LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –
Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –
Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –
Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 25181-2018 proposto da:
C.A., C.F., M.A., M.M.A., M.P.S., CE.AL., elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE IPPOCRATE 92, presso lo studio dell’avvocato ROSALBA GENOVESE, rappresentati e difesi dall’avvocato ANTONIO BALDASSARRA giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
P.I., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA A. FUSCO 104, presso lo studio dell’avvocato FEDERICO ANTIGNANI, rappresentata e difesa dall’avvocato LUCA COSTANTINI giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
e contro
D.F.A.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 1774/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 20/03/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 02/12/2020 dal Consigliere Dott. CRISCUOLO MAURO.
MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE M. Pasquale, dante causa degli odierni ricorrenti, nel 1994 assumendo di essere creditore di D.F.A. sottoponeva a pignoramento la quota di 1/2 dei beni immobili appartenenti al debitore, spettando la residua quota al coniuge P.I.. Il G.E. presso il Tribunale di Cassino con ordinanza del 17/2/2010, anche a seguito di istanza volta a procedere alla divisione avanzata dalla comproprietaria P.I., disponeva procedersi alla divisione dei beni pignorati, sospendendo la procedura esecutiva limitatamente ai beni ancora in comunione.
I ricorrenti introducevano il giudizio di divisione dinanzi allo stesso Tribunale e nel medesimo interveniva la P., che manifestava nuovamente il proprio interesse alla divisione dei beni.
All’esito dell’istruttoria, il Tribunale con la sentenza n. 380/2017 rigettava la domanda.
La Corte d’Appello di Roma con la sentenza n. 1774 del 20/3/2018 ha rigettato l’appello dei ricorrenti.
In primo luogo, evidenziava come la richiesta principale degli appellanti fosse quella di disporre la rimessione degli atti dinanzi al G.E. per procedere all’integrazione del pignoramento sull’intera quota dei beni, oggetto dell’iniziale pignoramento, richiesta che però esulava dalle competenze del giudice della cognizione, chiamato a pronunciarsi solo sulla domanda di divisione.
Quanto alla richiesta gradata di procedere alla divisione dei beni in comunione legale, la sentenza osservava che la natura dei diritti oggetto di causa era ostativa alla loro divisibilità, in quanto difettava l’esistenza di un bene comune suscettibile di scioglimento ex art. 1111 c.c..
Infatti, la Suprema Corte con alcune pronunce, a far data dal 2013, ha riconosciuto la pignorabilità per l’intero dei beni in comunione legale, atteso che si verte in materia di comunione senza quote o a mani riunite, per la quale il creditore può procedere all’aggressione in via esecutiva per l’intera proprietà, mancando una quota di spettanza dei singoli coniugi.
Avverso tale sentenza M.A., M.P.S., M.M.A., C.A., Ce.Al., C.F. propongono ricorso sulla base di tre motivi.
P.I. resiste con controricorso.
D.F.A. non ha svolto difese in questa fase.
Rileva il Collegio che in data 16/11/2020 è stata depositata istanza congiunta di rinvio a nuovo ruolo, sul presupposto che tra le parti sarebbe in corso di perfezionamento una definizione stragiudiziale della controversia.
Ritiene ila Corte che tuttavia tale istanza non possa trovare accoglimento e ciò sia in ragione del carattere tendenzialmente officioso del procedimento dinanzi al giudice di legittimità sia in ragione del carattere generico che connota l’istanza, che non specifica in dettaglio i termini nei quali si starebbe traducendo l’accordo delle parti, adducendo altresì l’esigenza di un rinvio per un periodo che si palesa eccessivo a detrimento dell’esigenza di assicurare una ragionevole durata anche del procedimento in sede di legittimità.
Il primo motivo di ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 11 Cost. (rectius art. 111 Cost.) e del relativo principio del giusto processo essendosi in presenza di “overruling” poichè il pignoramento risulta di 19 anni anteriore alla decisione della Corte di Cassazione n. 6575/2013.
