LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Antonio – Presidente –
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –
Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –
Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 23700/2020 R.G. proposto da:
C.M., rappresentata e difesa dagli avv.ti SALVATORE ZIINO e ATTILIO TAVERNITI ed elettivamente domiciliata presso lo studio di quest’ultimo, in Roma, via Germanico 96;
– ricorrente –
contro
AZIENDA PUBBLICA SERVIZI ALLA PERSONA (ASP) “ISMA” (ISTITUTI DI SANTA MARIA IN AQUIRO), rappresentata e difesa dall’Avv. ARTURO CANCRINI presso il cui studio in Roma, Piazza San Bernardo 101, è
elettivamente domiciliata;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 1508/2020, depositata il 17.7.2020, N. R.G. 4020/2019.
Viste le conclusioni scritte depositate dal Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO RITA ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, con le quali è stato chiesto il rigetto del ricorso.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 22.12.2021 dal Consigliere Dott. Belle’ Roberto.
FATTI DI CAUSA
1. ISMA (Azienda pubblica servizi alla persona “Istituti di Santa Maria in Aquiro”), nel 2010, in esito a concorso pubblico per titoli ed esami, assunse C.M. come dirigente a tempo indeterminato.
Nel 2017, in conseguenza anche di indagini penali, ISMA dichiarò la nullità, ai sensi della L. n. 241 del 1990, art. 21-septies, della delibera di nomina e del conseguente contratto di lavoro dirigenziale e ciò sul presupposto dell’essersi verificate, nel concorso, varie violazioni, tra cui: l’avere la stessa C., come Segretario Generale, sottoscritto il bando e curato gli adempimenti pubblicitari; l’avere essa svolto funzioni di Responsabile Unico del Procedimento e di Trattamento dei dati personali, nonostante fosse al contempo candidata; nell’avere ricevuto, da uno dei componenti della Commissione esaminatrice, vari incarichi da ISMA negli anni precedenti; nell’essere, altra componente della stessa Commissione, priva dei requisiti di imparzialità in quanto avvocato presso il cui studio, secondo il sito web, la C. risultava essere collaboratrice, sia prima che dopo il concorso e di essere risultata, la medesima professionista, destinataria di numerosi incarichi da parte di ISMA per un elevato complessivo valore economico; nel non essere stati nominati i componenti aggiuntivi per la prova di lingua ed informatica; nell’avere, sempre la C., partecipato con il ruolo di Segretario Generale, alla seduta del Consiglio di Amministrazione con la quale era stata deliberata la sua assunzione in servizio, quale vincitrice del concorso.
La predetta delibera del 2017 era stata impugnata dalla C. davanti al TAR, che l’aveva annullata, ritenendo che l’adozione di essa in base alla L. n. 241 del 1990, art. 21-septies fosse erronea, perché non ricorreva alcuna delle nullità previste da tale norma, mentre semmai, aggiungeva il giudice amministrativo, le macroscopiche violazioni ed abnormità emerse erano suscettibili di essere emendate mediante il ricorso ad altra tipologia di atto di ritiro, sempre che ricorresse un interesse pubblico ulteriore in tal senso, rispetto al mero ripristino della legalità e tenuto conto dell’affidamento ingenerato.
La decisione del TAR veniva impugnata davanti al Consiglio di Stato dalla C., con giudizio che ad oggi non risulta ancora definito, mentre ISMA, con Delib. n. 57 del 2018, in esito ad apposito procedimento amministrativo, provvedeva all’annullamento d’ufficio del concorso, ai sensi della L. n. 241 del 1990, art. 21-nonies, in attuazione di quanto stabilito dal TAR e sul presupposto che la procedura concorsuale fosse da ritenere gravemente viziata, in aperto contrasto con norme imperative e con violazione destinata ad incidere in modo insanabile sul buon andamento della P.A., il tutto ritenuto di evidente, attuale e concreto interesse pubblico in generale e per l’ente in particolare. Con la medesima delibera di annullamento il Comune affermava altresì la caducazione del contratto individuale di lavoro conseguito al concorso ed intercorrente con la C..
2. C.M. si è quindi rivolta al giudice del lavoro chiedendo che fosse dichiarata la nullità, inefficacia ed illegittimità della delibera del 2018 e chiedendo, altresì, di essere reintegrata nel posto di lavoro, sul presupposto che il Comune avesse agito con carenza di potere in astratto, per l’assenza di potestà autoritative della P.A. rispetto al contratto di diritto privato intercorrente con i propri dipendenti.
