Giudicato civile di condanna, effetto di attività processuale fraudolenta, impugnazione per revocazione, costituzione di parte civile nel relativo procedimento penale

Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.1169 del 17/01/2022

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Giudicato civile di condanna, effetto di attività processuale fraudolenta, impugnazione per revocazione, costituzione di parte civile nel relativo procedimento penale

Qualora il giudicato civile di condanna sia l’effetto di attività processuale fraudolenta di una parte in danno dell’altra, posta in essere mediante la precostituzione e l’uso in giudizio di prove false, la parte danneggiata, oltre alla proposizione della impugnazione per revocazione, qualora siffatta attività integri gli estremi di un fatto-reato, può costituirsi parte civile nel relativo procedimento penale, così provocando l’esercizio del potere-dovere del giudice penale di statuire ed attuare concretamente l’obbligazione risarcitoria discendente in via diretta dall’accertamento fatto-reato stesso, che non può trovare ostacolo nel suindicato giudicato civile che ne rimane travolto. Tale potere-dovere del giudice penale, in caso di estinzione del reato per qualsiasi causa, si trasferisce, con identica ampiezza, e quindi senza preclusioni in dipendenza del precedente giudicato civile, al giudice civile adito dalla parte danneggiata per ottenere il risarcimento del danno causato dal fatto-reato.

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SESTINI Danilo – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 6443/2019 R.G. proposto da:

G.E., rappresentata e difesa dall’Avv. Franz Rainer, con domicilio eletto in Roma, via Germanico, n. 197, presso lo studio dell’Avv. Maria Cristina Napoleoni;

– ricorrente –

contro

S.P., rappresentato e difeso dagli Avv.ti Alfred Gschnitzer, e Manuel D’Allura, con domicilio eletto in Roma, Via C.

Fracassini, n. 4, presso lo studio dell’Avv. Francesca D’Orsi;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Trento, Sezione distaccata di Bolzano, n. 93/2018 depositata il 21 luglio 2018;

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 3 novembre 2021 dal Consigliere Dott. Emilio Iannello.

FATTI DI CAUSA

1. G.E. convenne avanti il Tribunale di Bolzano S.P. chiedendone la condanna al risarcimento del danno subito per avere quest’ultimo portato ad esecuzione un decreto ingiuntivo ottenuto sulla base di due scritture private (recanti rispettivamente una promessa di pagamento per l’importo di Euro 9.000,00 ed una ricognizione di debito per Euro 2.350,00), la cui falsità era stata affermata con sentenza del giudice penale, che aveva applicato al S., ai sensi dell’art. 444 c.p.p., per il reato di falso relativo a dette scritture, la pena concordata.

Il tribunale accolse la domanda e, ritenendo desumibile dalla sentenza di patteggiamento un’ammissione di colpa, condannò il convenuto al pagamento del complessivo importo di Euro 28.052,39.

2. In accoglimento del gravame interposto da quest’ultimo e in totale riforma della decisione di primo grado, la Corte d’appello di Trento, Sezione distaccata di Bolzano, ha invece rigettato la domanda risarcitoria della G., condannandola alle spese di entrambi i gradi di giudizio.

Queste, in sintesi, le ragioni esposte in motivazione:

– il decreto ingiuntivo emesso sulla base delle scritture private, la cui falsificazione è stata successivamente accertata dal tribunale penale, in mancanza di presentazione di tempestiva opposizione è passato in giudicato;

– onde far valere la pretesa risarcitoria (riferita, come detto, all’azione esecutiva promossa sulla base del decreto ingiuntivo) l’attrice (appellata) avrebbe dovuto prima impugnare per revocazione il decreto ingiuntivo medesimo, ai sensi dell’art. 656 c.p.c. e art. 395 c.p.c., comma 1, n. 2, in quanto fondato su prova documentale successivamente riconosciuta come falsa;

– l’impugnazione per revocazione non è stata però proposta, né potrà esserlo in futuro essendo ormai decorso il relativo termine;

– legittimamente, pertanto, il S. ha chiesto l’esecuzione;

– il reato di utilizzo di documenti falsi di per sé obbligherebbe al risarcimento danni, ma nel caso di specie la G. ha indicato solo voci di danno correlate all’esecuzione del decreto ingiuntivo legittimamente esperita, insieme con altre spese per le quali però manca la prova dell’esborso o che risultano già rimborsate.

