LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GRAZIOSI Chiara – Presidente –
Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –
Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –
Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –
Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 8812/2019 R.G. proposto da:
Associazione “Casa Famiglia R.” Onlus, rappresentata e difesa dall’Avv. Giovanni Marchese, con domicilio eletto in Roma, via della Giuliana, n. 35, presso lo studio dell’Avv. Maria Grazia Sirna;
– ricorrente –
contro
Azienda Sanitaria Provinciale di Caltanissetta, rappresentata e difesa dall’Avv. Paolo Riscica;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Caltanissetta, n. 573/2018, depositata il 29 marzo 2018;
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12 novembre 2020 dal Consigliere Emilio Iannello.
RILEVATO IN FATTO
1. La Corte d’appello di Caltanissetta ha confermato la decisione di primo grado che, in accoglimento dell’opposizione proposta dalla Azienda Unità Sanitaria Locale n. ***** di quella città, aveva revocato il decreto ingiuntivo nei suoi confronti emesso, su ricorso della Associazione “Casa Famiglia R.” Onlus, per l’importo di Euro 1.003.869,48, relativo a interessi maturati per il ritardato pagamento di compensi dovuti in relazione a servizi (di assistenza a tossicodipendenti e riabilitazione) resi fino al 2005.
Ha infatti rilevato, per quanto ancora in questa sede interessa, che l’associazione non aveva “nemmeno allegato di avere costituito in mora l’amministrazione creditrice, cosicchè nessun diritto al pagamento degli interessi può configurarsi”.
Ha soggiunto che, “quanto al credito di Lire 49.032.000 quale residuo della somma dovuta in forza della transazione del 28/5/1997 conclusa con la Asl, quest’ultima ha eccepito e provato l’estinzione del debito producendo la delib. che ha disposto il pagamento (n. 265 del 5/2/2004) ed il relativo atto dispositivo”.
2. Avverso tale sentenza l’Associazione “Casa Famiglia R.” Onlus propone ricorso per cassazione, articolando quattro motivi, cui resiste l’Azienda Sanitaria Provinciale di Caltanissetta, depositando controricorso.
3. Il ricorso è stato avviato alla camera di consiglio non partecipata della sesta sezione civile a seguito di proposta d’inammissibilità del relatore, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi della art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, artt. 4 e 11, per avere la Corte d’appello ritenuto insussistente il credito vantato, sull’assunto che sarebbe stato necessario un preventivo atto di messa in mora.
Rileva di contro che “dalla documentazione prodotta agli atti” è possibile evincere che la convenzione tra l’A.u.s.l. e l’associazione rientrava tra i contratti soggetti alla disciplina degli interessi moratori di cui al D.Lgs. n. 231 del 2002, con la conseguenza che, per il combinato disposto delle menzionate disposizioni, il riconoscimento degli interessi di mora sui compensi spettanti per le prestazioni rese dopo l’8/8/2002 o, almeno, per quelle discendenti dalla convenzione stipulata l’8/5/2003, non necessitava della preventiva costituzione in mora.
2. Con il secondo ed il terzo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, violazione degli artt. 112,115 e 116 c.p.c., anche in combinato disposto con l’art. 2697 c.c., e, rispettivamente, nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 161,156 e 132 c.p.c., in relazione all’affermazione, contenuta in sentenza, secondo cui il credito di Lire 49.032.000 era stato estinto e, quindi, non avrebbe dovuto far parte della somma complessiva richiesta.
Rileva che, in realtà, nel ricorso per decreto ingiuntivo e, comunque, in tutti gli atti del giudizio di opposizione, era stato precisato che tale somma, costituente il residuo del maggiore importo dovuto in forza della transazione del 28/5/1997, non era inclusa nel credito monitoriamente azionato.
Non avere la Corte di ciò dato conto comporta, secondo la ricorrente, da un lato (secondo motivo), violazione del principio di necessaria corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.), di quello di disponibilità delle prove (art. 115 c.p.c.) e, ancora, del principio di libera valutazione delle stesse (art. 116 c.p.c.) oltre che dei criteri di riparto dell’onere probatorio (art. 2697 c.c.); dall’altro, comporta anche (terzo motivo) violazione del dovere decisorio per manifesta contraddittorietà e illogicità della motivazione (art. 132 c.p.c.).
3. Il quarto motivo attinge, infine, il capo relativo alle spese processuali, del quale, in quanto “conseguenza dell’errata ed illegittima pronuncia di soccombenza”, si chiede la cassazione per effetto dell’auspicato accoglimento del ricorso.
Lamenta, inoltre, la ricorrente che la Corte non ha tenuto conto dell’accoglimento del motivo di appello relativo all’utilizzabilità, nel giudizio di opposizione, della documentazione prodotta nel procedimento monitorio.
4. Il ricorso si espone ad un preliminare ed assorbente rilievo di inammissibilità, per inosservanza del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3.
