Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.1177 del 17/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele Gaetano Antonio – Presidente –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19826/2019 proposto da:

Sala Borsa S.r.l., elettivamente domiciliata in Roma Via F. Michelini Tocci 50, presso lo studio dell’avvocato Visconti Carlo, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati Jacchia Caterina, Jacchia Mario, e Visconti Marco;

– ricorrente –

contro

Comune di Bologna, elettivamente domiciliato in Roma Via Antonio Bertoloni 35, presso lo studio legale Biagetti & Partners, rappresentato e difeso dagli avvocati Cappella Federico, Carestia Bassi Giulia, e Montuoro Maria;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1157/2019 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 6 maggio 2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 17/11/2021 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI.

RILEVATO

che:

Il Tribunale di Bologna, con sentenza n. 1873/2006, accoglieva la domanda di risoluzione di contratto locatizio ad uso commerciale presentata dal Comune di Bologna, quale locatore, nei confronti della conduttrice Sala Borsa S.r.l., conseguentemente condannando quest’ultima al rilascio del relativo immobile la c.d. Sala Borsa – Il Comune metteva in esecuzione la sentenza.

Sala Borsa S.r.l. proponeva appello, cui controparte resisteva. La Corte d’appello di Bologna, con sentenza n. 1201/2010 – passata poi in giudicato, essendo stato respinto il ricorso per cassazione successivamente presentato dal Comune -, riformava la sentenza del Tribunale. Conseguentemente, Sala Borsa S.r.l. agiva davanti al Tribunale di Bologna per ottenere la condanna del Comune a risarcirle i danni che sosteneva di avere subito per il rilascio dell’immobile, consistenti nel mancato guadagno quale differenziale tra prevedibili entrate ed uscite.

Il Tribunale rigettava la domanda con sentenza n. 110/2018, ritenendo non provati i danni.

Sala Borsa S.r.l. proponeva appello, cui il Comune resisteva, e che la Corte d’appello di Bologna rigettava con sentenza del 6 maggio 2019.

Sala Borsa S.r.l. ha presentato ricorso, articolato in tre motivi – illustrati anche con memoria -, da cui si è difeso con controricorso il Comune di Bologna.

CONSIDERATO

che:

1. Il primo motivo denuncia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, violazione dell’art. 101 c.p.c., comma 2 e art. 183 c.p.c., comma 4, e in subordine nullità della sentenza.

Si rammenta che l’art. 183 c.p.c., comma 4, stabilisce che il giudice è tenuto a indicare alle parti le questioni rilevabili d’ufficio di cui ritenga opportuna la trattazione; e l’art. 101 c.p.c., comma 2, prevede che, se il giudice intende fondare la decisione su una questione rilevata d’ufficio, deve comunicarlo e assegnare un termine per il deposito di memoria alle parti, pena nullità. Dunque, mediante la nullità quest’ultima norma presiede proprio l’art. 183 c.p.c., comma 4.

Si sostiene, quindi, che la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che ciò valga esclusivamente per questioni di fatto o questioni miste di fatto e di diritto e qualora ne derivi un concreto pregiudizio, salvo sia stato leso realmente e irrimediabilmente il valore del contraddittorio.

Nel caso in esame le parti “non avevano minimamente trattato la questione”, neppure in modo indiretto (qui si richiamano in toto gli atti introduttivi del primo grado, ovvero citazione e comparsa di risposta, come allegati al ricorso sub L e sub M). Si sarebbe quindi verificata la lesione del valore del contraddittorio in modo reale e irrimediabile.

Inoltre, si tratterebbe di una questione mista, in quanto concernente la natura giuridica della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale addotta dall’attuale ricorrente e riguardante pure il fatto costituente l’abuso del processo o almeno l’avere “agito senza la normale prudenza”.

L’omissione, per di più, avrebbe provocato il concreto pregiudizio riconosciuto come fonte di nullità dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte: all’attuale ricorrente sarebbe stato in tal modo impedito di indicare perché “la questione sollevata d’ufficio era infondata” per “le ragioni esposte con i motivi d’impugnazione che seguono” cui si rimanda.

2. Il secondo motivo denuncia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, violazione dell’art. 2909 c.c., “per aver giudicato su capi autonomi della sentenza di primo grado passati in giudicato”.