Si evidenzia che il pignoramento della quota indivisa della metà dei beni in comunione legale era risalente al 1994, laddove la citata sentenza di legittimità, con la quale si è invece previsto che il pignoramento doveva essere effettuato per l’intero, è stata emessa solo nel 2013.
I ricorrenti avevano confidato nell’orientamento giurisprudenziale costante in passato con la conseguenza che la citata decisione costituisce una vera e propria ipotesi di overruling, come chiarito dalla stessa Suprema Corte, il che impone di ritenere erronea l’affermazione di nullità del pignoramento della quota indivisa, essendo altrettanto erroneo il rigetto della domanda di divisione.
Il secondo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 599,600,601 c.p.c. nonchè dell’art. 177 c.p.c. in quanto la sentenza gravata, negando la possibilità di procedere alla divisione, pur in presenza di un giudizio divisorio endoesecutivo (al cui esaurimento è correlata la conclusione della procedura esecutiva) ha surrettiziamente modificato l’ordinanza del G.E. che aveva invece ordinato la divisione, e ciò a mezzo di un provvedimento non risalente allo stesso G.E. Si aggiunge poi che le linee guida adottate da numerosi uffici di merito, al fine di fronteggiare la novità di cui alla sentenza n. 6575/2013, dettavano in maniera presso che uniforme la regola in base alla quale i giudizi di divisione dei beni in comunione legale sarebbero in ogni caso proseguiti.
Il terzo motivo lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia sulle questioni sollevate, riproponendosi le deduzioni in tema di improvviso mutamento di giurisprudenza e di impropria modifica del provvedimento del giudice dell’esecuzione, ed evidenziandosi che le stesse erano state poste anche in grado di appello, senza che però la Corte distrettuale si sia pronunciata.
I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono infondati.
Deve reputarsi del tutto priva di fondatezza la premessa, da cui parte nel complesso la difesa di parte ricorrente secondo cui i principi affermati da Cass. n. 6575/2013, in tema di pignorabilità dei beni facenti parte della comunione legale darebbero vita ad un’ipotesi di cd. overruling, idonea come tale a consentire l’applicazione dei principi affermati dalle Sezioni Unite n. 15144/2011.
A tal fine occorre ricordare che Cass. n. 6575/2013, più volte richiamata, ha, infatti, affermato che la natura di comunione senza quote della comunione legale dei coniugi comporta che l’espropriazione, per crediti personali di uno solo dei coniugi, di un bene (o di più beni) in comunione abbia ad oggetto il bene nella sua interezza e non per la metà, con scioglimento della comunione legale limitatamente al bene staggito all’atto della sua vendita od assegnazione e diritto del coniuge non debitore alla metà della somma lorda ricavata dalla vendita del bene stesso o del valore di questo, in caso di assegnazione (principio poi confermato dalla successiva giurisprudenza di questa Corte Cass. n. 6230/2016, richiamata dai giudici di appello, nonchè Cass. n. 2047/2019).
Va tuttavia escluso che con tale decisione sia intervenuto un mutamento interpretativo idoneo a scardinare un consolidato orientamento giurisprudenziale, che possa avere generato il legittimo affidamento della parte, come appunto richiesto dal richiamato precedente delle Sezioni Unite.
Come si ricava dalla motivazione della sentenza n. 6575/2013, la Corte ritenne di affermare il principio di diritto nell’interesse della legge, attesa l’inammissibilità del ricorso proposto, evidenziando al punto 6. che era stata posta una questione di particolare importanza, che, “in difetto di statuizioni esplicite da parte di questa Corte, ingenera attualmente sensibili differenze applicative ed incertezze interpretative…”.
