LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –
Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –
Dott. FIECCONI Francesca – rel. Consigliere –
Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA INTERLOCUTORIA
sul ricorso 3930/2019 proposto da:
CaR Pas Srl, in Liquidazione in persona liquidatore e S.M.
s.r.l., in persona legali rappresentanti, rappresentati e difesi dall’avv. Duccio Bari;
– ricorrenti –
contro
L.M., elettivamente rappresentata e difesa dall’Avv. Carlo Canessa;
avverso la sentenza n. 2701/2018 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 21/11/2018;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 13/10/2021 da Dott. FIECCONI FRANCESCA.
FATTI DI CAUSA
1. Con ricorso notificato il 21 gennaio 2019, illustrato da memoria, Car.Pas. s.r.l. in liquidazione, unitamente a S.M. s.r.l. (cedente e cessionaria del credito di cui è causa), impugnano la sentenza n. 2701/2018 del 21 novembre 2018 della Corte d’appello di Firenze, notificata il 22.11.2018; con atto notificato L.M. ha notificato controricorso, illustrato da memoria.
2. La sentenza impugnata, in riforma della sentenza di primo grado, ha rigettato la domanda avanzata dalla società Car. Pas nei confronti della sig.ra L., subentrata nel procedimento in qualità di erede di F.P., nei confronti del quale la società Car. Pas aveva chiesto il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale per occupazione parziale illegittima di un fabbricato, acquisito oltre 10 anni prima mediante asta.
3. La motivazione resa dalla Corte di merito si impernia, da un lato, quanto alla questione circa l’ampiezza della domanda di rigetto, sul rilievo che la erede del F., qui controricorrente, per quanto nel costituirsi si fosse limitata a sostenere la propria carenza di legittimazione passiva per avere accettato l’eredità con beneficio d’inventario (eccezione poi abbandonata in seguito all’accettazione eredità), nel costituirsi dopo la interruzione e riassunzione della causa per morte del convenuto, era comunque subentrata nella posizione processuale del convenuto deceduto che, nelle sue difese, aveva eccepito la carenza di prova del danno, dunque contestato la pretesa risarcitoria; dall’altro, sulla considerazione che sia pacifico che il danno da occupazione abusiva non possa riferirsi al danno in re ipsa, essendo un danno conseguenza che deve essere allegato e provato da parte del proprietario, sulla base della giurisprudenza più recente che avrebbe ritenuto non provata la pretesa risarcitoria dell’impresa attrice (citando Cass. n. 13071/2018).
4. In particolare, la Corte di merito ha ritenuto che, con riferimento alla occupazione parziale abusiva, la società non avesse sufficientemente provato di avere subito né i danni da una mancata vendita, non potendo tale circostanza essere provata per testi, né i danni inerenti a una non meglio precisata ritardata ristrutturazione dell’immobile, ritenendo detta circostanza non allegata nel primo grado di giudizio; che l’attrice appellata non avesse dato prova dei danni causati dal F. durante l’occupazione, in quanto le fatture allegate alla perizia giurata, anche a volerle considerare, non indicavano, nei rispettivi oggetti, alcunché in ordine ai beni in questione; che lo scoperto di conto corrente non potesse porsi in rapporto causale con la mancata presunta vendita del terreno; che la perizia giurata, tempestivamente contestata dal F., non potesse assurgere a prova idonea, costituendo una semplice allegazione difensiva, priva di autonomo valore probatorio, ed essendo comunque intrisa di valutazioni del consulente di parte, riprese da quanto riferitogli dalla parte. Concludeva pertanto che “in definitiva, se dalla vertenza è emerso il comportamento poco lecito del F., dall’altro manca totalmente la prova del danno subito da Car.Pas. s.r.l. che doveva essere da lei provato, non potendosi presumere un danno solo dalla ragione sociale della società e da una perizia giurata agli atti (tra l’altro contestata) che doveva essere da lei provato” (v. sentenza impugnata, pp. 6 e 7).
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo si denuncia: VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE dell’art. 112 c.p.c. – OMESSO ESAME DI FATTO DECISIVO E CONTESTATO – MANCATA CORRISPONDENZA TRA CHIESTO E PRONUNCIATO – ERROR IN PROCEDENDO – NULLITA’ DELLA SENTENZA E/O DEL PROCEDIMENTO ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, deducendo che la Corte di Appello, seppure abbia richiamato la corretta interpretazione della norma e del principio correlato in tema di interpretazione della domanda giudiziale, ne avrebbe fatto una applicazione erronea e fuorviante, avendo omesso un analitico esame del fatto decisivo contestato tra le parti, ovvero il contenuto dell’atto di costituzione in giudizio di primo grado della convenuta, come emergerebbe dalla sua lettura, ove non sarebbero state fatte proprie le difese del de cuius né, tanto meno, si sarebbero riportate le sue conclusioni. La motivazione resa dalla Corte sarebbe viziata da insanabile contraddittorietà, tanto da essere solo apparente, e sussisterebbe violazione o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., con conseguente nullità della sentenza e/o del procedimento per violazione del principio di corrispondenza tra chiesto ed il pronunciato, perché la erede del F., premettendo di avere accettato l’eredità di quest’ultimo con beneficio di inventario, nel costituirsi avrebbe dedotto soltanto di non essere nel possesso dei beni ereditari e per questo motivo di non poter stare in giudizio in rappresentanza dell’eredità. Si deduce pertanto che, ove la Corte d’Appello avesse correttamente interpretato e considerato la domanda della L. (come limitata all’eccezione processuale di carenza legittimazione passiva) avrebbe dovuto non solo rigettare il primo motivo di appello, ma prendere atto della mancata contestazione della domanda attorea da parte di quest’ultima e, quindi, dichiarare inammissibili anche tutti gli altri motivi di appello, concernenti il merito della domanda attorea (in quanto subordinati alla infondatezza o inammissibilità del primo).