Si afferma che il giudizio “presupposto” (cioè quello derivante dalla domanda di risoluzione del contratto locatizio proposta dal Comune di Bologna) fu celebrato con rito locatizio, benché, per il suo oggetto – e qui si trascrive parte dell’art. 1 del contratto stipulato tra Sala Borsa S.r.l. e il Comune di Bologna -, sarebbe stato “presumibile” che non si trattasse di locazione né di comodato né di affitto di azienda con conseguente applicazione del rito di cui all’art. 447 bis c.p.c..

Tuttavia – si adduce – non fu sollevata eccezione al riguardo, né i giudici rilevarono la questione. Pertanto avrebbe errato nella sentenza qui impugnata la Corte d’appello ritenendo che Sala Borsa S.r.l. avrebbe dovuto agire ai sensi dell’art. 96 c.p.c., mentre era passato in giudicato il giudizio in cui “nessuno aveva richiesto l’applicazione dell’art. 96 c.p.c.”.

Il giudice di merito non può, nell’interpretare la domanda, violare il limite della corrispondenza chiesto/pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c., né sostituire d’ufficio l’azione “espressamente e formalmente proposta” con un’altra. E nel caso in esame la domanda era di condanna al risarcimento dei danni in forza degli artt. 1218 e 1223 c.c., danni derivati da “illegittima anticipata risoluzione del contratto”; il relativo processo era stato celebrato con rito ordinario; il Tribunale aveva nella sentenza qualificato la domanda come fondata su responsabilità contrattuale.

Nonostante tutto questo, il giudice d’appello ne ha fatto una domanda risarcitoria ex art. 96 c.p.c., speciale rispetto all’art. 2043 c.c., così violando l’art. 112 c.p.c.: il che significa che d’ufficio la corte territoriale ha commutato il rito ordinario nel rito locatizio, ha sollevato un’eccezione in senso stretto, cioè l’applicazione dell’art. 96 c.p.c., comma 2, e ha riqualificato l’azione “espressamente qualificata” responsabilità contrattuale dal giudice di prime cure.

Dinanzi all’azione di responsabilità contrattuale promossa da Sala Borsa S.r.l., il Comune aveva eccepito sia la prescrizione, sia l’omnicomprensività del risarcimento concesso nel giudizio presupposto. Invece la Corte d’appello ha riqualificato, appunto, la domanda come riconducibile all’art. 96 c.p.c..

E’ vero – secondo la ricorrente – che il giudice d’appello può mutare il rito ai sensi dell’art. 426 c.p.c., sollevare d’ufficio eccezioni lato sensu e riqualificare l’azione; non è però abilitato a incidere su capi autonomi passati in giudicato, per cui non può violare la corrispondenza chiesto/pronunciato né l’art. 2909 c.c., anche in ordine al giudicato interno. Nel caso in esame la qualificazione giuridica dell’azione effettuata dal Tribunale – azione di responsabilità contrattuale – integrerebbe un capo autonomo non impugnato, e dunque passato in giudicato; capo autonomo sarebbe pure il rito, anch’esso passato in giudicato.

Il mutamento del rito, secondo la giurisprudenza di legittimità, non è impugnabile, ma ciò non vale qualora sia oggetto di capo autonomo passato in giudicato, e comunque il principio è derogato se si adduce uno specifico pregiudizio processuale, qui sussistente perché a Sala Borsa S.r.l. “non è stato consentito esporre le ragioni della erroneità sia del mutamento d’ufficio della domanda, sia del mutamento del rito, sia del rilievo d’ufficio di una eccezione riservata soltanto alle parti, sia infine del mutamento della qualificazione giuridica della domanda”.

3. Il terzo motivo denuncia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 112 c.p.c., per violazione del principio chiesto/pronunciato e per “aver deciso extrapetita” su una eccezione stricto sensu sollevata però d’ufficio.

Si sostiene che il giudice d’appello ha il potere di qualificazione della domanda, tenendo comunque inalterati petitum e causa petendi e rispettando i limiti del devolutum. Qui, invece, il giudice d’appello avrebbe mutato petitum e causa petendi riqualificando la domanda come fondata sull’art. 96 c.p.c., comma 2, e mutato in particolare il petitum “da mancato guadagno” di Euro 3.181.906,48 nel risarcimento di danno da fatto illecito per lite temeraria, riguardante il giudizio presupposto, che è però autonomo.

