Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.1072 del 14/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10304/2016 proposto da:

F.P., F.C., quali eredi di F.G., elettivamente domiciliati in Roma, Corso Trieste n. 87, presso lo studio dell’avvocato Antonucci Arturo, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato Vassalle Roberto, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

Banca Popolare Commercio e Industria S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via E. Q. Visconti n. 20, presso lo studio dell’avvocato Petrone Angelo, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato Ristuccia Renzo, giusta procura in calce al controricorso e ricorso incidentale;

avverso la sentenza n. 243/2016 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, pubblicata il 21/03/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 05/11/2021 dal Cons. Dott. FALABELLA MASSIMO.

FATTI DI CAUSA

1. – F.G. ha convenuto in giudizio innanzi al Tribunale di Brescia Banca Popolare Commercio e Industria s.p.a. assumendo: che aveva intrattenuto con la stessa banca un conto corrente di corrispondenza fin dal 13 maggio 1999; che dal 3 giugno 1999 era stato attivato un conto corrente speciale denominato “margini iniziali su contratti derivati”; che fino alla fine del 2001 egli aveva fatto confluire sul detto conto corrente la somma di Euro 247.899,00; che gli era stato consigliato di contrarre un debito in valuta estera per l’acquisto di prodotti finanziari giapponesi; che la banca, alla fine del 2001, lo aveva informato che gli investimenti avevano comportato una perdita del 90% del capitale; che il saldo a debito del conto corrente risultava essere di Euro 230.180,94; che la banca aveva negato ogni propria responsabilità quanto alla nominata perdita, posto che, a suo dire, era stato lo stesso cliente a impartire gli ordini di investimento; che esso istante aveva sottoscritto contabili di cui non aveva conosciuto il contenuto; che altre operazioni erano state effettuate dalla banca senza alcuna autorizzazione; che circa sessanta moduli di investimento presentavano una firma contraffatta; che la banca aveva agito in qualità di vero e proprio gestore del patrimonio altrui ed era tenuta a rispondere del suo operato.

Nella resistenza della convenuta, la quale ha spiegato domanda riconvenzionale per ottenere la condanna dell’attore al pagamento del saldo negativo del conto, il Tribunale di Brescia, con sentenza del ottobre 2009, ha accertato che gli ordini non sottoscritti dal cliente non potevano considerarsi da lui impartiti, onde ha ricondotto l’intero rapporto di negoziazione alla gestione di portafoglio di investimento, ha ritenuto il grave inadempimento della banca, sia per la negatività dei risultati, sia per l’assenza di trasparenza nell’operato dello stesso intermediario, e ha accolto la domanda di risoluzione proposta dall’attore, condannando la convenuta al pagamento della somma complessiva di Euro 182.684,12.

2. – La pronuncia è stata impugnata da entrambi i contendenti.

La Corte di appello di Brescia ha pronunciato, in data 21 marzo 2016, una prima sentenza non definitiva, con cui: ha condannato la banca a restituire gli importi utilizzati per gli investimenti di cui agli ordini non sottoscritti o recanti firma non autografa, maggiorati degli interessi al saggio legale dalla data dei singoli prelievi; ha condannato F. alla restituzione dei titoli acquistati; ha rigettato la domanda di risarcimento del danno proposta dall’investitore; ha condannato lo stesso a restituire l’importo ricevuto in esubero rispetto a quello dichiarato nella prima statuizione; ha dichiarato la nullità della clausola del contratto di conto corrente relativa alla capitalizzazione.

In sintesi, e per quanto ancora rileva, la Corte di merito ha rilevato che l’assenza di prova di ordini di investimento da parte del cliente non autorizzasse a ritenere che il rapporto si fosse svolto secondo le modalità proprie della gestione di portafogli; ha osservato che l’investitore aveva ricevuto l’informativa riguardo ai derivati oggetto di negoziazione; ha evidenziato che l’appellante aveva diritto ad ottenere la restituzione dei soli importi relativi agli ordini per i quali non risultava conferito l’ordine; ha escluso potesse pronunciarsi la risoluzione del contratto di intermediazione finanziaria, “rimanendo validi ed efficaci tutti quegli ordini per i quali era prova che fossero stati impartiti dal cliente”; ha accertato che F. era tenuto alla restituzione alla banca del finanziamento in yen, il cui importo era stato addebitato sul conto corrente; ha ritenuto che sugli importi che la banca era tenuta a restituire fossero dovuti interessi al saggio legale dalla data dei singoli prelievi; ha rilevato che la banca aveva prodotto in giudizio la scrittura privata che documentava il contratto quadro e che la stessa non era incorsa in alcuna preclusione a tale riguardo, dal momento che F. non aveva contestato nell’atto introduttivo del giudizio l’esistenza e la validità di tale contratto; ha dato atto della nullità della convenzione anatocistica contenuta nel contratto di conto corrente.