2. Con il secondo motivo si denuncia ex art. 360 c.p.c., n. 3, VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DI NORME, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 CON RIFERIMENTO agli artt. 2043 e 2056 c.c., IN RELAZIONE agli artt. 1223,1226 e 2697 c.c.. Si deduce che alla pagina 5 della sentenza, il Giudice di appello avrebbe erroneamente ritenuto, in difformità con parte maggioritaria della giurisprudenza, la non sussistenza del danno in re ipsa per l’avvenuta occupazione senza titolo del cespite immobiliare, affermando: ” E’ pacifico nella giurisprudenza più recente che il danno derivante dall’avere continuato ad occupare senza titolo un immobile, non è un danno in “re ipsa”, ma un danno conseguenza che deve essere allegato e provato da parte del proprietario”.
3. Con il terzo motivo si denuncia VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE degli arti. 61, 191 c.p.c. e segg. e art. 201 c.p.c., IN RELAZIONE all’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 – OMESSO ESAME DI FATTO DECISIVO E CONTESTATO – ERROR IN PROCEDENDO – NULLITA’ DELLA SENTENZA E/O DEL PROCEDIMENTO, stante l’irriducibile illogicità e apparenza della motivazione laddove sancisce che “Altro principio giuridico affermato dalla Cassazione e costante da tempo è che la consulenza tecnica di parte costituisce una semplice allegazione difensiva, priva di autonomo valore probatorio, posto che il contenuto tecnico del documento non vale ad alterarne la natura, che resta quella di atto difensivo, e non può, neppure essere oggetto di consulenza tecnica di ufficio (ex multis Cass. Civ. 16552/15). Si denuncia che la illogicità manifesta, emergente dalla sentenza, sarebbe evidente e rilevante in quanto dall’affermazione della irrilevanza probatoria della consulenza tecnica di parte e dal mancato esperimento della Ctu, la Corte avrebbe fatto discendere la decisione, avendo ignorato il contenuto della perizia e dei documenti ivi allegati.
4. Con il quarto motivo si deduce “VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE degli artt. 2721 e 2725 c.c., IN RELAZIONE all’art. 245 c.p.c. e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 – OMESSO ESAME DI FATTO DECISIVO E CONTESTATO – ERROR IN PROCEDENDO – NULLITA’ DELLA SENTENZA E/O DEL PROCEDIMENTO, ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5. Si critica l’affermazione con cui il Giudice d’Appello ha affermato che ” non è stato provato che la Carpas abbia perso delle possibili vendite o proposte, non essendo possibile provare dette circostanze per testi, ma solo con documenti”, adducendo che tale statuizione è in palese violazione degli artt. 2721 e 2725 c.c., come correntemente interpretati dalla giurisprudenza di legittimità. Si deduce che il divieto di provare per testimoni si riferisce infatti (solo) ai casi in cui il contratto sia invocato in giudizio dalle parti contraenti quale fonte di diritti ed obblighi, non anche quando sia dedotto in giudizio quale semplice fatto storico influente per la decisione (Cass. 15/3336, 05/24395 e altre; nonché 10/26003, 05/18779); inoltre detto limite varrebbe solo per le parti contrattuali. Nel caso di specie si tratterebbe infatti di accertare non un contratto, bensì fatti storici relativi alla impossibilità di trattare la vendita del cespite immobiliare perché occupato, che è attività diversa, precedente e propedeutica, al contrarre.
4.1. Si assume, di contro, che la Suprema Corte, con diverse pronunce, abbia riservato il medesimo valore probatorio, di semplice allegazione difensiva, anche alle perizie di parte giurate (ex multis Cass. Civ. n. 5687/01 e 2063/10)” (pag. 6 sentenza).
5. Con il quinto motivo, si denuncia VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE dell’art. 1223 c.c., IN RELAZIONE agli artt. 2043 e 2056 c.c., E art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 OMESSO ESAME DI FATTO DECISIVO E CONTESTATO – ERROR IN PROCEDENDO – NULLITA’ DELLA SENTENZA E/O DEL PROCEDIMENTO. Art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, in merito alla affermazione della Corte d’Appello secondo cui “Non si può infine mettere in nesso causale lo scoperto di conto corrente della Carpas con la mancata (presunta) vendita del terreno”, in quanto lesiva della norma di cui all’art. 1223 c.c., così come richiamato dagli artt. 2043 e 2056 c.c., nonché dei principi di diritto in tema di nesso di causalità. Si adduce che in ambito civilistico il concetto di nesso causale va declinato sulla base delle teorie della condicio sine qua non e della causalità adeguata (citando in proposito ex multis Cass. 15/12923, 14/10184, 10/26042, 07/21619).