Risulta, infatti, inadeguata e sostanzialmente carente l’esposizione sommaria dei fatti, ivi richiesta a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione, allo scopo di garantire alla Corte di cassazione di avere una chiara e completa cognizione del fatto sostanziale che ha originato la controversia e del fatto processuale, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti in suo possesso, compresa la stessa sentenza impugnata (Cass. Sez. U. 18/05/2006, n. 11653).
Giova rimarcare che la prescrizione del requisito risponde non ad un’esigenza di mero formalismo, ma a quella di consentire una conoscenza chiara e completa dei fatti di causa, sostanziali e/o processuali, che permetta di bene intendere il significato e la portata delle censure rivolte al provvedimento impugnato (Cass. Sez. U. 20/02/2003, n. 2602).
Stante tale funzione, per soddisfare detto requisito è necessario che il ricorso per cassazione contenga, sia pure in modo non analitico o particolareggiato, l’indicazione sommaria delle reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le hanno giustificate, delle eccezioni, delle difese e delle deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, dello svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni e, dunque, delle argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si è fondata la sentenza di primo grado, delle difese svolte dalle parti in appello, ed infine del tenore della sentenza impugnata.
Nel caso di specie il ricorso, nell’esposizione del fatto, a dispetto dell’esposizione, a tratti prolissa e ripetitiva, della cronologia degli eventi processuali, non rispetta tali requisiti contenutistici.
Ciò in quanto gli unici “fatti sostanziali” dei quali si dà in ricorso indicazione, per lo più attraverso la testuale trascrizione di interi stralci di atti di parte o della sentenza d’appello, sono: a) quelli esposti nel ricorso monitorio ovvero negli atti di parte propri della stessa ricorrente; b) le ragioni del rigetto del gravame.
Nessuna indicazione, invece, nemmeno sintetica, è offerta: a) delle posizioni difensive assunte nel giudizio dalla controparte (si dice solo che la stessa ha proposto opposizione, ma nulla dei motivi che ne erano posti a fondamento); b) delle ragioni poste a fondamento della decisione di primo grado.
Solo parziale indicazione è anche offerta degli stessi motivi di gravame, essendo dell’appello proposto, testualmente, solo un ampio stralcio asseritamente costituente il pt. 3 dell’atto di appello, ma non è dato comprendere se fosse l’unico motivo di gravame o se ve ne fossero altri, nè quale fosse la ratio decidendi della sentenza di primo grado da esso investita.
Rimane quindi sostanzialmente impossibile comprendere quali fossero state le questioni dedotte e dibattute in primo grado e quali quelle devolute in appello.
Sufficienti lumi al riguardo non è dato trarre, in particolare, dalla trascrizione, come detto effettuata in ricorso, di ampio stralcio della sentenza d’appello.
Invero, ancorchè – come ha ritenuto, ribadendo un consolidato orientamento, Cass. Sez. U. 11/04/2012, n. 5698 – il requisito in discorso possa essere osservato dal ricorrente in cassazione anche attraverso la riproduzione della sentenza impugnata, ciò può tuttavia affermarsi a condizione che la sentenza impugnata contenga a sua volta un’esposizione chiara del fatto sostanziale e processuale (v. in tal senso Cass. 16/09/2013, n. 21137).
Nel caso di specie ciò non accade perchè la sentenza impugnata (almeno nella parte motiva, la sola trascritta in ricorso) non consta di una parte dedicata all’esposizione del fatto sostanziale.
La relativa illustrazione si limita a indicare la somma ingiunta e l’esito positivo della proposta opposizione, procedendo subito dopo la sentenza con l’esame del primo motivo di gravame riguardante varie questioni processuali, accolto solo nella parte in cui si lamentava la ritenuta tardività della produzione documentale e, quindi, con l’esame, nel merito, della fondatezza della pretesa creditoria, esclusa per le ragioni sopra dette.
Non è dato dunque, in definitiva, conoscere se e quali argomenti fossero stati dedotti e dibattuti, in appello, per supportare e, per converso, per contestare tale pretesa.
5. Stante tale preliminare e, come detto, assorbente rilievo è appena il caso di evidenziare che, comunque, i motivi di ricorso rivelano di per sè diverse ragioni di inammissibilità.
Il primo di essi, invero, prospetta una questione – quella della applicabilità alla fattispecie della disciplina sugli interessi di mora dettata dal D.Lgs. n. 231 del 2002, artt. 4 e 11 – che non risulta trattata nella sentenza impugnata.
Viene pertanto in rilievo il principio, pacifico nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di specificità del motivo, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo a questa Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (tra le tante, Cass. n. 15430/2018).
Difatti, il giudizio di cassazione ha, per sua natura, la funzione di controllare la difformità della decisione del giudice di merito dalle norme e dai principi di diritto, sicchè sono precluse non soltanto le domande nuove, ma anche nuove questioni di diritto, qualora queste postulino indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice di merito che, come tali, sono esorbitanti dal giudizio di legittimità (tra le molte, Cass. n. 15196/2018).