La stessa Corte di appello, dopo aver dato corso alla consulenza tecnica d’ufficio volta alla quantificazione degli importi addebitati per ordini non sottoscritti, o per i quali non era stata accertata l’autografia, oltre che alla rideterminazione del saldo del conto corrente al netto della illegittima capitalizzazione, ha pronunciato in data 25 agosto 2020 sentenza definitiva con cui il saldo in questione è stato stabilito in Euro 277.549,35 a debito di F.G..

3. – Sia la prima che la seconda pronuncia sono state impugnate. Avverso la prima F.P. e C., eredi legittimi di G., hanno proposto un ricorso per cassazione articolato in otto motivi. Banca Popolare Commercio Industria ha resistito proponendo, a sua volta, un’impugnazione incidentale che consta di tre censure. La sentenza definitiva è stata impugnata dai predetti F. con un ricorso per cassazione che consta di due motivi: resiste ad esso Unione di Banche Italiane s.p.a., subentrata nella posizione processuale di Banca Popolare Commercio e Industria. I F. hanno depositato memoria; così pure Intesa Sanpaolo s.p.a., che ha incorporato Unione Banche Italiane s.p.a..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – I motivi del ricorso principale svolto per impugnare la sentenza non definitiva si riassumono come segue.

Col primo motivo è denunciata la violazione dell’art. 1421 c.c., per omesso rilievo d’ufficio, nell’interesse dell’investitore, della nullità del rapporto di intermediazione finanziaria per mancanza di valido contratto quadro. Deducono i ricorrenti che la Corte di appello avrebbe mancato di considerare che lo scritto prodotto in giudizio dalla banca documentava una dichiarazione unilaterale della banca ed era perciò inidonea a comprovare la stipula di un vero e proprio contratto.

Il secondo mezzo oppone la violazione dell’art. 184 c.p.c., in relazione alla ritenuta tempestività della produzione del contratto quadro e censura la sentenza per una nullità del procedimento. Viene dedotto che la banca era onerata di dimostrare la valida costituzione del rapporto di negoziazione producendo in giudizio il documento contrattuale contemplato dall’art. 30 reg. Consob n. 11522/1998. Viene osservato che tale produzione era stata però operata tardivamente, con la memoria istruttoria di replica di cui all’art. 184 c.p.c.: in un frangente processuale, cioè, con cui erano consentite le sole produzioni in prova contraria.

Il terzo motivo lamenta la violazione del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23,artt. 30 e 47 reg. Consob n. 11522/1998 e dell’art. 112 c.p.c., e art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, “in relazione alla nullità del finanziamento all’investitore e alla mancanza di domanda di indebito della banca”. Viene ricordato come, in base al cit. art. 47, il contratto con gli investitori debba indicare i tipi di finanziamento previsti, il tasso d’interesse e ogni altro prezzo e condizione praticati o i criteri oggettivi per la loro determinazione, nonché gli eventuali maggiori oneri applicabili in caso di mora. Viene evidenziato che nel caso in questione la Corte di appello avrebbe dovuto prendere atto dell’assenza di indicazioni in tal senso per ricavarne la nullità del finanziamento. E’ inoltre lamentato che il giudice distrettuale abbia preso in considerazione la semplice eventualità di una nullità del finanziamento per farne discendere il diritto, da parte della banca, alla restituzione della somma erogata: viene spiegato che la motivazione della sentenza sarebbe sul punto incomprensibile, dal momento che, in presenza dell’invalidità, l’addebito effettuato sul conto corrente potrebbe essere privo di causa e inidoneo per di più a giustificare la contabilizzazione di interessi passivi. Deducono ancora i ricorrenti che la Corte territoriale sarebbe venuta meno al dovere di scrutinare la fondatezza della domanda e che la stessa non avrebbe potuto condannare F. alla ripetizione dell’indebito oggettivo in assenza della relativa domanda.