5.1. Si denuncia, in sostanza, che i fatti risultati come documentati e/o non contestati in giudizio, dimostrano inequivocabilmente il nesso di causalità tra l’evento “occupazione abusiva” e il danno derivato dagli interessi passivi sul finanziamento su conto corrente, se solo si considera che:
1. la Carpas è società commerciale avente ad oggetto l’acquisto, costruzione, ristrutturazione e vendita di immobili;
2. nell’esercizio della propria attività nell’anno 2002 ha acquistato all’asta pubblica i beni in oggetto con un investimento superiore a 1.000.000 di Euro;
3. nell’ambito della propria programmazione economico-finanziaria la Carpas ha avuto accesso a un finanziamento bancario su conto corrente che ha prodotto, per il periodo di scoperto 2005-2009, interessi passivi per la considerevole somma di Euro 116.000,00, come documentati e descritti nella perizia di parte e suoi allegati (contenuta come documento 29 nel fascicolo di parte del primo grado).
5.2. In sintesi, non sarebbe stato adeguatamente considerato che la società Carpas era nata e si era concentrata su questa importante iniziativa immobiliare e non possedeva nessun altro immobile di valore; né che, d’altra parte, è innegabile che abbia subito un danno da “costo del denaro” per il notevole ritardo con cui ha potuto sviluppare il piano imprenditoriale sul cespite acquisito e che sarebbe stato sufficiente, in proposito, considerare che circa 1.000.000 di Euro di investimento sono stati bloccati per 9 anni (dal 2002 al 2011) a causa dell’occupazione del F., sicché se anche si volesse, in ipotesi, considerare una normale percentuale di redditività del denaro e/o del bene al 3-4% annui (per 9 anni), si potrebbero ritenere concretizzati ben 270.000-360.000 Euro di danni.
6. Con il sesto motivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, si deduce VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE dell’art. 1226 c.c., IN RELAZIONE agli artt. 2043,2056 e 1223 c.c. E art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 – OMESSO ESAME DI FATTO DECISIVO E CONTESTATO – ERROR IN PROCEDENDO – NULLITA’ DELLA SENTENZA E/O DEL PROCEDIMENTO. Art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5.
6.1. Secondo la società ricorrente anche l’affermazione relativa alla valutazione equitativa del danno denoterebbe una falsa ed erronea applicazione della norma e del principio di diritto. Quando la Corte d’Appello afferma che (pag. 6 sentenza) danno in senso giuridico…. vi sarà soltanto se dalla lesione del diritto sia altresì derivata una perdita, patrimoniale o non patrimoniale che sia, senza che il danno possa essere liquidato “in via equitativa” ex art. 1226 c.c….” e che “…La liquidazione equitativa è consentita solo quando il danno sia certo nella sua esistenza, ma indimostrabile nel suo ammontare…” in verità applicherebbe l’art. 1226 c.c., in maniera erronea e fuorviante rispetto al caso sottoposto alla sua attenzione. La valutazione equitativa non sarebbe stata necessaria, se non de residuo, in quanto, da un lato, per la quantificazione “ordinaria” del danno risultavano agli atti una serie di elementi e documenti, da ritenersi sufficienti (anche mediante l’utilizzo di presunzioni semplici); dall’altro, perché si sarebbe potuta svolgere una Ctu per ricavare dai documenti allegati gli elementi più consoni alla liquidazione del danno.
6.2. La Corte avrebbe infatti dovuto scindere la valutazione dell’an debeatur da quella del quantum debeatur e, così facendo, non sarebbe incorsa nella violazione di legge sulla applicabilità dell’art. 1226 c.c.. La Corte avrebbe dovuto ritenere provato l’an debeatur, ovvero l’esistenza del danno: in primis per la sussistenza del danno in re ipsa; secondariamente perché, anche a volere per assurdo escludere il danno in re ipsa, la chiamata in causa erede del convenuto non si è opposta alla domanda né ha contestato l’esistenza del danno; inoltre la Carpas avrebbe fornito presunzioni precise e concordati sull’an debeatur, ovvero sul fatto che l’occupazione abusiva le avrebbe impedito lo svolgimento della propria attività imprenditoriale. Pertanto, la Corte d’Appello avrebbe dovuto prendere atto della sussistenza di una ipotesi di danno in re ipsa e porsi soltanto il problema della sua quantificazione.
7. Con il SETTIMO MOTIVO si deduce VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE degli artt. 2727 e 2729 c.c., IN RELAZIONE all’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 – OMESSO ESAME DI FATTO DECISIVO E CONTESTATO – ERROR IN PROCEDENDO – NULLITA’ DELLA SENTENZA E/O DEL PROCEDIMENTO. Ex Art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, la ricorrente deduce che se la Corte d’Appello avesse correttamente applicato le norme di diritto in tema di presunzioni avrebbe certamente dichiarato la sussistenza del danno (an debeatur) vista la presenza di una serie di elementi e presunzioni “gravi, precise e concordanti”. Così come, sempre sulla base degli elementi presuntivi, avrebbe dovuto pervenire ad una quantificazione del danno (quantum debeatur) di giustizia e di ragione, in ipotesi e/o de residuo con valutazione equitativa.
7.1. Il Giudice d’Appello, affermando che “la Carpas non ha dato alcuna prova… che detta occupazione le abbia creato un danno” avrebbe omesso di esplicitare il criterio logico posto a base della sua convinzione per cui i documenti depositati, nel loro complesso, non potevano fornire una valida prova presuntiva, sulla base di quanto indicato da Cass. 23201/2015 (secondo cui “affinché l’apprezzamento dell’efficacia sintomatica dei fatti noti sfugga al sindacato del giudice di legittimità, è necessario, non solo che essi vengano considerati sia singolarmente che nella loro globalità, all’esito di un giudizio di sintesi, per come teste’ esplicitato, ma anche che del convincimento così maturato il decidente dia una motivazione adeguata e corretta sotto il profilo logico e giuridico (cfr. anche Cass. civ. 28 ottobre 2014, n. 22801; Cass. civ. 6 giugno 2012, n. 9108). Il che, specularmente, comporta la sindacabilità di una valutazione che abbia pretermesso, senza darne ragione, uno o più fattori aventi, per condivisibili massime di esperienza, un’oggettiva portata indiziante).