3. Il Tribunale di Roma, ritenuta la giurisdizione ordinaria per l’avere ad oggetto il processo i diritti soggettivi derivanti dal contratto di lavoro, riteneva che il comportamento tenuto da ISMA fosse equivalente alla condotta del contraente che non osservi il contratto, perché affetto da una causa di annullamento.
4. La Corte d’Appello di Roma, investita dal gravame della C., confermava la sentenza di primo grado, ma con diversa motivazione.
Essa condivideva, infatti, il rilievo dell’appellante secondo cui il giudice, nel ritenere l’annullabilità del contratto di lavoro, aveva esorbitato dall’ambito delle questioni ad esso sottoposte, ciò non essendo supportato da una corrispondente eccezione di ISMA.
La Corte di merito sosteneva tuttavia che la stipula del contratto non facesse venire meno i poteri autoritativi riguardanti la fase di scelta, attraverso il concorso, del contraente e che pertanto gli atti di tale fase potessero essere ritirati dalla P.A., allorquando fosse emersa la loro illegittimità, in esercizio dei medesimi poteri che le avevano consentito di porli in essere, con provvedimento che aveva ad oggetto, in tale prospettiva, non il contratto di lavoro, ma la predetta fase pubblicistica.
Conseguenza di ciò era – sempre secondo la Corte di merito – non un licenziamento, ma la presa d’atto di una ineludibile caducazione del contratto di lavoro di diritto privato, quale effetto di una nullità sopravvenuta e dunque di una fattispecie diversa dall’annullamento ed afferente a vizio rilevabile d’ufficio.
La Corte territoriale non escludeva che il provvedimento di ritiro potesse essere, nel medesimo frangente, suscettibile di disapplicazione da parte del giudice ordinario, ma affermava che tale potere era da ancorare a parametri di legittimità che sarebbe stato onere del ricorrente far valere e che nel caso di specie non erano stati in alcun modo profilati, avendo la ricorrente insistito soltanto su una pretesa nullità per carenza del potere in astratto, che invece non sussisteva per le ragioni sopra indicate.
5. C.M. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di otto motivi, resistiti da controricorso di ISMA.
Il Pubblico Ministero, nelle proprie conclusioni scritte, ha concluso per il rigetto del ricorso Entrambe le parti hanno depositato memoria difensiva.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 e richiamando all’art. 11 Cost., comma 6, nonché l’art. 132 c.p.c., n. 4, l’art. 118 disp. att. c.p.c. oltre all’art. 6 C.E.D.U., la portata meramente apparente della motivazione resa dalla Corte territoriale, la quale avrebbe, attraverso un’argomentazione incomprensibile e contraddittoria, affermato l’esistenza di un atto pubblicistico di ritiro in autotutela, per poi negare l’esercizio dell’autotutela, ridotta ad una semplice “presa d’atto” dell’avvenuta caducazione del rapporto di diritto privato scaturito dal concorso; così come contraddittoria sarebbe l’affermazione per cui il recesso si giustificherebbe, nelle condizioni determinatesi, dal venire meno della volontà della P.A. e ciò in quanto, in presenza di un potere pubblicistico, la volontà non potrebbe avere rilievo, così come mal richiamata sarebbe la “volontà” ove quella della P.A., sotto il profilo del contratto di lavoro, consistesse in una mera presa d’atto.
Il secondo motivo assume la violazione e falsa applicazione (art. 360 c.p.c., n. 3) dell’art. 2909 c.c. e degli artt. 39 e 91Codice del Processo Amministrativo, oltre che dell’art. 324 c.p.c. per violazione del giudicato riveniente dalla pronuncia del TAR del Lazio, la quale aveva accertato che ISMA non avrebbe potuto considerare nulli gli atti della procedura concorsuale ed il contratto di lavoro per insussistenza dei presupposti legittimanti di cui alla L. n. 421 del 1990, art. 21-septies.
Il terzo motivo afferma invece, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, che la Corte d’Appello avrebbe violato gli artt. 323 e 329 c.p.c. ed il giudicato interno formatosi sulla statuizione di primo grado secondo cui era da escludersi l’esistenza di un potere amministrativo di autotutela rispetto ad atti, come era il contratto, di diritto privato, essendosi erroneamente ritenuto, nella sentenza impugnata ed in contrasto con tale giudicato, che la P.A. restasse titolare di poteri di autotutela per il ritiro degli atti riguardanti la procedura concorsuale.