Col quarto motivo è prospettata la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione alla domanda di risoluzione del rapporto di conto corrente. Lamentano i ricorrenti che la Corte di appello avrebbe ingiustificatamente ignorato la domanda di risoluzione del contratto di conto corrente: domanda regolarmente formulata con la citazione di primo grado e riproposta in appello, basata sulla condotta della banca, la quale aveva disposto delle somme giacenti sul conto senza alcuna autorizzazione da parte del correntista.

Col quinto motivo è denunciato il vizio di ultrapetizione ex art. 112 c.p.c., in relazione alla condanna alla restituzione dei titoli oggetto di investimenti posti in essere in assenza di ordine. Vi si deduce che nessuna domanda a tale riguardo era stato proposta alla banca e che la Corte di merito non avrebbe potuto statuire alcunché sul punto.

Il sesto mezzo oppone la violazione del principio jura novit curia e del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 21, nonché dell’art. 28, comma 2 e art. 29 reg. Consob n. 11522/1998. Viene ricordato che l’attore aveva contestato, oltre alla mancanza degli ordini, anche l’inadempimento della banca agli obblighi informativi e agli ulteriori doveri che l’intermediario è tenuto ad osservare. Spiega l’istante che investitore non aveva l’obbligo di indicare le specifiche norme che la banca aveva violato, “essendo all’uopo sufficiente la contestazione, in concreto e chiaramente svolta dall’attore, che non solo la banca non aveva minimamente informato circa la rischiosità degli investimenti, ma aveva anche agito incautamente senza tutelare l’interesse del cliente”. E’ aggiunto che, del resto, non spettava all’attore, in relazione agli obblighi informativi, illustrare quali specifiche informazioni la banca avrebbe dovuto fornire e non aveva fornito.

Col settimo motivo la sentenza impugnata è censurata per violazione degli artt. 1453,1455 e 1458 c.c., in relazione agli inadempimenti riconosciuti dalla stessa sentenza quale giusta causa di risoluzione dell’intero rapporto di intermediazione; è rilevato che l’avvenuta esecuzione di un elevato numero di operazioni in assenza di autorizzazione del cliente costituisce grave inadempimento “sia agli obblighi assunti dalla banca con il mandato di intermediazione, sia al rapporto di conto corrente sul quale sono stati del tutto illegittimamente effettuati i correlativi addebiti”.

L’ottavo motivo denuncia la violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, in relazione alla domanda di danno. Si deduce, in sostanza, che la sentenza non avrebbe precisato se la statuizione relativa alla mancata prova del danno dovesse essere riferita oltre che alle operazioni poste in essere in assenza di ordine di investimento, anche alla generalità degli inadempimenti contestati alla banca: per modo che non sarebbe dato di comprendere la portata della decisione sul punto.

I motivi del ricorso incidentale della banca avverso la sentenza non definitiva possono così sintetizzarsi.

Il primo oppone l’omesso esame di fatto decisivo in relazione al dato della sottoscrizione del contratto prodotto da controparte all’interno dell’allegato 2 dell’atto di citazione di primo grado. La Corte di appello non avrebbe tenuto conto del contratto quadro di intermediazione del 1 marzo 2000, il quale regolamentava il rapporto con riferimento al periodo controverso, visto che tutte le perdite lamentate da F. si erano determinate nella vigenza del detto contratto.

Il secondo motivo concerne il tema della legittimità delle operazioni su strumenti finanziari in assenza di ordine scritto. L’istante denuncia la mancanza e illogicità della motivazione che avrebbe dovuto sorreggere la condanna della banca al pagamento degli importi investiti delle operazioni sui titoli per i quali mancava un ordine di investimento documentato. E’ inoltre opposto l’omesso esame di fatto decisivo: “l’insussistenza di un inadempimento della banca per aver dato corso ad ordini di compravendita pervenutile non necessariamente tramite moduli sottoscritti dal cliente ma anche nell’ambito dei contatti (diretti e telefonici) che con grande frequenza intercorrevano” tra F. e i funzionari della banca. Il mezzo di censura denuncia, inoltre, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23 e del regolamento attuativo n. 11522/1998, nonché degli artt. 2727 e 2729 c.c.: la Corte di Brescia avrebbe impropriamente ritenuto necessario che l’ordine di investimento fosse redatto per iscritto; inoltre avrebbe trascurato il quadro delle presunzioni da cui era dato desumere il consenso prestato da F. alle operazioni finanziarie volta per volta poste in essere.