7.2. La ricorrente richiama, in conclusione, l’insegnamento di Cass. 8053/2014, in motivazione: “…Infatti, la peculiare conformazione del controllo sulla motivazione non elimina, sebbene riduca (ma sarebbe meglio dire, trasformi), il controllo sulla sussistenza degli estremi cui l’art. 2729 c.c., comma 1, subordina l’ammissione della presunzione semplice. In realtà è in proposito possibile il sindacato per violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. Ciò non solo nell’ipotesi (davvero rara) in cui il giudice abbia direttamente violato la norma in questione deliberando che il ragionamento presuntivo possa basarsi su indizi che non siano gravi, precisi e concordanti, ma anche quando egli abbia fondato la presunzione su indizi privi di gravità, precisione e concordanza, sussumendo, cioè, sotto la previsione dell’art. 2729 c.c., fatti privi dei caratteri legali, e incorrendo, quindi, in una falsa applicazione della norma, esattamente assunta nella enunciazione della “fattispecie astratta”, ma erroneamente applicata alla “fattispecie concreta”….. oggetto del controllo in sede di legittimità è la plausibilità del percorso che lega la verosimiglianza delle premesse alla probabilità delle conseguenze. L’implausibilità delle conclusioni può risolversi tanto nell’apparenza della motivazione, quanto nell’omesso esame di un fatto che interrompa l’argomentazione e spezzi il nesso tra verosimiglianza delle premesse e probabilità delle conseguenze e assuma, quindi, nel sillogismo, carattere di decisività: l’omesso esame è il “tassello mancante” alla plausibilità delle conclusioni rispetto alle premesse date nel quadro del sillogismo giudiziario” (citando Cass. 8053/29014, in motivazione).
7.3. All’uopo, si adduce che la società Car.pas. s.r.l., oggi in liquidazione, quale impresa immobiliare, aveva acquistato il compendio al pubblico incanto e conseguentemente sarebbe inevitabile il ricorso alla presunzione che il bene sarebbe stato utilizzato per scopi speculativi e di lucro, dalla rivendita a terzi alla ristrutturazione finalizzata alla rivendita (quale è l’oggetto specifico della ridetta società). Non si sarebbe, pertanto, tenuto conto del fatto che la Car.pas. Srl era (ed e’) una cd società “di scopo”, costituita unicamente per la realizzazione di un singolo progetto immobiliare, senza altre attività in ulteriori ambiti commerciali od anche solamente in altri cantieri. Sarebbe pertanto illogico ritenere – non foss’altro per id quod plerumque accidit – che tale intervento, realizzato da parte di una società costituita a quell’unico scopo, potesse avere finalità diverse dalla speculazione immobiliare (con costruzione/ristrutturazione del cespite immobiliare e successiva alienazione a terzi) o che comunque fosse indifferente per la proprietà poter fruire liberamente del bene al momento dell’acquisto piuttosto che solamente dopo anni di controversie giudiziarie volte ad ottenere la liberazione sostanziale (e non solo formale) dell’immobile.
7.4. Si puntualizza che la Car.pas. Srl si era spinta ben oltre alle mere presunzioni, depositando adeguata prova dei danni subiti mediante la ricostruzione operata dal Perito B. S. (doc. 29 allegato all’atto di citazione 1 grado) e chiedendo l’ammissione di prova per testi sul punto, oltre alla richiesta di disposizione di una Consulenza Tecnica d’Ufficio da effettuarsi nel caso in cui la ctp fosse stata ritenuta non sufficiente per il raggiungimento della prova; che tutte le richieste istruttorie avanzate da parte di Car.pas. Srl (tranne ovviamente il mero deposito documentale) venivano ritualmente ribadite anche in sede di comparsa di costituzione in appello, nonché fatte oggetto di appello incidentale, ma nuovamente tali richieste venivano disattese da parte del Giudice.
7.5. Si sostiene che la perizia di parte (doc. 29 del fascicolo di parte del primo grado) sia una legittima “fonte di prova”; non tanto o non solo per le valutazioni tecniche dedotte, quanto soprattutto per i documenti ivi allegati (ben 35) e che il F. mai abbia contestato né la natura di società immobiliare della Carpas, né il suo oggetto sociale, né il suo scopo di lucro (incontestabile), né l’acquisto all’asta pubblica e l’intento speculativo che la muoveva; né l’inesistenza di altri beni di valore nel patrimonio si Car.Pas.
7.6. In atti, sarebbero in thesi documentati (o non contestati) una serie di fatti storici che il Giudice di Appello non avrebbe minimamente considerato: l’oggetto sociale della Carpas, cioè l’esercizio di una impresa immobiliare; l’acquisto fatto all’asta quale risultato della propria attività di impresa; il rilevante investimento fatto per l’acquisto del bene, per oltre un milione di Euro; l’inesistenza di altri cespiti di valore a bilancio della Carpas; l’apertura di un finanziamento e l’importo degli interessi corrisposti da Carpas negli anni; la diminuzione percentuale di valore dell’immobile tra il 2006 ed il 2008 sulla base delle tabelle Omi allegate; le considerazioni tecniche del perito di parte, anch’esse da ritenersi non contestate.