Il quarto motivo denuncia invece, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 1372 e 2697 c.c., nonché del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 2 e 3, rimarcando come, a fronte della sussistenza del contratto di lavoro inter partes, sarebbe stato onere della P.A. dimostrare la ricorrenza dei presupposti idonei a consentirle di sottrarsi all’efficacia vincolante di esso e, quindi, a comprovare di avere esercitato un potere legittimo o l’esistenza dei vizi che avrebbero legittimato l’atto di “ritiro” posto in essere.
Secondo quanto addotto con il quinto motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 e per violazione dell’art. 115 c.p.c. e art. 6 C.E.D.U., la Corte territoriale avrebbe altresì errato nell’affermare che la ricorrente non avesse evidenziato i vizi di legittimità della delibera di ritiro degli atti concorsuali, in quanto in primo grado ed in appello, attraverso il richiamo alle difese svolte presso il TAR e poi presso il Consiglio di Stato, vi era stata la contestazione di vari profili di legittimità della delibera stessa.
Il sesto motivo assume invece la nullità della sentenza e del procedimento, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione degli artt. 112 e 345 c.p.c., nonché dell’art. 111 Cost., comma 1 e 2, nella parte in cui è stato posto a fondamento della decisione un motivo di risoluzione che non era stato dedotto dallo stesso datore, non essendo mai stata evocata una nullità del contratto di lavoro.
Con il settimo motivo è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 1418 e 1421 c.c., nonché del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63, comma 1 e 4, (art. 360 c.p.c., n. 3), per essersi ritenuto che il sopravvenuto annullamento in sede amministrativa del concorso comportasse la nullità del contratto originariamente stipulato in esito alla selezione poi rimossa; secondo la ricorrente, infatti, il venire meno della volontà non era previsto come causa di nullità del contratto, mentre solo l’assunzione senza concorso – e non quella avutasi a seguito di una procedura concorsuale in ipotesi illegittima, ma non impugnata, né quindi mai annullata dl giudice amministrativo – poteva costituire ragione di nullità ai sensi dell’art. 1418 c.c..
Infine, l’ottavo motivo reitera, sub specie di violazione e falsa applicazione (art. 360 c.p.c., n. 3) degli artt. 97 e 101 Cost. e D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 e s.s., l’assunto in ordine all’assenza di poteri autoritativi della P.A. datore di lavoro rispetto ai contratti privatistici in essere con i propri dipendenti.
2. I motivi di ricorso per cassazione possono essere esaminati congiuntamente, secondo la loro consequenzialità logico-giuridica.
3. Va intanto disatteso il motivo (il primo) con cui si assume il ricorrere di una motivazione apparente, per asserita insanabile contraddittorietà e ciò per l’assorbente ragione che tale ipotesi non può che riguardare la ricostruzione dei fatti storici e non certo, com’e’ invece nell’impostazione del motivo, il ragionamento giuridico alla base della decisione.
Tale ragionamento può essere errato o meno negli esiti giuridici, con censure eventualmente da calibrare sulla violazione di legge di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, ma non ammette una critica meramente motivazionale anche nei termini di cui all’art. 132 c.p.c., n. 4, atteso che un’ipotetica erronea motivazione in diritto andrebbe soltanto corretta da questa S.C. ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c..
4. D’altra parte, non è neppure vero che il ragionamento giuridico della Corte territoriale sia contraddittorio: esso risulta, anzi, coerente con la consolidata giurisprudenza di questa S.C., secondo cui “nell’impiego pubblico contrattualizzato, poiché alla stipula del contratto di lavoro si può pervenire solo a seguito del corretto espletamento delle procedure concorsuali previste dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35, comma 1, lett. a) o, per le qualifiche meno elevate, nel rispetto delle modalità di avviamento di cui al combinato disposto del richiamato D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35, comma 1, lett. b) e del D.P.R. n. 487 del 1994, artt. 23 e s.s., la mancanza o l’illegittimità delle richiamate procedure si traduce in un vizio genetico del contratto, affetto, pertanto, da nullità, che l’amministrazione, in quanto tenuta a conformare il proprio comportamento al rispetto delle norme inderogabili di legge, può fare unilateralmente valere, perché anche nei rapporti di diritto privato il contraente può rifiutare l’esecuzione del contratto nei casi in cui il vizio renda il negozio assolutamente improduttivo di effetti giuridici” (così, espressamente, Cass. 7 maggio 2019, n. 11951; in precedenza in senso analogo, tra le molte, Cass. 8 gennaio 2019, n. 194; Cass. 31 maggio 2017, n. 13800; Cass. 8 aprile 2010, n. 8328; successivamente, Cass. 27 novembre 2019, n. 30992).
