esprimere consapevolmente e liberamente la propria volontà.

Parimenti infondate erano le doglianze in merito alla non riconducibilità del quadro clinico del de cuius alla demenza vascolare, alla mancata valutazione da parte del Tribunale delle dichiarazioni rese in sede di sommarie informazioni dal Dott. Mi., medico curante del M., circa l’inidoneità delle terapie ad interferire sulla capacità di comprensione e valutazione del de cuius ed all’asserita mancanza di prova, incombendo sulla parte che vorrebbe avvalersi del testamento la prova che la scheda testamentaria è stata redatta in un momento di lucido intervallo nella generale condizione di incapacità.

Quanto al profilo della sussistenza dei presupposti per la pronunciata indegnità a succedere, il Tribunale correttamente aveva tenuto conto del dato oggettivo costituito dalle particolari condizioni fisiche e psichiche del de cuius per valutare la rilevanza dei comportamenti tenuti dalla convenuta e la relativa incidenza sulla ridotta autonomia psicologica del defunto, valutando i timori espressi dallo stesso M. nei testamenti in possesso dell’attrice (l’autenticità e il contenuto dei quali non erano mai stati contestati dalla convenuta), le dichiarazioni rese dalle persone informate sui fatti (la cui attendibilità non era stata contestata), le operazioni economiche poste in essere dalla C. a danno del marito.

La Corte, quindi, rigettava la richiesta di produzione di nuovi documenti, preclusa dall’art. 345 c.p.c., e riteneva inammissibile la richiesta di prova testimoniale, stante la mancata specifica impugnazione dei motivi di reiezione della medesima richiesta da parte del giudice di primo grado.

Avverso la suddetta sentenza della Corte d’Appello di Torino, propone ricorso C.C. sulla base di tre motivi.

M.L. resiste con controricorso.

In prossimità dell’udienza la ricorrente ha depositato memorie. Con il primo motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 591 c.c., comma 2, n. 3, art. 463 c.c., n. 4, e art. 428 c.c.; violazione dell’art. 115 c.p.c., ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La ricostruzione del Tribunale, confermata dalla Corte d’Appello di Torino, sarebbe basata su circostanze asserite e non provate dalla difesa, su scarne dichiarazioni di terzi rese, non in contraddittorio, nel procedimento penale archiviato; su testamenti che riportavano dichiarazioni a futura memoria in cui il de cuius anticipava il matrimonio poi celebratosi e rinnegava le disposizioni testamentarie a favore della futura moglie ancor prima di averle redatte. La Corte avrebbe poi omesso qualsiasi valutazione riguardo alle contestazioni ed esplicite eccezioni formulate dalla originaria convenuta circa la coartazione psicologica dettata dall’abbandono e dall’isolamento. Dai sette testamenti prodotti da parte attrice la Corte avrebbe dovuto ricavare nozioni di fatto rientranti nella comune esperienza ai sensi dell’art. 115, u.c..

Erronea sarebbe anche la sentenza nella parte in cui non ritiene che i sette testamenti fossero stati contestati, quando, al contrario, fin dal primo grado, la ricorrente contestava sia l’asserita incapacità a testare del marito sia l’indegnità a succedere della moglie. In sede d’appello la ricorrente aveva rilevato la dubbia attribuibilità dei sette testamenti, avuto riguardo ai termini espressi ed al lessico non di uso ordinario del M..

Da ciò deriverebbe la violazione degli artt. 591,463 e 428 c.c., non essendovi prova di dolo o violenza nei confronti del de cuius: il fatto che il M. avesse capacità di intendere e di volere al momento della redazione del testamento del ***** a favore della nipote si pone in contraddizione rispetto alla sua contemporanea condizione di coercibilità con violenza o dolo. Inoltre, non sarebbero integrati i presupposti di annullamento del testamento per violenza e dolo, in quanto la ricostruzione della vicenda evidenzierebbe un mero stato di timore egoistico nei confronti della moglie di perdere i suoi servigi, di per sè insufficiente a provare un’incidenza sulla valida capacità testamentaria del de cuius.