7.7. Tutti questi elementi sarebbero stati quindi a disposizione del giudicante come fatti noti (provati e/o non contestati) per risalire a fatti ignoti (art. 2727 c.c.) in ordine al danno ricevuto.
8. Tutto quanto sopra premesso conduce il Collegio a ritenere che il secondo motivo sia pregiudiziale rispetto agli altri dedotti, in quanto pone il rilevante interrogativo se, in subiecta materia, il danno da occupazione sine titulo debba o non considerarsi in re ipsa.
8.1. La questione de qua è certamente rilevante ai fini del decidere posto che i motivi che seguono al secondo motivo intendono tutti contestare la sentenza, sotto svariati profili, per violazione di legge o per la totale carenza di motivazione, ovvero insanabile contraddittorietà, in relazione alla affermazione di totale carenza di prova del danno subito dalla società che pur avendo acquisito il bene all’asta pubblica, non è riuscita a riottenerne la libera disponibilità, per circa un decennio, a causa della illecita parziale occupazione da parte dell’occupante abusivo, sulla base del fatto che non si sarebbe considerato il diverso onere probatorio, e glì indici presuntivi, comunque già ben rappresentati e documentati, del suddetto danno, non essendo in ogni caso state ammesse le prove costituende e la CTU ai fini della valutazione del danno effettivamente subito o, comunque, non avendo il giudice di merito svolto una valutazione equitativa del danno, da considerarsi in re ipsa quanto alla sua sussistenza.
8.2. Sul punto, osserva il Collegio che in tema di prova del danno da occupazione illegittima di immobile, la Corte di merito, nella sentenza impugnata, ha inteso recepire una corrente giurisprudenziale che ripudia il concetto di danno in re ipsa, senza menzionare che tale indirizzo, sul punto, non è così pacifico, atteso che una parte della giurisprudenza, coeva a quella citata, ritiene che il danno del proprietario usurpato sia in re ipsa, in quanto si rapporta al semplice fatto della perdita di disponibilità del bene da parte del “dominus” ed all’impossibilità per costui di conseguire l’utilità normalmente ricavabile dal bene medesimo in relazione alla natura normalmente fruttifera di esso.
8.3. Secondo questo secondo indirizzo, la sussistenza del diritto al risarcimento ben può essere determinata dal giudice sulla base di elementi presuntivi, facendo riferimento al c.d. danno figurativo e, quindi, ad esempio con riguardo al valore locativo del cespite abusivamente occupato (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10498 del 08/05/2006; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 3251 del 11/02/2008; Cass. Sez. 3, 10 Febbraio 2011 n. 3223; Cass. sez. 3, 16 aprile 2013 n. 9137; Cass. Sez. 2, 28 maggio 2014 n. 11992; Cass., Sez. 2, 15 Ottobre 2015 n. 20823; Cass. Sez. 3, 9 agosto 2016 n. 16670; Cass. Sez. 2 -, Ordinanza n. 20545 del 06/08/2018; Cass. Sez. 6 2, Ordinanza n. 21239 del 28/08/2018 Cass. 8137/2018; Cass. Sez. 2 -, Ordinanza n. 20708 del 31/07/2019; Cass. Sez. 2, ord. n. 39/2021).
8.4. Tale differente orientamento si basa sull’assunto che il diritto di proprietà ha insite le facoltà di godimento e disponibilità del bene che ne forma oggetto: sicché, una volta soppresse tali facoltà per effetto dell’occupazione illegittima, l’esistenza d’un danno risarcibile può ritenersi sussistente sulla base di una praesumptio hominis, superabile solo con la dimostrazione concreta che il proprietario, anche se non fosse stato spogliato, si sarebbe comunque disinteressato del suo immobile e non l’avrebbe in alcun modo utilizzato. Per quanto attiene, poi, alla concreta stima del danno, l’orientamento in esame ritiene che questa possa avvenire anche facendo riferimento al cosiddetto danno “figurativo” (così si esprime, da ultimo e con maggiore incisività, Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 39 del 07/01/2021).
8.5. Per tale via, la decisione n. 39/2021 della Corte di cassazione, sez. 2, ha inteso “dare continuità alla più recente giurisprudenza di questa Corte (Cass. N. 32108/2019; Cass. N. 1657/2019) là dove ha rilevato che, nel caso di occupazione illegittima di un immobile, il danno subito dal proprietario è in realtà oggetto di una presunzione correlata alla normale fruttuosità del bene, presunzione che, tuttavia, essendo basata sull’id quod plerumque accidit, ha carattere relativo, iuris tantum, e quindi ammette la prova contraria (Cass. 7 agosto 2012, n. 14222; Cass. 15 ottobre 2015, n. 20823; Cass. 9 agosto 2016, n. 16670), non potendosi quindi correttamente sostenere che si tratti di un danno la cui sussistenza sia irrefutabile, posto che la locuzione “danno in re ipsa” va tradotta in altre (“danno normale” o “danno presunto”), più adatte ad evidenziare la base illativa del danno, collegata all’indisponibilità del bene fruttifero secondo criteri di normalità, i quali onerano l’occupante alla prova dell’anomala infruttuosità di uno specifico immobile.