3. Per la cassazione di tale sentenza G.E. propone ricorso affidato a quattro motivi, cui resiste S.P., depositando controricorso.

La trattazione è stata fissata in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

Non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia “violazione risp. falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e art. 647 c.p.c.; mancata applicabilità del disposto ex art. 2909 c.c., al decreto ingiuntivo non opposto” (così testualmente nell’intestazione).

Sostiene che erroneamente la corte d’appello ha ritenuto che il decreto ingiuntivo non opposto acquisti autorità di giudicato, dal momento che l’art. 2909 c.c., questa attribuisce esclusivamente alle sentenze.

2. Con il secondo motivo essa deduce, in subordine, “violazione risp. falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e art. 647 c.p.c.; mancata efficacia di giudicato in relazione alla liceità o meno del comportamento del S.”.

Osserva che il giudicato, seppur implicito, coprirebbe semmai il diritto di credito del S., ma non anche la liceità del di lui comportamento (su cui è fondata la pretesa risarcitoria) ante e post emissione del decreto ingiuntivo.

3. Con il terzo motivo deduce “violazione risp. falsa applicazione dell’art. 395 c.p.c. e art. 2043 c.c.; mancato onere della preventiva impugnazione ex art. 395 c.p.c.” (questa la testuale intestazione).

Evocando a supporto i precedenti di Cass. 18/05/1984, n. 3060, e Cass. 17/09/2013, n. 21255, sostiene che, diversamente da quanto affermato in sentenza, l’art. 395 c.p.c., offre un mezzo straordinario d’impugnazione avverso le decisioni frutto di dolo o errore, ma non impone l’esperimento di detta impugnazione quale antecedente necessario dell’eventuale, autonoma, richiesta di risarcimento dei danni subiti dalla parte.

Soggiunge che, peraltro, nel descritto contesto, l’effetto rescissorio di un’eventuale revocazione ex art. 395 c.p.c., avrebbe comportato l’inefficacia del decreto ingiuntivo, ma non il ripristino dello status quo ante.

4. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia, infine, “violazione risp. falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e art. 2727 c.c.; libertà delle prove”.

Lamenta che erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto non provate le voci di danno rappresentate dalle spese relative alla perizia grafologica e per la difesa dinanzi al GIP, dal momento che – assume – tale prova avrebbe potuto essere tratta, rispettivamente, dalla stessa perizia grafologica e dalla nota spese dello studio legale.

5. Il secondo e il terzo motivo, congiuntamente esaminabili e di rilievo preliminare e assorbente rispetto al primo, sono fondati.

E’ pertinente il richiamo in ricorso al precedente di Cass. n. 3060 del 1984, fedelmente massimato nel senso che “qualora il giudicato civile di condanna sia l’effetto di attività processuale fraudolenta di una parte in danno dell’altra, posta in essere mediante la precostituzione e l’uso in giudizio di prove false, la parte danneggiata, oltre alla proposizione della impugnazione per revocazione, qualora siffatta attività integri gli estremi di un fatto-reato, può costituirsi parte civile nel relativo procedimento penale, così provocando l’esercizio del potere-dovere del giudice penale di statuire ed attuare concretamente l’obbligazione risarcitoria discendente in via diretta dall’accertamento fatto-reato stesso, che non può trovare ostacolo nel suindicato giudicato civile che ne rimane travolto. Tale potere-dovere del giudice penale, in caso di estinzione del reato per qualsiasi causa, si trasferisce, con identica ampiezza, e quindi senza preclusioni in dipendenza del precedente giudicato civile, al giudice civile adito dalla parte danneggiata per ottenere il risarcimento del danno causato dal fatto-reato”.

In tale precedente – relativo ad un caso assai simile a quello in esame, ivi trattandosi dell’uso in giudizio di cambiali false per ottenere l’emissione di decreto ingiuntivo poi non opposto e quindi passato in giudicato, la falsità essendo stata accertata in giudizio civile iniziato dopo l’estinzione per amnistia del procedimento penale per i reati di truffa e falso a carico dell’ingiungente – è in particolare evidenziato quanto segue.