Il motivo è inammissibile nella parte in cui lamenta la violazione dell’art. 115 c.p.c., in quanto la ricorrente si limita a denunciare una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dai giudici di merito, rimessa al loro prudente apprezzamento e non sindacabile se adeguatamente motivata. Le fattispecie che potrebbero in astratto dare luogo a un vizio sindacabile in sede di legittimità, ma che non ricorrono nel caso di specie, sono quelle in cui il giudice di merito abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti o disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, abbia disatteso prove legali, abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr. Cass. S.U. n. 20867/2020; Cass., Sez. 6 – 1, ordinanza n. 1229 del 17/01/2019; Cass. 27 dicembre 2016, n. 27000; Cass. 11 dicembre 2015, n. 25029; Cass. 19 giugno 2014, n. 13960).

La mancata valutazione da parte dei giudici di merito delle eccezioni volte a contestare la coartazione psicologica dettata dall’abbandono e dall’isolamento, lamentata dalla ricorrente, è inidonea a dare luogo a un vizio della sentenza che giustifichi la sua cassazione. E’ pacifico, infatti, che in tema di prova, spetti in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, nonchè la facoltà di escludere anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che egli non sia tenuto a esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni (cfr. Cass., sez. 3, sentenza n. 14611 del 12/07/2005; Cass., sez. 3, sentenza n. 5106 del 10/05/1995). Parimenti non sussiste nemmeno l’asserito vizio della sentenza nella parte in cui non tiene conto del fatto che i sette testamenti fossero stati contestati dalla ricorrente, ritenendoli, al contrario, pacifici. In realtà, l’onere di contestazione riguarda le allegazioni delle parti e non la documentazione prodotta, nè la loro valenza probatoria la cui valutazione, in relazione ai fatti contestati, è riservata al giudice (Cass., sez. 3, sentenza n. 12748 del 21/06/2016; Cass. Sez. 6 – L, ordinanza n. 3126 del 01/02/2019).

Inoltre, non si allega con precisione in quale specifico atto difensivo sarebbe stata operata tale contestazione, assumendosi genericamente che sarebbe avvenuta solo in grado di appello, allorchè, essendo ormai definiti il thema decidendum e quello probandum, si ritiene preclusa la possibilità di una successiva contestazione ad opera delle parti, rispetto a quanto invece emerso all’esito del giudizio di primo grado (Cass. n. 22461/2015; Cass. n. 26859/2013; Cass. n. 31402/2019).

In generale, la ricorrente denuncia l’esame dei documenti esibiti e delle risultanze istruttorie, il giudizio di attendibilità, nonchè la scelta, tra le varie emergenze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, effettuate dal Giudice di merito; tuttavia, trattandosi di valutazioni che involgono apprezzamenti di fatto riservati ai giudici di merito, le stesse non sono sindaca bili in sede di legittimità.

L’unico limite è quello di indicare le fonti del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr. Cass., sez. 1, sentenza n. 16056 del 02/08/2016).

Con riferimento ai requisiti della violenza e dolo, che la ricorrente richiama per lamentare l’errata ricostruzione della vicenda operata dai giudici di merito, preme osservare che si tratta dei presupposti della pronuncia di indegnità a succedere, non tanto di quella di annullamento del testamento, che ha trovato giustificazione nella incapacità a testare del de cuius, essendosi in tal senso ritenuto che, nonostante la menomata capacità del testatore, la ricorrente avesse coartato la sua pur ridotta capacità di autodeterminazione, minacciandolo di un abbandono, pur in presenza di una condizione minorata a cagione della scoperta di gravi patologie delle quali era affetto, se non avesse testato in suo favore.