Col terzo motivo di ricorso incidentale e opposta la nullità della sentenza per inesistenza della motivazione, nonché la violazione e falsa applicazione dell’art. 2033 c.c.. Viene lamentato che il giudice del gravame abbia fatto decorrere gli interessi sulle somme da restituire dalla data dei singoli prelevamenti: di contro, venendo in questione una ripetizione dell’indebito, avrebbe dovuto considerarsi che la prova della malafede doveva essere offerta dall’accipiens e che la medesima non avrebbe potuto avere ad oggetto il mero inadempimento dell’intermediario.

Con riguardo alla sentenza definitiva sono svolti dai F. i due motivi che seguono.

Il primo mezzo di censura oppone la violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, in relazione al rigetto della domanda di risoluzione per inadempimento del rapporto di conto corrente. Viene lamentato che la Corte di merito abbia erroneamente ritenuto che il rigetto della domanda di risoluzione del contratto di intermediazione implicasse la reiezione della domanda di risoluzione del contratto di conto corrente. Si deduce che la motivazione spesa sul punto dalla Corte di merito risulterebbe essere, al riguardo, incomprensibile.

Col secondo motivo la sentenza definitiva è impugnata per violazione degli artt. 112,115 e 183 c.p.c.. La doglianza investe la pronuncia nella parte in cui ha ritenuto legittima l’acquisizione, da parte del consulente tecnico, di estratti conto non prodotti dalla banca. Rilevano i ricorrenti che al detto consulente era preclusa l’apprensione della prova dei fatti costitutivi della domanda attrice.

2. – Preliminarmente deve procedersi alla riunione dei due ricorsi.

3. – Il primo motivo del ricorso principale avverso la sentenza non definitiva risulta essere stato rinunciato (cfr. memoria di F.P. e C.).

4. – Sempre con riguardo al primo dei giudizi riuniti, che investe la sentenza del 21 marzo 2016, vanno poi esaminati congiuntamente, in quanto connessi, il secondo motivo del ricorso principale e il primo motivo del ricorso incidentale.

Come ricordato in precedenza, la Corte di appello ha ritenuto tempestiva la produzione del contratto di negoziazione (attuata con la memoria istruttoria di replica, a mente dell’art. 184 c.p.c., nel testo vigente ratione temporis), in quanto la necessità di procedere a detto incombente era sorta in capo alla banca solo nel corso del giudizio, con la deduzione della nullità del contratto stesso.