Nel caso in esame, infatti, si tratterebbe dei danni da illegittima applicazione della clausola risolutiva espressa presente nel contratto, con conseguente anticipata risoluzione di quest’ultimo.

La domanda di cui all’art. 96 c.p.c., comma 2, “presuppone la richiesta della parte”, che difetta. Inoltre, non corrisponde al vero che l’azione ex art. 96 c.p.c., comma 2, sia proponibile solo nel processo in cui risiederebbe la temerarietà; tuttavia nella presente vicenda soltanto con la sentenza di questa Suprema Corte n. 2846/2015 – che rigettò il ricorso del Comune di Bologna avverso la sentenza n. 1201/2010 della corte felsinea – si ebbe la certezza della illegittima applicazione della clausola risolutiva del contratto, per cui sarebbe stato impossibile in precedenza agire anche ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 2.

4. La sentenza d’appello, in effetti, fonda la propria decisione sulla qualificazione dell’azione risarcitoria proposta dall’attuale ricorrente, che viene ricondotta alla fattispecie di cui all’art. 96 c.p.c., comma 2, “avendo ad oggetto la condotta tenuta in fase esecutiva dalla sua controparte nel giudizio avente ad oggetto la risoluzione del contratto”. Ad avviso della corte felsinea, la domanda presentata da Sala Borsa S.r.l. è “di risarcimento per responsabilità aggravata per l’ingiusta esecuzione della condanna al rilascio del bene locato”; e non sono individuabili ragioni che avrebbero potuto giustificare la proposizione di tale domanda “in un giudizio diverso da quello suo proprio, individuabile nel giudizio d’appello avverso la sentenza n. 1873/2006 del Tribunale di Bologna”.

Con un ulteriore argomento – inserito ad ogni modo sempre nell’ambito della qualificazione della domanda come fattispecie dell’art. 96 c.p.c., comma 2, la corte territoriale rileva pure che, anche se tale domanda potesse essere autonomamente proposta in un giudizio diverso da quello suo proprio, id est nel presente giudizio, non sarebbe “accoglibile perché non risulta provato l’elemento soggettivo della colpa del danneggiante, non essendo sufficiente a tal fine la mera circostanza della riforma della sentenza n. 1873/2006”, considerato del resto che “l’intreccio delle prestazioni contrattuali delle parti e delle contrapposte ipotesi di inadempimento evidenzia come non fosse prevedibile l’esito della controversia né manifestamente infondata la domanda formulata dal Comune di risoluzione contrattuale e rilascio del bene”, onde non sarebbe “in concreto predicabile uno specifico profilo di colpa, nemmeno lieve, in capo al Comune per avere preteso, peraltro senza opposizione dalla controparte, l’esecuzione della sentenza”: ne consegue che la domanda, “oltre che inammissibile per le ragioni più sopra esposte, risulta quindi anche infondata in relazione all’elemento soggettivo”.

5. Tanto premesso per chiarire la posizione assunta dalla corte territoriale, deve a questo punto rilevarsi, a proposito del primo motivo, che la sintesi più sopra fornitane è già sufficiente ad evidenziare che, oltre ad essere stato illustrato e argomentato in una misura assai scarna, è stato altresì presentato in modo non lineare, per non dire confuso. Soltanto nella parte finale si riesce invero a comprendere quale sarebbe stato l’oggetto dell’asseritamente viziato rilievo ufficioso compiuto dal giudice d’appello, cioè la qualificazione della domanda risarcitoria – che la ricorrente ribadisce invece essere stata di fonte contrattuale – come domanda sussumibile nell’art. 96 c.p.c., comma 2.

Le ragioni per cui tale qualificazione integrerebbe specificamente la pretesa violazione dell’art. 101 c.p.c., comma 2, sono in effetti esternate in modo del tutto assertivo, e per di più dalla scarna illustrazione del motivo appare al contrario l’attribuzione di una mera riqualificazione della domanda, non riconducibile quindi all’invocato articolo tutelante il contraddittorio – al quale, com’e’ noto, deve partecipare anche il giudice così come detta norma statuisce Riqualificazione che, è ovvio, rientra nella cognizione del giudice in punto di diritto (da mihi factum, dabo tibi jus); e logicamente, come la stessa ricorrente d’altronde riconosce, consolidato insegnamento di questa Suprema Corte, in coerenza con quanto appena rilevato, esclude per le questioni di puro diritto – quale è la qualificazione giuridica della domanda proposta l’applicazione dell’art. 101 c.p.c., comma 2.