In ogni caso, anche ai fini della pronuncia di indegnità, non emerge alcun vizio della sentenza che ha confermato quella di primo grado, dando conto degli elementi dai quali ha desunto la sussistenza dei requisiti legali. La Corte ha chiarito come l’indegnità sia stata pronunciata dal Tribunale tenendo conto del dato oggettivo costituito dalle particolari condizioni fisiche e psichiche del de cuius per valutare la rilevanza dei comportamenti tenuti dalla convenuta C. e l’incidenza di detti comportamenti sulla già provata e ridotta autonomia psicologica del defunto. Nel compiere questa operazione ha dato rilievo alle dichiarazioni e ai timori espressi dallo stesso M. nei testamenti in possesso dell’attrice, redatti in una fase antecedente al sopravvenire della perdita della capacità di autodeterminazione, dai quali emerge una condizione di fragilità dello scrivente, connotata da una angosciosa paura della solitudine e della morte nonchè dalla piena consapevolezza della propria impotenza rispetto al preordinato piano della compagna che su detti elementi faceva leva per costringerlo al matrimonio e alla redazione di disposizioni testamentarie in proprio favore. La formazione dei testamenti impugnati avvenne allorchè il de cuius, già in condizioni psicofisiche tali per cui era privato della capacità di discernimento e di autodeterminazione, aveva subito dalla C., suo unico punto di riferimento, la minaccia di essere abbandonato, con violazione dell’obbligo giuridico di assistenza incombente sul coniuge. Allo stesso modo sono state valorizzate le concordi dichiarazioni delle persone informate sui fatti, sentite nell’ambito delle indagini penali, quanto alla condizione di solitudine e isolamento creata dalla C. intorno al marito. Infine, il Tribunale ha valorizzato una serie di operazioni economiche poste in essere dalla C. a danno del marito, che rappresentavano la concretizzazione dei timori del de cuius che la moglie avesse come scopo quello di impossessarsi del suo patrimonio.

Dal contegno complessivo della ricorrente sono quindi stati tratti gli elementi per riscontrare la violenza psichica ed il dolo, atteso l’approfittamento della situazione di isolamento in cui era stato posto il de cuius, in un momento in cui era già in condizione di fragilità emotiva dovuta alle proprie condizioni di salute, il che legittimava la pronuncia di indegnità.

Questa valutazione, che è sottesa ad un apprezzamento discrezionale dei giudici di merito, non è sindacabile in sede di legittimità, in quanto adeguatamente motivato, nè infine si pone in contrasto con l’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale la dichiarazione di indegnità a succedere, ai sensi dell’art. 463 c.c., n. 4), per captazione della volontà testamentaria, richiede la dimostrazione dell’uso, da parte dell’indegno, di mezzi fraudolenti tali da trarre in inganno il testatore, suscitando in lui false rappresentazioni ed orientando la sua volontà in un senso in cui non si sarebbe spontaneamente indirizzata (cfr. Cass., sez. 2, sentenza n. 5209 del 26/08/1986; Cass., sez. 2, sentenza n. 26258 del 30/10/2008).

Con il secondo motivo si denuncia la violazione dell’art. 591 c.c., comma 2, n. 3, ex art. 360, comma 1, n. 3, per vizio di interpretazione della norma, che sarebbe stata erroneamente applicata dalla Corte di appello sovvertendo l’onere della prova dell’incapacità di intendere e di volere ad opera di chi impugna il testamento. L’onere della prova dell’incapacità al momento della redazione del testamento grava sulla parte che vuol far valere l’annullamento del testamento per incapacità di testare. Solo un accertamento di incapacità con una diagnosi certa e riconosciuta in vita può invertire l’onere della prova.

Il motivo è inammissibile ex art. 360 bis c.p.c., n. 1.