Assetto da cui si evince pianamente come, rispetto al contratto di lavoro, non si parli di autotutela, mentre a quest’ultima si possa fare riferimento con riguardo alla fase di scelta del contraente, ovverosia al concorso, nella misura in cui ricorrano i presupposti che consentono alla P.A. di adottare atti di ritiro in ragione delle illegittimità riscontrate ed inerenti ad esso.
Da tali considerazioni emerge altrettanto pianamente l’infondatezza dell’ottavo motivo di ricorso.
4.1 E’ poi da escludere che fosse maturato, come infondatamente sostenuto con il terzo motivo, un giudicato interno sull’inesistenza di poteri di autotutela in senso proprio.
Gli stralci della sentenza di primo grado in cui si nega il potere di autotutela si limitano a ribadire il principio secondo cui la P.A. può sottrarsi al contratto in essere solo in base alle regole a tale fine previste per il datore di lavoro privato o comunque dalla legge.
Non si ravvisa, in quei passaggi, il diniego di poteri autoritativi di intervento sul concorso, al fine di invalidarlo in ragione della sua illegittimità: dunque, è da escludere la ricorrenza di una qualche preclusione alle migliori precisazioni motivazionali poi sviluppate dalla sentenza di appello attraverso la distinzione tra la fase amministrativa di scelta del contraente, rispetto alla quale l’autotutela in senso proprio resta esercitabile nei limiti in cui lo consentano le norme che la regolano (L. n. 241 del 1990, artt. 21-quinquies s.s.), e la fase civilistica, rispetto alla quale la P.A., come datore di lavoro non ha il potere di rifiutare l’esecuzione del rapporto se non quando lo permettano le norme, tra cui quelle sulla nullità, che disciplinano il contratto (civilistico) di lavoro privatizzato.
4.2 Parimenti infondato è l’assunto di cui al secondo motivo, in forza del quale sarebbe la sentenza del TAR Lazio, intervenuta ad annullare il primo atto di ritiro in autotutela posto in essere da ISMA, a dispiegare effetto di giudicato impeditivo rispetto al successivo operato della P.A. qui in contestazione.
La sentenza del TAR ha infatti annullato quell’originario provvedimento di ritiro degli atti del concorso per essere stato ciò attuato ai sensi della L. n. 241 del 1990, art. 21-septies, pur non ricorrendo, nei vizi posti a base della scelta di autotutela, le speciali patologie che giustificano la rimozione per ragioni di nullità ai sensi di tale disposizione.
Quella pronuncia del TAR non comportava invece alcuna preclusione rispetto alla valorizzazione di quegli stessi vizi come ragione di annullamento per ragioni di legittimità ai sensi della L. n. 241 del 1990, art. 21-novies, che – anzi – quella stessa sentenza indicava come percorso di ripristino della legalità da compiersi da parte della P.A., previa valutazione della ricorrenza di un interesse pubblico in tal senso.
Sicché dalla sentenza del TAR è semmai derivato un vincolo conformativo, come si dirà in prosieguo, rispetto alla necessità di dare corso alle valutazioni in ordine all’annullamento di quel concorso secondo le pertinenti regole dell’autotutela amministrativa e non certo un vincolo in senso contrario.
E’ poi evidente che l’assenza di nullità del contratto per insussistenza dei presupposti di nullità del concorso nei termini di cui alla citata L. n. 241 del 1990, art. 21-septies, affermata dal TAR, è cosa parimenti diversa: essa non dispiega alcun effetto preclusivo rispetto alla caducazione del medesimo contratto per effetto della rimozione del concorso disposta per cause di invalidità previste dalla citata L. n. 241 del 1990, art. 21-novies.
5. In definitiva, l’annullamento della fase concorsuale ai sensi della L. n. 241 del 1990, art. 21-novies rimuove con effetto ex tunc un presupposto necessario del contratto di lavoro, che resta caducato da una nullità originaria (e non sopravvenuta come erroneamente afferma la Corte di merito), per quanto accertata successivamente, consentendo soltanto la salvaguardia di cui all’art. 2126 c.c. rispetto alle prestazioni di fatto svolte medio tempore.
Il tutto secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza citata al punto 4 che precede, che giustifica pertanto la reiezione di quanto addotto con il settimo motivo di ricorso.