Nell’argomentare poi circa le ragioni che inducevano alla soluzione riassunta in massima, si ribadiva che la comunione legale tra i coniugi costituisce, nella interpretazione giurisprudenziale assolutamente prevalente (fin da Corte Cost. 10 marzo 1988, n. 311), una comunione senza quote, nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente ad oggetto tutti i beni di essa e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei (Cass. 24 luglio 2012, n. 12923; Cass., ord. 25 ottobre 2011, n. 22082; Cass. 7 marzo 2006, n. 4890), trattandosi di comunione finalizzata, a differenza della comunione ordinaria, non già alla tutela della proprietà individuale, ma piuttosto a quella della famiglia.
La possibilità che la stessa possa sciogliersi nei soli casi previsti dalla legge ed il regime di indisponibilità da parte dei singoli coniugi, sin quando non decidano di mutare integralmente il loro regime patrimoniale, con atti dalla forma solenne opponibili ai terzi soltanto con l’annotazione formale a margine dell’atto di matrimonio, importa quindi che la quota non sia quindi un elemento strutturale della proprietà.
Inoltre, nei rapporti coi terzi, ciascuno dei coniugi, mentre non ha diritto di disporre della propria quota, può tuttavia disporre dell’intero bene comune.
Da tali premesse ha tratto, quindi, la conclusione dell’inapplicabilità sia della disciplina dell’espropriazione di quote (di cui all’art. 599 c.p.c. e s.s.), sia di quella contro il terzo non debitore, ed ha quindi affermato la necessità di dover aggredire il bene per l’intero, nei limiti dei diritti nascenti dalla comunione legale, con lo scioglimento della comunione legale limitatamente a quel bene.
Il richiamo, seppur per sintesi, alla motivazione della sentenza citata, denota con immediatezza l’erroneità dell’invocazione del principio del cd. overruling.
In primo luogo, rileva la circostanza che, in epoca anteriore alla decisione del 2013, non risultava che la Corte si fosse specificamente occupata della questione (nè la difesa dei ricorrenti richiama in ricorso la loro esistenza, limitandosi ad affermare, peraltro in maniera apodittica che il pignoramento della quota rispondesse ad un non meglio precisato indirizzo giurisprudenziale costante). Inoltre, è del tutto privo di conferenza il fatto che la giurisprudenza di merito avesse maturato un diverso convincimento, posto che, anche a voler tacere circa le contrarie indicazioni che si dovevano in ogni caso ricavare dalle affermazioni della Corte Costituzionale circa la natura giuridica della comunione legale, di recente questa Corte ha precisato che (Cass. S.U. n. 4135/2019) l’affidamento qualificato in un consolidato indirizzo interpretativo di norme processuali, come tale meritevole di tutela con il “prospective overruling”, è riconoscibile solo in presenza di stabili approdi interpretativi della S.C., eventualmente a Sezioni Unite, i quali soltanto assumono il valore di “communis opinio” tra gli operatori del diritto, se connotati dai caratteri di costanza e ripetizione, mentre la giurisprudenza di merito non può valere a giustificare il detto affidamento qualificato, atteso che alcune pronunce adottate in sede di merito non sono idonee ad integrare un “diritto vivente”.
La medesima sentenza ha poi ribadito che il “prospective overruling” è finalizzato a porre la parte al riparo dagli effetti processuali pregiudizievoli (nullità, decadenze, preclusioni, inammissibilità) di mutamenti imprevedibili della giurisprudenza di legittimità su norme regolatrici del processo sterilizzandoli, così consentendosi all’atto compiuto con modalità ed in forme ossequiose dell’orientamento giurisprudenziale successivamente ripudiato, ma dominante al momento del compimento dell’atto, di produrre ugualmente i suoi effetti, mentre non è invocabile nell’ipotesi in cui il nuovo indirizzo giurisprudenziale di legittimità sia ampliativo di facoltà e poteri processuali che la parte non abbia esercitato per un’erronea interpretazione delle norme processuali in senso autolimitativo, non indotta dalla giurisprudenza di legittimità, derivando l’effetto pregiudizievole direttamente ed esclusivamente dall’errore interpretativo della parte.