8.6. La recente ordinanza n. 39/2021, peraltro, specifica che la nozione di danno in re ipsa può trovare riconoscimento nel nostro ordinamento, atteso che il danno da occupazione “sine titulo”, in quanto particolarmente evidente, può essere agevolmente dimostrato sulla base di presunzioni semplici, e implica un alleggerimento dell’onere probatorio di tale natura che, tuttavia, non può includere anche l’esonero dalla allegazione dei fatti che devono essere accertati, concretandosi nell’intenzione concreta del proprietario di mettere l’immobile a frutto. Talché nel caso specifico ha ritenuto corretta l’affermazione del giudice secondo cui la parte danneggiata non ha mai provato, né adeguatamente allegato le circostanze idonee a fondare alcun danno derivante dall’occupazione sine titulo dell’immobile da parte delle sue controparti, ma ha semplicemente “riportato in maniera del tutto indicativa il valore del canone di locazione”, senza mai dimostrare di aver perso occasioni favorevoli per locare l’immobile, ovvero di aver sofferto altri pregiudizi patrimoniali, lasciando così la sua pretesa sfornita di allegazione e prova, che correttamente i giudici di merito hanno provveduto a respingere.
9. Nel caso di specie, invece, la Corte d’appello ha ritenuto di dovere aderire all’orientamento, indicato come pacifico, che assume che “Nel caso di occupazione illegittima di un immobile il danno subito dal proprietario non può ritenersi sussistente “in re ipsa”, atteso che tale concetto giunge ad identificare il danno con l’evento dannoso ed a configurare un vero e proprio danno punitivo, ponendosi così in contrasto sia con l’insegnamento delle Sezioni Unite della S.C. (Cass. SU sent. n. 26972 del 2008) secondo il quale quel che rileva ai fini risarcitori è il danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato, sia con l’ulteriore e più recente intervento nomofilattico (Cass. SU, sent. n. 16601 del 2017) che ha riconosciuto la compatibilità del danno punitivo con l’ordinamento solo nel caso di espressa sua previsione normativa, in applicazione dell’art. 23 Cost.; ne consegue che il danno da occupazione “sine titulo”, in quanto particolarmente evidente, può essere agevolmente dimostrato sulla base di presunzioni semplici, ma un alleggerimento dell’onere probatorio di tale natura non può includere anche l’esonero dalla allegazione dei fatti che devono essere accertati, ossia l’intenzione concreta del proprietario di mettere l’immobile a frutto ” (cfr., Cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 7280 del 16/03/2021; Cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 14268 del 25/05/2021; Cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 13071 del 25/05/2018; Sez. 3 -, Sentenza n. 11203 del 24/04/2019 (Rv. 653590 – 01); Cass. Sez. 3, Sentenza n. 15111 del 17/06/2013).
9.1. Tale orientamento, peraltro, rispecchia un radicato trend giurisprudenziale propenso a ricusare ogni forma di danno figurativo e astratto, pur ammettendone la prova per presunzioni, nell’intenzione di scongiurare ogni automatismo nell’aggiudicazione del risarcimento del danno.
9.2. Come rilevano gli stessi giudici nella pronuncia n. 13071/2018 sopra citata, un orientamento simile è conosciuto anche in altre aree del danno patrimoniale e non patrimoniale.
9.3. Tra gli esempi più significativi, oltre alle citate pronunce di San Martino del 11/11/2008, n. 26972 in tema di danno alla persona, si annoverano: il danno da fermo tecnico (in relazione al quale è ora nettamente prevalente la tesi contraria al pregiudizio in re ipsa: cfr. Cass. civ., Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 5447 del 28/02/2020); il danno da sostanziale incommerciabilità, durante la vigenza del contratto preliminare, del bene promesso in vendita (cfr., in senso positivo, Sez. 2 -, Ordinanza n. 13792 del 31/05/2017 (Rv. 644471 – 01); il danno alla reputazione e all’immagine derivante da ingiusto protesto (in senso negativo, Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 21865 del 24/09/2013); il danno da diffamazione, Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 8861 del 2021; il danno da vacanza rovinata (Cass., sez. 3, n. 14257 dell’8 luglio 2020); il danno da immissioni di rumore intollerabili (Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 21649 del 28/07/2021) e, ancora, nel panorama giurisprudenziale se ne potrebbero enumerare molte altre che toccano beni della vita alquanto sensibili e impalpabili nei loro contorni.
9.4. Ad esempio, riguardo al diritto alla privacy, per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., di cui quello di tolleranza della lesione minima è intrinseco precipitato, sicché non la mera violazione delle prescrizioni poste dall’art. 11 codice della privacy, ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva determina una lesione ingiustificabile del diritto, restando comunque il relativo accertamento di fatto rimesso al giudice di merito (cfr. Cassazione, sez. 1, Ordinanza n. 29982 del 31 dicembre 2020).
10. La soluzione offerta da Cass., sez. 3, con la sentenza n. 13071/2018, in ogni caso, è di notevole interesse non tanto per l’esito in sé, quanto per la prospettiva adottata dalla motivazione, ad avviso di questo Collegio destinata ad avere un impatto (pur dovendosi considerare le caratteristiche di ogni singola fattispecie di danno) anche su altre ipotesi, diverse dalli occupazione sine titulo, in cui si è sperimentata la teoria del danno in re ipsa.
10.1. La Corte di cassazione, dopo un ampio excursus della giurisprudenza sul tema, in questa pronuncia scioglie il nodo problematico anche alla luce del recente approdo delle Sezioni Unite sul dibattito relativo alle funzioni del risarcimento del danno nell’ordinamento italiano.