La giurisprudenza di questa Suprema Corte ha affermato il principio secondo il quale, in caso di infermità tipica, permanente ed abituale, l’incapacità si presume e la prova che il testamento sia stato redatto in un momento di lucido intervallo spetta a chi afferma la validità del testamento; nel caso di infermità intermittente o ricorrente, poichè si alternano periodi di capacità a periodi di incapacità non sussiste la presunzione di incapacità e la prova dell’incapacità deve essere data da chi impugna il testamento (cfr. Cass., sez. 2, ordinanza n. 25053 del 10/10/2018; Cass., Sez. 6 – 2, ordinanza n. 3934 del 19/02/2018; Cass., sez. 2, sentenza n. 14746 del 2016; Cass., sez. 2, sentenza n. 27351 del 23/12/2014).

La sentenza impugnata risulta avere fatto corretta applicazione di tali principi, ritenendo sulla base di un apprezzamento in fatto, come tale non sindacabile in sede di legittimità, che le condizioni di salute del testatore, come accertate sulla base della documentazione sanitaria prodotta da parte attrice, fossero tali da determinare uno stato di incapacità totale e permanente, dal 2005 fino al momento della morte, sussistente quindi anche alla data cui risalgono i testamenti impugnati. Il Tribunale, prima, e la Corte d’Appello, poi, hanno fatto proprie le conclusioni del CTU, dalle quali emerge che il de cuius fosse affetto, a partire dal 2005, da una gravissima psicosi maniaco-depressiva insorta su un quadro di deterioramento cognitivo maggiore su base vascolare, patologie che determinavano una condizione di incapacità naturale. L’andamento evolutivo sistematicamente peggiorativo della patologia, tale da indurre uno specialista geriatra a evidenziare ai parenti la necessità di rivolgersi al Tribunale per la nomina di un tutore, determina una condizione permanente di incapacità del testatore.

Atteso tale convincimento, frutto della valutazione riservata al giudice di merito, correttamente è stato invertito l’onere della prova, incombendo alla parte convenuta confutare tali emergenze processuali e dimostrare che i testamenti erano stati redatti in un momento di lucido intervallo, nell’ambito di una condizione di tendenzialmente permanente incapacità.

Con l’ultimo motivo, la ricorrente lamenta la falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., degli artt. 112 e 115 c.p.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5. La sentenza sarebbe viziata nella parte in cui conferma la valorizzazione delle sommarie informazioni assunte in sede di procedimento penale per la contraffazione dei testamenti, nonostante che si trattasse di un procedimento archiviato; si rileva che parte della dottrina sostiene l’inammissibilità delle prove atipiche e che la ricorrente aveva contestato l’attendibilità delle dichiarazioni nell’atto di citazione del 28/10/2016 e nella comparsa conclusionale del 22/3/2018.

Anche il motivo in esame è inammissibile, dal momento che mira a ottenere una diversa valutazione delle prove, operazione inammissibile in sede di legittimità.

Ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo introdotto dalla L. n. 134 del 2012, il vizio denunciabile è limitato all’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione fra le parti, essendo stata così sostituita la precedente formulazione (omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio). La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata (a prescindere dal confronto con le risultanze processuali). Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. Cass., sez. un. 8053/2014). Pertanto, non possono essere sollevate doglianze per censurare, ai sensi dell’art. 360, n. 5 citato, la correttezza logica del percorso argomentativo della sentenza, a meno che non sia denunciato come incomprensibile il ragionamento ovvero che la contraddittorietà delle argomentazioni si risolva nella assenza o apparenza della motivazione (in tal caso, il vizio è deducibile quale violazione della legge processuale ex art. 132 c.p.c.). La valutazione delle prove, il giudizio sull’attendibilità dei testi e la scelta, tra le varie risultanze istruttorie, di quelle più idonee a sorreggere la motivazione involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di formare il suo convincimento utilizzando gli elementi che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti, essendo limitato il controllo del giudice della legittimità alla sola congruenza della decisione dal punto di vista dei principi di diritto che regolano la prova (Cfr. Cass., Sez. 1, sentenza n. 11511 del 23 maggio 2014; Cass., Sez. L, sentenza n. 42 del 7 gennaio 2009; Cass., Sez. L., sentenza n. 2404 del 3 marzo 2000).