In tal senso va quindi osservato che, anche a voler accedere alla tesi dei ricorrenti, per effetto del preteso mutamento di giurisprudenza del 2013, alla parte dovrebbe essere concessa la possibilità di procedere al pignoramento dell’intero e non anche della quota indivisa, sicchè anche in tal caso verrebbe a prospettarsi ab origine un’autolimitazione della parte di facoltà processuali, nascente da un’erronea interpretazione delle norme processuali, che esula quindi dall’istituto invocato in ricorso.
Inoltre, atterrebbe a facoltà che non ricadono nell’ambito del giudizio di cognizione, quale appunto il giudizio di divisione, sebbene endoesecutivo (come si avrà modo di chiarire in prosieguo), ma che investono il diverso ambito del processo esecutivo, sicchè non potrebbe in questa sede invocarsi il riconoscimento di facoltà che si assumono essere precluse a seguito del mutamento di giurisprudenza, come appunto evidenziato dal tenore delle conclusioni dell’atto di appello, e come riportate nella sentenza gravata, laddove al punto 1) si chiedeva rimettersi gli atti al G.E. affinchè si potesse procedere all’integrazione del pignoramento.
In tal senso appare del tutto pertinente la risposta offerta dalla sentenza gravata che ha, appunto, ribadito come esulasse dalle proprie competenze incidere sul contenuto del diverso atto di pignoramento, dovendosi per converso limitare l’indagine alla sola decisione sulla domanda di divisione.
In secondo luogo rileva che, proprio avuto riguardo alla decisione di merito sulla divisione proposta a seguito del provvedimento del G.E., la ratio che sottende il rigetto della domanda stessa è correlata alla peculiare natura dei beni interessati dalla domanda per effetto del regime patrimoniale che li concerne, essendosi sottolineato che il giudizio de quo non è “giuridicamente attivabile perchè difetta un bene in comunione che debba essere oggetto di scioglimento ex art. 1111 c.c.”.
Ove si abbia riguardo a tale specificazione, nonchè alla richiesta avanzata in via gradata in sede di appello di procedersi in ogni caso alla divisione dei beni pignorati pro quota, la prospettazione difensiva dei ricorrenti mira a sorreggere un’applicazione del principio dell’overruling anche in relazione a norme sostanziali, in quanto si adduce che, per effetto della decisione del 2013, sarebbe mutata l’interpretazione delle norme di carattere sostanziale in tema di divisione dei beni in comunione legale, sicchè, avuto riguardo alla pretesa imprevedibilità del mutamento di giurisprudenza, si dovrebbe consentire ancora la divisione, risalendo l’introduzione del giudizio ad epoca anteriore al mutamento giurisprudenziale.
In aggiunta a quanto detto, circa i caratteri che deve avere il precedente orientamento giurisprudenziale per avallare il ricorso alle regole dettate in tema di overruling, va però fatto richiamo alla necessità che il mutamento della giurisprudenza debba concernere norme regolatrici del processo, e non anche disposizioni di natura sostanziale (Cass. 13 settembre 2018, n. 22345; 18 luglio 2016, n. 14634; 24 marzo 2014, n. 6862; 3 settembre 2013, n. 20172; 11 marzo 2013, n. 5962), principio questo che contrasta apertamente quanto nella sostanza invocato da parte ricorrente.
In terzo luogo, la già segnalata circostanza che la decisione oggetto di ricorso sia stata adottata all’esito di un giudizio di divisione, sebbene scaturente da un processo esecutivo, consente di evidenziare anche l’infondatezza della seconda censura che attiene alla pretesa modifica di un’ordinanza del G.E.