A tacer d’altro, dunque, il primo motivo risulta palesemente inammissibile.

6. La stessa impronta investe anche il secondo motivo, non lineare perché più volte ritorna, in modo alquanto confuso, a miscelare le medesime questioni.

Ad ogni modo, è evidente che il giudice d’appello aveva il potere di mutare il rito, su ciò non essendosi formato alcun giudicato, vista l’applicabilità anche in secondo grado dell’art. 426 c.p.c., riconosciuta dalla stessa ricorrente. E comunque quest’ultima non spiega affatto come, per tale mutamento, non le sarebbe stato reso possibile “esporre le ragioni della erroneità sia del mutamento d’ufficio della domanda, sia del mutamento del rito, sia del rilievo d’ufficio di una eccezione riservata soltanto alle parti, sia infine del mutamento della qualificazione giuridica della domanda”.

Quel che realmente lede, nella sua ottica, la ricorrente è invece e ancora (così attuandosi una parziale ripresa del motivo precedente) la qualificazione della domanda, sulla quale però è sufficiente rilevare che non si era formato alcun giudicato, dal momento che il Comune fin dal primo grado aveva eccepito la natura extracontrattuale della domanda nel senso che vi aveva fondato una eccezione di prescrizione quinquennale; e detta eccezione la stessa ricorrente, nella più che sintetica premessa del ricorso, non adduce che il Comune abbia abbandonato nella sua comparsa d’appello (e cfr. quindi S.U. 21 marzo 2019 n. 7940). Da qualunque lato lo si guardi, dunque, il motivo rimane privo di ogni consistenza.

7. Il terzo motivo include, almeno in parte, ancora le doglianze dei due motivi precedenti.

E’ vero che la domanda attorea potrebbe, in astratto, qualificarsi in modo erroneo da parte del giudice se originariamente, come qui si sostiene, l’attuale ricorrente avesse proposto domanda di risarcimento di danno contrattuale in rapporto ad una illegittima applicazione di una clausola del contratto stesso.

Il ricorso è assai conciso, ma nella premessa comunque espone che nel “il giudizio presupposto” il Comune aveva agito “chiedendo di dichiarare la risoluzione di diritto, avvenuta il 15/12/2005 in forza di clausola risolutiva espressa, del contratto 12/12/2001 e della scrittura integrativa 4/8/2003 e di ordinarsi l’immediato rilascio dell’immobile” (ricorso, pagina 3), aggiungendo che nell’atto di citazione del presente giudizio Sala Borsa S.r.l. aveva chiesto la condanna del Comune a risarcirle i danni derivati dalla “illegittima anticipata risoluzione del contratto di locazione”.

Secondo la corte territoriale, però, il risarcimento del danno deriva dal “rilascio dell’immobile locato in quanto eseguito ingiustamente” (sentenza, pagina 2) e quindi costituisce “risarcimento per responsabilità aggravata per l’ingiusta esecuzione della condanna al rilascio” (sentenza, pagina 4): il giudice d’appello identifica pertanto, come già sopra si è constatato, la fonte del danno non nel rilascio per “illegittima anticipata risoluzione” in forza di scorretta applicazione della clausola risolutorio, bensì, appunto, nella ingiusta esecuzione della sentenza di primo grado, correlata ontologicamente ad una azione temeraria da cui alla fine della sequenza processuale era insorta tale ingiusta esecuzione.

La censura, dunque, in ultima analisi rimane eccentrica, poiché tenta di ricondurre alla extrapetizione quel che non è altro che – ancora deve ripetersi una (ri)qualificazione giuridica della domanda presentata, per la quale si rimanda a quanto sopra già rilevato a proposito dell’essere tale riqualificazione rientrante nella potestas giurisdizionale.

8. In conclusione, il ricorso risulta inammissibile, con conseguente condanna della ricorrente alla rifusione a controparte delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

Seguendo l’insegnamento di S.U. 20 febbraio 2020 n. 4315 si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2012, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente a rifondere a controparte le spese processuali, liquidate in un totale di Euro 13.000, oltre a Euro 200 per gli esborsi, al 15% per spese generali e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 17 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2022

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