“In presenza della costituzione di parte civile del danneggiato dal reato, la competenza funzionale del giudice penale si estende all’effetto obbligatorio, nell’ambito civilistico, del fatto-reato accertato, costituente, in quell’ambito, fatto illecito, che genera l’obbligazione di risarcimento del danno, nei suoi due aspetti di restituzione di ciò che è stato sottratto o indebitamente consegnato o pagato e di risarcimento del danno ulteriore (compreso quello non patrimoniale).

“Estensione della competenza del giudice penale nell’ambito civilistico che comporta il potere-dovere di quel giudice di trarre le conseguenze che, sotto il profilo obbligatorio, discendono direttamente dall’accertato reato, condannando il responsabile al risarcimento del danno.

“L’esercizio di tale potere-dovere, derivante dalla competenza funzionale del giudice penale ed inteso a statuire ed attuare concretamente l’obbligazione risarcitoria che consegue immediatamente e direttamente al fatto-reato, non può trovare ostacolo in un provvedimento giurisdizionale passato in giudicato che, in sede civile, sulla base delle prove accertate poi false dal giudice penale, abbia stabilito una situazione giuridica sostanziale in favore del soggetto che ha precostituito ed utilizzato in giudizio le prove false in danno dell’altra parte.

“La sentenza del giudice penale di accertamento del fatto-reato costituito dalla falsificazione della prova e della sua utilizzazione in giudizio travolge gli effetti del giudicato civile poiché alla situazione giuridica sostanziale da esso creata, sulla base delle prove accertate false, automaticamente ne sostituisce una diversa, che è l’obbligazione dell’autore ed utilizzatore delle prove false al risarcimento del danno, nel duplice aspetto della restituzione di quanto conseguito e nella riparazione del pregiudizio ulteriore”.

Tale arresto è richiamato in quello più recente di Cass. 17/09/2013, n. 21255, le cui elaborazioni ricostruttive – benché rese con riferimento al diverso e ben più noto caso dell’annullamento del c.d. lodo *****, pronunciato con sentenza della Corte d’appello di Roma che si accertò successivamente essere stata frutto di corruzione in atti giudiziari del suo estensore – risultano di tale generale portata da potersi applicare, in quanto qui condivise, anche al caso in esame.

Particolarmente significativo appare in tal senso il rilievo esegetico che, in quella pronuncia, viene attribuito all’art. 2738 c.c., comma 2, nella parte in cui ammette la risarcibilità dei danni derivanti dalla sentenza fondata su falso giuramento ove tale falsità sia stata riconosciuta in sede penale a prescindere dall’esperimento del rimedio revocatorio, così riconoscendo – si afferma – l'”astratta legittimità della coesistenza tra giudicato formale… benché frutto di dolo (della parte o del giudice, non rileva ai fini che qui ci occupano) e azione di risarcimento”: “la legittimità, in altri termini, della coesistenza della duplice natura di una sentenza che, al tempo stesso, si atteggi a decisione giurisdizionale irrevocabile ed a mero fatto storico”.

Condivisibilmente la S.C. ivi argomenta al riguardo (v. sentenza cit. pagg. 72 – 75) che “la norma – ben lungi da porre un principio che, secondo una poco persuasiva metodologia interpretativa da “canone inverso”, dovrebbe imporre tout court, in ogni altro caso, il ricorso al rimedio revocatorio – detta invece una regula iuris che, ben più correttamente interpretata alla luce delle sue risalenti origini storiche (la sacralità dello ius iurandum in iure) e degli stessi lavori preparatori, ammette e consente la coesistenza tra il definitivo dissolversi della lite in un giudicato sia pur “ingiusto” (in conseguenza della particolare solennità ed unicità di quel mezzo di prova), e l’autonomo esperimento dell’azione risarcitoria.