10.2. E’ noto, infatti, che la pronuncia resa da Cass., Sez. Un., n. 16601/2017, menzionata nella sentenza de qua, nonostante verta in tema di riconoscibilità di sentenze straniere che contemplano condanne ai c.d. danni punitivi, ha fornito una chiave di lettura anche per il funzionamento della responsabilità civile “interna”.
10.3. Per le Sezioni Unite, risarcimenti ultracompensativi non sono sconosciuti al nostro ordinamento: essi tuttavia, perseguendo una finalità deterrente/sanzionatoria, richiedono un esplicito riconoscimento legislativo (arg. ex art. 23 Cost.). Secondo questa pronuncia, in tema di occupazione sine titulo, in definitiva, tra le ipotesi di risarcimento sanzionatorio, riservate alla discrezionalità del legislatore, rientrerebbe quello che compensa un pregiudizio ritenuto conseguenza “automatica” di una certa lesione. Nella misura del suo automatismo, in effetti, il danno in re ipsa trascende il normale – e ammissibile – ragionamento per presunzioni, al quale, invero, una parte della giurisprudenza sembra comunque tentare di ricondurlo (cfr. Cass. civ., 27.06.2016, n. 13224 e Cass. civ., 9.08.2016, n. 16670; v., infine, Cass. civ., ord. 15.12.2016, n. 25898, secondo cui l’accezione “in re ipsa” dovrebbe essere considerata in senso solo descrittivo, senza elidere gli oneri di allegazione e di prova dell’attore).
10.4. Accogliere l’impostazione del pregiudizio in re ipsa – nota ancora la Corte Suprema nella citata sentenza del 2018 – non comporterebbe, infatti, soltanto un semplice alleggerimento del peso probatorio del danneggiato: questi verrebbe, a ben vedere, sollevato anche dall’onere di allegazione del danno, con conseguente compromissione del diritto di difesa dell’autore della violazione.
10.5. Al di là di questa considerazione, è evidente che, salva la prova contraria del preteso danneggiante, il soggetto leso potrebbe ottenere un risarcimento anche quando, in concreto, non abbia subito alcun pregiudizio: il rischio che i giudici di legittimità in questa pronuncia hanno inteso escludere in radice, allora, è che lo strumento risarcitorio assuma connotati “punitivi”, senza alcuna “intermediazione legislativa”. Il ragionamento, in sostanza, riporta il meccanismo delle presunzioni all’alveo degli strumenti probatori ammessi in relazione ai fatti allegati dal danneggiato (presunzioni semplici di cui all’art. 2729 c.c.): per questa via, si esclude ogni arbitrario automatismo tra lesione di una situazione giuridica protetta e pregiudizio effettivo, mantenendo inalterato l’ordinario riparto degli oneri di allegazione e di prova.
11. Da ultimo, la pronuncia emessa da Cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 14268 del 25/05/2021, ha seguito il solco sopra tratteggiato nel 2018. Contrapponendosi nettamente a Cass. Sez. 2 -, Ordinanza n. 20708 del 31/07/2019 (Rv. 654984 – 02), tale decisione ha sottolineato che il danno da occupazione “sine titulo”, è un danno conseguenza che, in quanto particolarmente evidente, può essere agevolmente dimostrato sulla base di presunzioni semplici, ma un alleggerimento dell’onere probatorio di tale natura non può includere anche l’esonero dall’allegazione dei fatti che devono essere accertati, ossia l’intenzione concreta del proprietario di mettere l’immobile a frutto (in una fattispecie in tema di occupazione illegittima, da parte della P.A., di terreni oggetto di piano di lottizzazione).
11.1. Difatti, anche accedendo alla tesi secondo cui il danno in questione può essere provato per presunzioni, è pur vero che i principi in materia di presunzioni debbono essere tratti da dati fattuali di cui è onerata la parte, atteso che la sentenza posta a fondamento della decisione in esame, la n. 13071/2018, confermata da Cass., sez. 3, n. 14268 del 25/05/2021, statuisce in tal senso, ovvero che il danno può essere valutato con ragionamento presuntivo, ma tuttavia deve essere allegato e provato dalla parte che lo deduce, non essendo valutabile in re ipsa.
11.2. Le presunzioni, come è noto, valgono in realtà a sostanzialmente facilitare l’assolvimento dell’onere della prova da parte di chi ne è onerato, trasferendo sulla controparte l’onere della prova contraria (v. Cass., 12/6/2006, n. 13546), e imponendo al giudice, in assenza di prova contraria, di ritenere provato il fatto previsto (v. Cass., 12/6/2006, n. 13546). Atteso che il giudice di merito incontra al riguardo il solo limite del principio di probabilità (v. Cass., 12/6/2006, n. 13546), il fatto ignoto deve peraltro considerarsi provato (solo) ove risulti dal danneggiato provato il “fatto base” (v. Cass., 15/3/2018, n. 6387; Cass., 13/5/2011, n. 10527; Cass., 12/6/2006, n. 13546).
11.3. In definitiva, il principio secondo cui il danno – conseguenza deve essere provato presuppone che l’intero onere della allegazione e prova, per quanto alleggerito dal ragionamento presuntivo, gravi interamente sulla parte che lo deduce, dunque sul danneggiato. Mentre l’ultima pronuncia della seconda sezione civile di questa Corte, di cui a Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 21649 del 28/07/2021, statuisce ancora una volta, in una simile fattispecie, che in linea di principio il danno è presunto (in re ipsa) e che, dunque, è sufficiente che il danneggiato alleghi in maniera plausibile di non aver potuto far fruttare il bene, mentre l’occupante abusivo, se vuole vincere tale presunzione relativa, deve dare prova contraria dell’anomala infruttuosità del bene.
