Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.751 del 19/01/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

Dott. FRAULINI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4943-2014 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

R.I., GF DI G.D. & C SAS, G.D., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA GIAN GIACOMO PORRO 8, presso lo studio dell’avvocato CARLO GONELLA, che li rappresenta e difende;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 106/2013 della COMM.TRIB.REG. di TORINO, depositata il 09/07/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/10/2020 dal Consigliere Dott. FEDERICI FRANCESCO.

RILEVATO

che:

L’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso avverso la sentenza n. 106/34/2013, depositata il 9.07.2013 dalla Commissione tributaria regionale del Piemonte, che, confermando la sentenza di primo grado, aveva annullato l’avviso di accertamento con il quale erano stati contestati alla G.F. di G.D. & C. s.a.s. maggiori redditi ai fini Irap ed Iva per l’anno d’imposta 2005, ed ai soci G.D. e R.I. maggiori redditi di partecipazione.

L’accertamento, condotto ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), era stato fondato sulla rilevata antieconomicità dell’attività d’impresa, in passivo da alcuni anni, confortata, nella prospettazione dell’Ufficio, da una serie di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti.

Era seguito il contenzioso, esitato con sentenza n. 6/02/2012 dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Cuneo, che aveva annullato l’atto impositivo, ritenendo giustificati dai contribuenti i dati gestionali dell’impresa, pur negativi. L’appello dell’Amministrazione finanziaria era stato rigettato con la decisione ora al vaglio della Corte. In particolare il giudice regionale non ha riconosciuto l’efficacia presuntiva richiesta dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), agli elementi addotti dall’Agenzia delle entrate, valorizzando di contro le ragioni portate dai ricorrenti a propria difesa, ed in particolare che l’azienda, commissionaria nell’indotto FIAT e coinvolta nella crisi di committenze della grande azienda, aveva scelto di riconvertirsi, così producendo perdite per alcuni anni.

La ricorrente ha censurato la sentenza con due motivi:

con il primo per nullità della sentenza per inosservanza del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per assenza di supporto motivazionale della decisione;

con il secondo per violazione e falsa applicazione degli artt. 2697,2727 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione delle regole di buongoverno delle prove presuntive.

Ha pertanto chiesto la cassazione della sentenza, con ogni consequenziale determinazione.

Si sono costituiti la società e i suoi soci, contestando i motivi di ricorso, del quale hanno chiesto il rigetto. I controricorrenti hanno anche depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..

Nell’adunanza camerale del 20 ottobre 2020 la causa è stata discussa e decisa.

CONSIDERATO

che:

Il primo motivo, con cui ci si duole della nullità della pronuncia per le “affermazioni generiche prive di supporto motivazionale” dalle quali essa sarebbe permeata, è infondato.

Sussiste l’apparente motivazione della sentenza ogni qual volta il giudice di merito ometta di indicare su quali elementi abbia fondato il proprio convincimento, nonchè quando, pur indicandoli, a tale elencazione ometta di far seguire una disamina almeno chiara e sufficiente, sul piano logico e giuridico, tale da permettere un adeguato controllo sull’esattezza e logicità del suo ragionamento. Ciò accade anche quando, ancorchè graficamente esistente ed eventualmente sovrabbondante nella descrizione astratta delle norme regolatrici della fattispecie dedotta in giudizio, la motivazione parimenti impedisce un controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento decisorio, così da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6 (Cass., 30/06/2020, n. 13248; cfr. anche 5/08/2019, n. 20921). L’apparenza peraltro si rivela ogni qual volta la pronuncia evidenzi una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio (Cass., 14/02/2020, n. 3819).

Ebbene, nel caso di specie la sentenza pone l’attenzione sia sugli elementi presuntivi addotti dall’Agenzia, sia sulle ragioni evidenziate dai contribuenti, esprimendo infine un giudizio di valore, sicchè, condivisibile o meno, essa evidenzia il percorso logico seguito dal giudice d’appello, fondato sui dati a disposizione del processo. Il motivo dunque va rigettato.

Infondato è anche il secondo motivo, con il quale, sotto il profilo dell’error iuris in iudicando, la ricorrente si duole del malgoverno delle prove presuntive. L’Ufficio critica la decisione perchè, a fronte della condotta antieconomica evidenziata con l’atto impositivo e degli ulteriori elementi raccolti, era onere del contribuente dare prova che quello squilibrio di bilancio fosse riconducibile alla riconversione industriale della società, dopo la crisi di commesse riconducibili all’indotto FIAT.

La giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato che la tenuta della contabilità in maniera formalmente regolare non è di ostacolo alla rettifica delle dichiarazioni fiscali e, in presenza di un comportamento assolutamente contrario ai canoni dell’economia, che il contribuente non spieghi in alcun modo, è legittimo l’accertamento su base presuntiva, ed il giudice di merito, per poter annullare l’accertamento, deve specificare, con argomenti validi, le ragioni per le quali ritiene che l’antieconomicità del comportamento del contribuente non sia sintomatica di possibili violazioni di disposizioni tributarie (Cass., 8/07/2005, n. 14428; 7/04/2017, n. 9084). D’altronde, in riferimento all’Iva, si è opportunamente affermato che la circostanza che un’impresa commerciale dichiari per più annualità un volume di affari sensibilmente inferiore agli acquisti ed applichi modestissime percentuali di ricarico sulla merce venduta costituisce una condotta anomala, di per sè sufficiente a giustificare, da parte dell’Amministrazione, una rettifica della dichiarazione, ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, sicchè il giudice di merito, per poter annullare l’accertamento, deve spiegare le ragioni che giustifichino il comportamento del contribuente con validi argomenti, che non possono esaurirsi nella mera libertà di impresa riguardo alla propria politica commerciale (Cass., 9/06/2017, n. 14370).

Ebbene, nel caso di specie la Commissione regionale, dopo aver elencato i dati che a detta dell’Amministrazione finanziaria hanno costituito, unitamente alla antieconomicità dell’attività d’impresa per alcune annualità (2003-2005), indice presuntivo dei ricavi occultati dalla società contribuente, ha tuttavia ritenuto che essi non potevano corroborare una ricostruzione fondata su elementi certi in quanto è mancata la comparazione con quanto evidenziato dalla contribuente, ossia la collocazione di quegli indici nel contesto di una riconversione industriale intrapresa dalla società, al fine del passaggio dalla committenza di lavori dall’indotto FIAT, in crisi in quegli anni, ad altra clientela. Emerge una valutazione ponderata da parte della Commissione regionale, non inficiata dalla critica della ricorrente, secondo cui era onere della contribuente offrire la prova della riconversione. In realtà nel caso che ci occupa non ci si trova dinanzi a giustificazioni generiche offerte dal contribuente, bensì a dati storici ed oggettivi, che ben potevano essere valorizzati dal giudice d’appello nelle sue funzioni di governo delle prove presuntive. Tanto più che è dallo stesso ricorso dell’Agenzia che si evince come a tre anni di perdite (2003-2005) era seguito un triennio nel quale la società era tornata alla redditività, sebbene non ancora elevata ma in costante crescita. Nel quadro delle presunzioni, cioè, le giustificazioni addotte dalla contribuente sono state ritenute prevalenti e comunque atte a spiegare i risultati gestionali antieconomici del triennio 2003/2005, senza che la sentenza riveli salti logici o irrazionalità nelle conclusioni.

D’altronde, quanto al governo delle regole su cui si fonda la prova presuntiva anche in riferimento alla distribuzione dell’onere della prova, deve premettersi che compete alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione nomofilattica, il controllo della corretta applicazione dei principi contenuti nell’art. 2729 c.c. alla fattispecie concreta, poichè se è devoluto al giudice di merito la valutazione della ricorrenza dei requisiti enucleabili dagli artt. 2727 e 2729 c.c., per valorizzare gli elementi di fatto quale fonte di presunzione, tale giudizio è soggetto al controllo di legittimità se risulti che, nel violare i criteri giuridici in tema di formazione della prova critica, il giudice non abbia fatto buon uso del materiale indiziario disponibile, negando o attribuendo valore a singoli elementi, senza una valutazione di sintesi (cfr. Cass., 26/01/2007, n. 1715; 5/05/2017, n. 10973).

La giurisprudenza di legittimità ha tracciato il corretto procedimento logico del giudice di merito nella valutazione degli indizi, in particolare affermando che la gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge vanno ricavati dal loro complessivo esame, in un giudizio globale e non atomistico di essi (ciascuno dei quali può essere insufficiente), ancorchè preceduto dalla considerazione di ognuno per individuare quelli significativi, perchè è necessaria la loro collocazione in un contesto articolato, nel quale un indizio rafforza e ad un tempo trae vigore dall’altro in vicendevole completamento (ex plurimis cfr. Cass., 16/05/2017, n. 12002; 2/03/2017, n. 5374; 12/04/2018, n. 9059). Ciò che rileva, in base a deduzioni logiche di ragionevole probabilità, non necessariamente certe, è che dalla valutazione complessiva emerga la sufficienza degli indizi a supportare la presunzione semplice di fondatezza della pretesa, salvo l’ampio diritto del contribuente a fornire la prova contraria.

La sentenza gravata ha fatto buon uso di tali principi, perchè, sia pur sinteticamente, si è concentrata consapevolmente sugli elementi presuntivi fondanti dell’accertamento analitico-induttivo, senza che possano ritenersi violate le regole di governo delle prove presuntive.

In conclusione il ricorso va rigettato.

All’esito del giudizio segue la soccombenza del ricorrente anche nelle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano nella misura specificata in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso; condanna l’Agenzia delle entrate a rifondere alla Agenzia le spese del giudizio di legittimità sostenute dai ricorrenti, che si liquidano in Euro 7.300,00 per competenze, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura forfettaria del 15% e accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 20 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2021

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