“Difatti, nell’ipotesi di falso giuramento (diversamente che nel caso di dolo del giudice) si è in presenza di un caso di “giudicato provato ingiusto” (senza, cioè, che vi sia alcuna necessità di ricorrere alla revocazione), e pur tuttavia tenuto fermo, non ammettendosi la revocazione della sentenza per un residuo rispetto del tradizionale valore decisorio attribuito al giuramento – onde la conseguente scelta del legislatore di ammettere la sola azione risarcitoria.

“Un più corretto significato da attribuire alla disposizione di cui all’art. 2738 c.c., sulla base di una eadem ratio iuris, è dunque quello della legittima predicabilità, qualora il giudicato risulti ormai intangibile (non importa se per legale volontà o per obbiettivo riscontro di inutilità), di una sua doppia e simmetrica valenza, di reiudicata e di fatto storico (nella dimensione aquiliana del “qualunque fatto doloso o colposo” ex art. 2043 c.c.).

“Lo stesso disposto dell’art. 185 c.p. lascia, per altro verso, chiaramente intendere che, su di un piano generale, qualsiasi comportamento che integri un fatto reato obbliga l’autore del fatto al risarcimento del danno che ne sia derivato alla vittima: apparirebbe un evidente paralogismo e una insanabile aporia ritenere che tale principio venga meno solo che la parte non abbia ritenuto di esperire un rimedio che ha la diversa funzione di porre nel nulla, sotto il profilo processuale, la sentenza viziata da dolo del giudice quando tale caducazione non potrebbe più corrispondere ad alcun suo interesse sostanziale.

“La eterogeneità della funzione di tutela garantita dalla revocazione rispetto a quella assicurata dall’azione risarcitoria è frutto, anche testuale, della scelta legislativa di apprestare, come rimedio revocatorio rescissorio, l’eventuale restituzione di quanto si sia conseguito con la sentenza revocata, una volta che il giudice della revocazione, “con la sentenza che pronuncia la revocazione, decide il merito della causa”.

“E l’autonomia (sia pur, in questo caso, “condizionata”) dell’azione risarcitoria rispetto a quella demolitoria dà per altro verso ragione del perché l’art. 402 c.p.c., si limiti a menzionare l’effetto restitutorio, e non risarcitorio, della revocazione straordinaria, così superando l’apparente aporia insita nella coesistenza di una decisione ormai res iudicata e di un risarcimento da danno ingiusto, poiché l’ingiustizia del danno – come tale qualificabile in letterale applicazione dell’art. 185 c.p. – trova la sua radice prima e il suo primo fondamento… proprio nella sentenza costituente, in ipotesi, giudicato formale”.

Si soggiunge, quindi, con particolare significatività ai fini del presente giudizio: “la norma dettata in tema di falso giuramento della parte non può… in alcun modo ritenersi legata soltanto da un banale rapporto di regola ad eccezione rispetto agli altri casi di revocazione, ordinaria o straordinaria – nel senso che, al di fuori del falso giuramento, la revocazione della sentenza andrebbe ritenuta condizione imprescindibile di procedibilità dell’azione risarcitoria ma è idonea a fondare, in sinergica lettura con l’art. 402 c.p.c. (ove si discorre significativamente di restituzioni e non di risarcimenti, che non potrebbero mai formare oggetto di autonoma domanda, tanto in rescindente quanto in rescissorio, atteso il vincolo della immutatio libelli) il convincimento della doppia dimensione della sentenza viziata (giudicato/fatto storico) e della inutilità di un giudizio di revocazione in caso di sopravvenuta impossibilità giuridica dell’oggetto della controversia”.

6. Alla luce delle esposte indicazioni esegetiche, si appalesa erronea, in diritto, l’affermazione contenuta in sentenza secondo cui, da un lato, il giudicato formatosi sul decreto ingiuntivo ottenuto attraverso prove false e, dall’altro, l’ormai maturata preclusione all’esperimento dell’ordinaria impugnazione per revocazione rendano non risarcibile il danno direttamente o indirettamente riconducibile all’esecuzione del decreto ingiuntivo; così come non avallabile si appalesa, a monte, quella secondo cui (v. sentenza, pag. 14, p. 4), una volta decorso il termine per la detta impugnazione, l’esecuzione intrapresa sulla base del decreto ingiuntivo ottenuto sulla base di documenti falsi, costituisce atto lecito.