In realtà la banca, quale attrice in riconvenzionale, era tenuta a documentare il contratto quadro – da annoverare tra i fatti costitutivi della pretesa azionata – indipendentemente dal contegno processuale tenuto dalla controparte: tant’e’ che il principio, sancito dall’art. 115 c.p.c., comma 1, secondo cui i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita possono essere posti a fondamento della decisione, senza necessità di prova, non opera nel caso in cui il fatto costitutivo del diritto azionato sia rappresentato da un atto (come quello che qui viene in esame) per il quale la legge impone la forma scritta ad substantiam, dal momento che in tale ipotesi, a differenza di quanto accade nel caso in cui una determinata forma sia richiesta ad probationem, l’osservanza dell’onere formale non è prescritta esclusivamente ai fini della dimostrazione del fatto, ma per l’esistenza stessa del diritto fatto valere, il quale, pertanto, può essere provato soltanto in via documentale (Cass. 17 ottobre 2018, n. 25999; Cass. 10 agosto 2001, n. 11054). In tal senso, è incongruo ritenere che la banca potesse profittare del termine per la prova contraria al fine di dar dimostrazione di un fatto (conclusione del contratto in forma scritta) che la controparte aveva, nella sostanza,negato, ma che essa era comunque tenuta a provare. Come ricordato da questa Corte, ai sensi dell’art. 184 c.p.c., il momento in cui scatta per le parti la preclusione in tema di istanze istruttorie è quello dell’adozione dell’ordinanza di ammissione delle prove, ovvero – nel caso in cui il giudice, su istanza di parte, abbia rinviato tale adempimento ad altra udienza – è quello dello spirare di un duplice termine, il primo concesso per la produzione dei nuovi mezzi di prova e l’indicazione dei documenti idonei a dimostrare l’esistenza dei fatti posti a fondamento della domanda attorea e delle eccezioni sollevate dal convenuto, il secondo previsto, invece, per l’indicazione della (eventuale) “prova contraria”, da identificarsi nella semplice “controprova” rispetto alle richieste probatorie ed al deposito di documenti compiuto nel primo termine. Ne consegue, che già entro lo scadere del primo termine la parte interessata ha l’onere di richiedere prova contraria in relazione ai fatti allegati dalla controparte e definitivamente fissati nel thema decidendum, ai sensi dell’art. 183 c.p.c. (Cass. 9 novembre 2017, n. 26574; Cass. 17 maggio 2013, n. 12119). “Lo stesso tenore letterale della norma esibisce, infatti, una distinzione di attività, entrambe assistite da un termine perentorio, là dove la seconda di esse – è cioè l’indicazione di “prova contraria” – è solo “eventuale” e, quindi, viene suscitata unicamente come “controprova” in relazione alle richieste probatorie ed al deposito di documenti evasi con il primo termine, correlandosi dunque alle “prove” e non già alle allegazioni fattuali, delle quali la norma non fa cenno alcuno. Del resto, giova rilevare che il primo termine previsto dall’art. 184 c.p.c., già consente (o meglio, impone) alla parte interessata di richiedere prova contraria sui fatti allegati dalla controparte, che sono stati definitivamente fissati nel thema decidendum ai sensi dell’art. 183 c.p.c., per cui si paleserebbe come inutile duplicazione, contraria al principio di economia processuale ed eccedentaria rispetto alle stesse esigenze della difesa, il disporre la perentorietà di un termine rispetto ad istanze probatorie che, poi, potrebbero essere proposte anche nel corso della decorrenza del secondo termine” (Cass. 17 maggio 2013, n. 12119, cit., in motivazione).

Il secondo motivo del ricorso principale avverso la sentenza non definitiva è dunque fondato.

Pure da accogliere è il primo mezzo del ricorso incidentale portato contro tale pronuncia.

Il motivo è effettivamente riconducibile al paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in quanto ciò di cui si duole l’istante è il mancato esame del fatto storico consistente nella stipula del contratto di intermediazione del 1 marzo 2003. La circostanza in questione assume rilievo decisivo: le operazioni controverse, come si legge nella sentenza impugnata (pag. 5), risultano essere state poste in essere da marzo 2000 a ottobre 2001 e trovano quindi tutte la loro regolamentazione nel richiamato contratto quadro. Era pertanto necessario prendere in considerazione il fatto storico consistente nella stipula del detto negozio di investimento: tanto più in considerazione della irrituale produzione in giudizio del primo contratto quadro.

4. – L’accoglimento dei due motivi di cui sopra determina l’assorbimento dei restanti motivi del ricorso principale, con l’eccezione del quarto, che si riferisce al distinto rapporto di conto corrente.

Quest’ultimo mezzo è fondato.

La sentenza impugnata non contiene infatti alcuna statuizione con riguardo alla domanda di risoluzione del contratto di conto corrente, trascritta a pag. 3 del provvedimento: domanda basata sugli “illegittimi e reiterati prelevamenti dal conto” posti in atto dalla banca ai danni di F. (cfr. pag. 26 del ricorso, ove è riprodotto lo stralcio della citazione di appello che qui interessa).

5. – Restano parimenti assorbiti il secondo e il terzo motivo del ricorso incidentale.

6. – Pure assorbito è il ricorso proposto contro la sentenza definitiva, che è travolta dall’effetto espansivo esterno della cassazione della sentenza non definitiva.

7. – Alla cassazione segue il rinvio dei due giudizi riuniti alla Corte di appello di Brescia che, in diversa composizione, statuirà pure sulle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte;

dispone la riunione dei giudizi; accoglie il secondo e il quarto motivo del ricorso principale del giudizio di cui al R.G. n. 10304/2016; accoglie il primo motivo del ricorso incidentale dello stesso giudizio; dichiara rinunciato il primo motivo del ricorso principale e assorbiti i restanti motivi, sia del ricorso principale, che del ricorso incidentale dello stesso giudizio R.G. n. 10304/2016; dichiara assorbito il ricorso di cui al R.G. n. 24734/2020; cassa e rinvia alla Corte di appello di Brescia, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 5 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2022

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