Tale è certamente la menzionata questione, per la quale non è certamente predicabile una natura meramente qualificatoria (ossia ricognitiva della corretta regola di giudizio applicabile alla fattispecie come accertata in sentenza), postulando la sua soluzione anche accertamenti di fatto che non risultano compiuti nella sentenza impugnata.
Occorre infatti rammentare che, come questa Corte ha già più volte precisato, nel caso di prestazioni sanitarie erogate, in favore dei fruitori del servizio, da strutture private pre-accreditate con lo Stato, il diritto di queste ultime a vedersi corrispondere dal soggetto pubblico gli interessi di mora, nella misura prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2002, sorge soltanto qualora, in data successiva all’8 agosto 2002, sia stato concluso, tra l’Ente pubblico competente e la struttura, un contratto avente forma scritta a pena di nullità (sussumibile nella “transazione commerciale” di cui al citato decreto, art. 2, comma 1, lett. a) con il quale l’Ente abbia assunto l’obbligo, nei confronti della struttura privata, di retribuire, alle condizioni e nei limiti ivi indicati, determinate prestazioni di cura da essa erogate (Cass. 02/07/2019, n. 17665; 11/10/2016, n. 20391; v. anche Cass. 28/02/2017 n. 5042, con riferimento specifico però al diverso caso dei rapporti tra il Servizio sanitario nazionale e le farmacie pubbliche e private, regolati non da contratto ma da regolamento, essendo stato reso esecutivo l’accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con le farmacie pubbliche e private con decreto del Presidente della VI Repubblica).
Un accertamento di merito circa l’esistenza di tale presupposto (contratto scritto, avente il descritto contenuto, “a valle” dell’accreditamento quale struttura convenzionata) non risulta compiuto in sentenza.
Può notarsi del resto che, della necessità di una previa ricognizione fattuale, più specifica di quella risultante dalla sentenza, perchè possa predicarsi l’applicabilità della evocata disciplina di origine comunitaria, appare consapevole la stessa associazione ricorrente, là dove (v. pag. 19, terzultimo cpv., del ricorso) fa riferimento alla “documentazione in atti” e segnatamente ad una Convenzione tra l’A.u.s.l. ed essa associazione dell’8/5/2003: riferimento, però, a sua volta del tutto generico e inosservante dell’onere di specifica indicazione del documento, imposto, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., n. 6.
6. Il secondo ed il terzo motivo si appalesano poi inammissibili per difetto di interesse.
Come detto essi investono la sentenza impugnata nella parte in cui esclude la spettanza di una certa somma (Lire 49.032.000), perchè già pagata, sul presupposto che essa fosse oggetto di domanda.
La ricorrente non si duole del mancato riconoscimento di tale somma, ma solo del detto presupposto: afferma cioè di non averla affatto chiesta con il ricorso per decreto ingiuntivo, precisando che questo riguardava esclusivamente le somme pretese a titolo di interessi di mora.
Trattasi, evidentemente, di questione del tutto priva di incidenza pratica sul contenuto performativo della sentenza.
L’errore segnalato, quand’anche sussistente, non porterebbe, una volta emendato, ad alcun diverso esito del giudizio, neppure sul piano del regolamento delle spese, rimanendo comunque piena e integrale la soccombenza per la denegata spettanza degli interessi di mora.
7. Il quarto motivo è, a ben vedere, un “non motivo”.
Lo stesso invero non prospetta alcuna specifica censura riconducibile al novero di quelle previste dall’art. 360 c.p.c..
Nessun rilievo censorio ha, infatti, la richiesta dell’annullamento della statuizione in punto di spese quale mera conseguenza dell’accoglimento dei precedenti motivi.
Ma nemmeno tale rilievo può assegnarsi al riferimento all’accoglimento del motivo d’appello con il quale si era dedotta l’erronea mancata ammissione di documenti, nel giudizio di primo grado.
La ricorrente lamenta invero, soltanto, che del riconoscimento, in sentenza, della fondatezza di tale doglianza il giudice d’appello “non ha tenuto conto” (è da ritenere, per implicito, data la collocazione grafica di tale rilievo, ai fini del regolamento delle spese).
Non spiega però come e per quale ragione avrebbe dovuto farlo, nè quale sia la regola processuale che, per tale omessa considerazione, sarebbe rimasta inosservata.
E’ appena il caso comunque di soggiungere che la ritenuta fondatezza, da parte dei giudici a quibus, di quella doglianza preliminare in rito, non ha poi avuto alcuna incidenza sull’esito del giudizio, confermativo della sentenza di primo grado e, dunque, della piena soccombenza dell’opposta/appellante: esito che di per sè certamente giustifica e rende insindacabile la condanna alle spese.
8. Il ricorso deve essere pertanto dichiarato inammissibile con la conseguente condanna della ricorrente alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dal L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13.
PQM
dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 14.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, il 12 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 7 gennaio 2021
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