12. Altri utili spunti, per dirimere la questione, provengono dalla ultima pronuncia delle Sezioni Unite della cassazione (Sez. U., Sentenza n. 20691 del 20/07/2021), là dove, in tema di acquisizione sanante del D.P.R. n. 327 del 2001, ex art. 42-bis, in caso di occupazione sine titulo della P.A., ha sancito che “la qualificazione in termini indennitari dell’indennizzo per la pregressa occupazione senza titolo, nella misura del cinque per cento annuo sul valore venale del bene all’attualità, non è foriera di un deficit di tutela per le parti, avendo il legislatore previsto una clausola di salvaguardia che fa salva la prova di una diversa entità del danno, la cui applicazione è rimessa all’incensurabile valutazione del legislatore in via forfettaria “in melius” o “in pejus” – in sintonia con le istanze e le prove offerte dalle parti nel caso concreto”.
12.1. Si legge nella sentenza de qua che, qualora l’amministrazione titolare del relativo potere adotti il provvedimento acquisitivo di cui all’art. 42 bis T.U. del 2001, è la legge che riconosce al proprietario che abbia subito una occupazione senza titolo una somma corrispondente – in mancanza di prova di una diversa entità del pregiudizio – all’interesse del cinque per cento annuo sul valore venale del bene, stimato all’attualità, utilizzato per scopi di pubblica utilità. Si tratta, dunque, di una valutazione normativamente tipizzata che presuppone il solo accertamento dell’occupazione materiale del bene, di regola desumibile da atti formali di agevole verifica in sede giurisdizionale (ad es., di immissione in possesso conseguente al decreto di occupazione, o altri). E ancora, si precisa che “La ragionevolezza della disciplina sull’esproprio, in ogni caso, non è contraddetta dai precedenti (v. Cass., sez. III, n. 11203 del 2019 e n. 13071 del 2018, cui adde sez. III, n. 14268 del 2021; ma contra Cass., sez. II, n. 20708 del 2019, n. 21239 del 2018, n. 20823 del 2015, sez. III n. 16670 del 2016), riguardanti prevalentemente materie diverse da quella espropriativa, dai quali non è possibile trarre argomenti a sostegno della tesi secondo cui, nei casi di occupazione senza titolo cui abbia fatto seguito un provvedimento acquisitivo ex art. 42 bis, sarebbe il proprietario a dovere, di volta in volta, provare (non solo lo spossessamento in sé, ma anche) il danno in ogni sua articolazione”.
12.2. Secondo le sezioni unite della Corte di cassazione, in tale circoscritta materia, regolata dalla legge e concernente il periodo di “occupazione senza titolo” effettuato dalla P.A. ai danni dei privati, in relazione al quale è dovuto “l’interesse del cinque per cento annuo sul valore (venale del bene)”, sul proprietario ricade l’onere di provare di avere perduto occasioni particolari di profitto, al fine di innalzare l’entità del danno in concreto rispetto alla misura fissata dal legislatore, ma non anche di avere perduto il godimento e le facoltà di disposizione del bene nel periodo dell’occupazione. Una simile interpretazione vanificherebbe la portata della disposizione, che riconosce al proprietario l’interesse del cinque per cento in presenza dell’occupazione senza titolo in sé, salva la possibilità per entrambe le parti di dimostrare la diversa entità del danno in concreto (in melius o in pejus rispetto a quel limite).
12.3. Stando a quest’ultimo orientamento, pertanto, al di là di ciò che prevede la legge come giusto indennizzo conseguente alla occupazione acquisitiva di un bene da parte della P.A., spetta al proprietario dovere, di volta in volta, provare (non solo lo spossessamento in sé, ma anche) il danno maggiore in ogni sua articolazione. Spetta, viceversa, all’amministrazione dedurre circostanze e avvenimenti specifici volti a smentire la sussistenza di conseguenze economiche pregiudizievoli o a ridimensionarle nella loro entità. In questo caso, pertanto, ogni valore in melius o in pejus rispetto a quanto normativamente fissato come giusto indennizzo, è soggetto all’onere della prova.
13. Orbene, tornando alla fattispecie che ci occupa, ove solitamente vi è una contrapposizione di interessi tra due soggetti che agiscono jure privatorum, ritiene il Collegio che la questione in esame, oltre ad avere sino ad oggi ricevuto differenti letture e soluzioni in ordine al principio da applicare e alla distribuzione degli oneri probatori, già solo considerando la notevole ricorrenza in relazione alle diversificate fattispecie da regolare, appartenga al novero delle questioni di massima di rilevante importanza e che, dunque, meriti in ogni caso l’intervento nomofilattico e chiarificatore delle sezioni unite, sì da togliere terreno a ogni dubbio interpretativo e applicativo, e ciò a prescindere dalle oscillazioni giurisprudenziali sul punto che, in più casi, pur partendo da opposti principi non giungono nei fatti ad esiti giudiziali così diversi, ma comunque alimentano un notevole contenzioso a scapito del sistema in generale e dell’interesse a un buon governo della domanda di giustizia.
P.Q.M.
La Corte, ex art. 374, comma 2, rimette il ricorso al Primo Presidente affinché valuti l’opportunità di investire le sezioni unite della Corte di cassazione sulla questione inerente al danno da occupazione sine titulo.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 13 ottobre 2021.
Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2022
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