Ritiene il Collegio di dover far riferimento alle condivisibili argomentazioni di cui alla sentenza n. 20817/2018 che, chiamata a risolvere il controverso problema della forma da rispettare per l’atto introduttivo del giudizio di divisione endoesecutivo, pur prendendo atto che un tale giudizio di cognizione è divenuto ormai lo sviluppo normale di ogni procedura espropriativa avente ad oggetto una mera quota, ha chiarito che il suo collegamento funzionale con il processoesecutivo, già indiscusso in precedenza, e sottolineato dalla previsione del novellato art. 181 disp. att. c.p.c., in base alla quale – in forza del D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 23 ter, lett. f), convertito, con modificazioni, in L. 14 maggio 2005, n. 80, non fa perdere allo stesso il carattere di un ordinario giudizio di cognizione, sebbene destinato a svolgersi dinanzi al medesimo giudice dell’esecuzione – in funzione, ovviamente, di giudice istruttore civile – della procedura esecutiva, contestualmente sospesa in attesa della liquidazione della quota del debitore esecutato.
Ciò però non ha inciso sulla struttura e sulla funzione del giudizio in questione che continua a costituire una parentesi di cognizione – vale a dire un procedimento incidentale consistente in un vero e proprio giudizio di cognizione nell’ambito del procedimento esecutivo, in quanto tale restando autonomo, perchè soggettivamente ed oggettivamente distinto da questo, tanto da non poterne essere considerato nè una continuazione, nè una fase (per tutte: Cass. 10/05/1982, n. 2889; Cass. 08/01/1968, n. 44; Cass. 12/10/1961, n. 2096; ai fini dell’individuazione dei rimedi esperibili avverso i singoli atti di quello: Cass. 24/11/2011, n. 4499; Cass. sez. U 29/07/2013, n. 18185; Cass. ord. 29/12/2016, n. 27346).
Proprio la riaffermazione del principio di autonomia consente di escludere che il rigetto, peraltro nel merito, della domanda di divisione equivalga ad una surrettizia modifica dell’ordinanza del G.E. che abbia invece disposto la divisione del bene.
La volontà del G.E. di procedere alla divisione ha ricevuto attuazione (ed in tal senso vanno correttamente intese le linee guida adottate dai vari giudici dell’esecuzione a seguito della sentenza n. 6575/2013, laddove disponevano che i giudizi di divisione già pendenti dovessero proseguire) anche nel caso in esame, ma senza che la stessa vincoli o menomi l’autonomia del giudice della cognizione che, nell’ambito delle sue prerogative, ben può, come avvenuto nella fattispecie, pervenire al rigetto della domanda di divisione – nella vicenda in esame – in ragione della insuscettibilità di scioglimento della comunione insistente su beni ricadenti nella comunione legale, sin quando il relativo regime sia vigente, ovvero anche per altre ragioni (si pensi al caso in cui a fronte delle risultanze dei registri immobiliari, il bene pignorato pro quota si riveli essere di proprietà esclusiva del condividente ovvero di un terzo, per effetto di un intervenuto acquisto per usucapione, del quale non si rinvenga traccia nelle risultanze della pubblicità immobiliare).
Ad opinare come vorrebbero i ricorrenti, una volta disposta la divisione dei beni pignorati pro quota, al giudice della divisione non sarebbe data la possibilità di pervenire ad esito diverso dalla divisione dei beni, laddove è proprio la segnalata autonomia, che conserva il giudizio di divisione endoesecutivo, che lascia impregiudicata la possibilità per il giudice della cognizione di pervenire anche al rigetto della domanda di scioglimento della comunione.
Le superiori considerazioni, che trovano adeguato conforto nella motivazione del giudice di appello, che ha appunto ribadito i principi sinora esposti, consentono, infine, di rilevare anche l’infondatezza del terzo mezzo di gravame, dovendosi escludere che ricorra il vizio di omissione di pronuncia, non potendo l’art. 112 c.p.c. estendersi anche all’ipotesi di omessa presa in considerazione, non già di domande o eccezioni, ma di semplici tesi o argomentazioni difensive.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Nulla a provvedere per la parte intimata che non ha svolto attività difensiva.
Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese che liquida in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi ed accessori di legge;
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13. art. 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 2 dicembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2021
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