L’inammissibilità peraltro discende anche dal disposto di cui all’art. 348 ter c.p.c., u.c., applicabile alla fattispecie ratione temporis, avendo la Corte d’appello confermato la decisione di primo grado sulla base delle stesse ragioni inerenti alle questioni di fatto, non essendo quindi deducibile il vizio di cui al dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Quanto all’efficacia probatoria delle dichiarazioni rese da persone informate sui fatti in un procedimento penale, la giurisprudenza di questa Suprema Corte è consolidata nel consentire al giudice di porre a base del suo convincimento anche prove c.d. atipiche, e di avvalersi delle risultanze derivanti dagli atti delle indagini preliminari svolte in sede penale, così come delle dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniali, anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento, in quanto il procedimento penale è stato definito ai sensi dell’art. 444 c.p.p., (ovvero come nel caso di specie con un’archiviazione), potendo la parte, del resto, contestare, nell’ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale (cfr. Cass., sez. 2, sentenza n. 1593 del 20/01/2017; Cass., sez. L, sentenza n. 2168 del 30/01/2013; Cass., sez. 3, sentenza n. 6502 del 10/05/2001).

Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

Dichiara il ricorso inammissibile e condanna la ricorrente al rimborso delle spese che liquida in complessivi Euro 6.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi ed accessori di legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, art. 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 2 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2021

Codice Civile > Articolo 3 - (Omissis) | Codice Civile

Codice Civile > Articolo 4 - Commorienza | Codice Civile

Codice Civile > Articolo 6 - Diritto al nome | Codice Civile

Codice Civile > Articolo 428 - Atti compiuti da persona incapace d'intendere o di volere | Codice Civile

Codice Civile > Articolo 463 - Casi d'indegnita' | Codice Civile

Codice Civile > Articolo 540 - Riserva a favore del coniuge | Codice Civile

Codice Civile > Articolo 591 - Casi d'incapacita' | Codice Civile

Codice Civile > Articolo 606 - Nullita' del testamento per difetto di forma | Codice Civile

Codice Civile > Articolo 2727 - Nozione | Codice Civile

Codice Civile > Articolo 2729 - Presunzioni semplici | Codice Civile

Codice Procedura Civile > Articolo 1 - Giurisdizione dei giudici ordinari | Codice Procedura Civile

Codice Procedura Civile > Articolo 5 - Momento determinante della giurisdizione e della competenza | Codice Procedura Civile

Codice Procedura Civile > Articolo 112 - Corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato | Codice Procedura Civile

Codice Procedura Civile > Articolo 115 - Disponibilita' delle prove | Codice Procedura Civile

Codice Procedura Civile > Articolo 132 - Contenuto della sentenza | Codice Procedura Civile

Codice Procedura Civile > Articolo 342 - Forma dell'appello | Codice Procedura Civile

Codice Procedura Civile > Articolo 345 - Domande ed eccezioni nuove | Codice Procedura Civile

Codice Procedura Civile > Articolo 360 - Sentenze impugnabili e motivi di ricorso | Codice Procedura Civile

Codice Penale > Articolo 476 - Falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici | Codice Penale

Codice Penale > Articolo 482 - Falsità materiale commessa dal privato | Codice Penale

Codice Penale > Articolo 489 - Uso di atto falso | Codice Penale

Codice Penale > Articolo 491 - Falsità in testamento olografo, cambiale o titoli di credito | Codice Penale

Codice Penale > Articolo 585 - Circostanze aggravanti | Codice Penale

Codice Penale > Articolo 643 - Circonvenzione di persone incapaci | Codice Penale

Codice Penale > Articolo 649 - Non punibilità e querela della persona offesa, per fatti commessi a danno di congiunti | Codice Penale

Codice Procedura Penale > Articolo 444 - Applicazione della pena su richiesta | Codice Procedura Penale

©2024 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472