Tale affermazione è da attribuire ad una indebita sovrapposizione della considerazione del decreto ingiuntivo come regiudicata rispetto a quella che, nella prospettiva aquiliana, deve darsi dello stesso quale fatto storico costitutivo del diritto al risarcimento del danno.

L’essere il decreto ingiuntivo passato in giudicato costituisce evento processuale che attiene al tema trattato in quel giudizio e non toglie – nella diversa e più ampia prospettiva che guardi a quel giudizio ed alla sua conclusione alla stregua di mero fatto storico -che lo stesso sia frutto di un illecito, il giudicato null’altro rappresentando, in tale diversa prospettiva, se non proprio il vantaggio ulteriore lucrato con l’illecito commesso, indipendentemente dalle ragioni per le quali tale giudicato si sia formato.

7. Una precisazione a questo punto si impone.

La Corte d’appello ha espressamente affermato (v. sentenza pag. 11 ss.) che la falsità dei documenti sulla cui base è stato ottenuto il decreto ingiuntivo è stata accertata con sentenza penale passata in giudicato.

Il successivo argomentare sembra presupporre che anche su quell’accertamento (peraltro seguito dalla confisca dei documenti medesimi ex art. 240 c.p. e dalla loro acquisizione nel fascicolo processuale), benché si tratti di sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p., il giudice a quo ha ritenuto essersi formato il giudicato (penale), opponibile in sede civile; si assume infatti, in sentenza, che l’appellata G. avrebbe potuto/dovuto far valere il giudicato penale sulla falsità in proponendo giudizio di revocazione ex art. 395 c.p.c., comma 1, n. 2.

Tale passaggio non risulta fatto segno di alcuno specifico motivo di censura in questa sede. E tuttavia tale affermazione non ha avuto poi alcuna influenza sulla statuizione finale (che, come detto, ritenendo dirimente la mancata proposizione del giudizio di revocazione, ha rigettato la domanda risarcitoria ed ha dunque ritenuto irrilevante detto separato accertamento di falso), risolvendosi pertanto in un mero obiter dictum sul quale non può ritenersi formato giudicato interno.

Si rende pertanto possibile e opportuno qui rammentare che, ai sensi dell’art. 445 c.p.p., comma 1-bis, “Salvo quanto previsto dall’art. 653, la sentenza prevista dall’art. 444, comma 2, anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi”.

Non è dunque predicabile alcun vincolo di giudicato, nel giudizio civile, derivante dalla sentenza di patteggiamento, nemmeno sulla affermazione della falsità delle menzionate scritture.

L’inopponibilità di tale pronuncia nel giudizio civile non osta però all’azione risarcitoria.

Resta, infatti, comunque consentito al giudice di quest’ultima operare autonomamente l’accertamento della falsità delle scritture, così come resta impregiudicata e non rilevante in questa sede la questione se, a tal fine, dalla sentenza penale di patteggiamento possa comunque ricavarsi – come nella specie ha ritenuto il primo giudice – elemento utile di prova (si rimanda sul punto, per una utile ricognizione e messa a punto dei più recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità, a Cass. 30/07/2018, n. 20170 ed a Cass. 11/03/2020, n. 7014, cui adde, da ultimo, Cass. 05/05/2021, n. 11805).

8. Il quarto motivo è inammissibile.

Esso si risolve, infatti, nella mera oppositiva contestazione di una valutazione tipicamente di merito, qual è quella della rilevanza delle prove raccolte, senza peraltro cogliere l’effettiva ratio decidendi che non consiste nella negazione dell’esistenza delle attività processuali cui sono riferite le voci di danno (spese legali) ma nella esclusa esistenza di prova dell’effettivo avvenuto esborso.

9. In accoglimento, dunque, del secondo e del terzo motivo, assorbito il primo, la sentenza impugnata va cassata, con rinvio al giudice a quo, al quale va anche demandato il regolamento delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

accoglie il secondo e il terzo motivo di ricorso; dichiara inammissibile il quarto; assorbito il primo; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti; rinvia alla Corte di appello di Trento, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 3 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2022

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