Non è dunque vero che l’ordinamento non riconoscerebbe nell’accaduto una ragione di legittimo rifiuto della P.A. dall’ulteriore attuazione del contratto, che invece ricorreva proprio per essere il predetto inficiato da nullità, così come del tutto legittimo – lo si dice anche in risposta al sesto motivo di ricorso – è che la Corte d’Appello abbia posto officiosamente a fondamento della propria decisione tale nullità, stante il disposto dell’art. 1421 c.c. e stante il fatto che la pretesa della ricorrente era quella di dare corso agli effetti di quel contratto, inattuabile a fronte della nullità di esso.
6. Ciò posto, è infondato l’assunto della ricorrente – di cui al quarto motivo – secondo cui la sentenza di appello avrebbe violato le regole sull’assetto degli oneri probatori.
L’esercizio del potere di autotutela attraverso la rimozione degli atti del concorso per loro originaria illegittimità costituisce di per sé fatto idoneo a giustificare il rilievo della caducazione (per nullità) del contratto che ad essi è conseguito.
Semmai, ed anche da questo punto di vista l’impostazione fornita alla fattispecie dalla sentenza impugnata è corretta, nel giudizio sul diritto soggettivo alla prosecuzione del rapporto l’atto di ritiro può essere sindacato in via incidentale, al fine della sua eventuale disapplicazione, ove emergessero profili di illegittimità.
7. Viene a questo proposito in evidenza il quinto motivo, con il quale si censura la sentenza impugnata per avere erroneamente affermato che la ricorrente non avesse messo in luce, ai fini della disapplicazione, i vizi di legittimità della delibera di ritiro degli atti concorsuali.
7.1 Anche al di là del fatto che sulla questione di giurisdizione, agitata nel primo grado di giudizio, è palesemente sceso il giudicato interno, non essendo stata essa coltivata dalle parti in causa, va in ogni caso condiviso l’assetto dei poteri del giudice ordinario quale ricostruito dalla Corte d’Appello rispetto ad una vicenda come quella qui in esame.
E’ indubbio che la controversia abbia ad oggetto il diritto soggettivo scaturito dalla stipula del contratto tra le parti.
Su tale diritto influisce, in senso caducatorio e secondo la dinamica che si è sopra vista, l’annullamento in autotutela (in senso proprio) del concorso.
E’ vero che, rispetto alla pretesa di riconoscimento di diritti soggettivi conseguenti ad un certo svolgimento che il concorso avrebbe dovuto avere, si è affermata la giurisdizione amministrativa, per riguardare il giudizio, in tal caso, direttamente il concorso e determinati esiti che si pretenderebbero derivare -da esso (Cass., S.U., 19 aprile 2010, n. 9224).
Tuttavia, è chiaro che qui la situazione risulta rovesciata, nel senso che l’azione ha in via diretta ad oggetto un contratto esistente tra le parti e dei cui effetti in termini di diritti soggettivi ed obblighi reciproci si deve apprezzare la validità.
In questo senso si è del resto già espressa questa S.C., allorquando ha ritenuto che “gli atti di annullamento d’ufficio relativi alle procedure concorsuali….. intervenuti dopo l’esaurimento delle procedure stesse e dopo la conclusione dei contratti di lavoro a tempo indeterminato” comportano che la domanda “rivolta alla conservazione degli effetti dei detti contratti già in essere” non solo rientra nella giurisdizione ordinaria, ma consente altresì che “le questioni prospettate in merito ai vizi di illegittimità degli atti di annullamento d’ufficio denunciati ben possono essere conosciute dal giudice ordinario nell’esercizio dei poteri di disapplicazione” (Cass., S.U., 4 febbraio 2014, n. 2396).
Il tutto va visto nell’alveo della previsione generale di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63, secondo cui “sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro” di impiego pubblico privatizzato “ancorché vengano in questione atti amministrativi presupposti”, in quanto “quando questi ultimi siano rilevanti ai fini della decisione, il giudice li disapplica, se illegittimi”.
Non può quindi esservi dubbio che ci si trovi di fronte alla decisione su atti di gestione di un rapporto, per quanto nella forma estrema del rifiuto di riconoscimento della validità negoziale del vincolo da cui il rapporto deriva e che, quindi, richiamati anche gli assunti in ordine all’eccezionalità della giurisdizione amministrativa in ambito di lavoro privatizzato (Cass., S.U., 9224/2010, cit.; Cass. 3 febbraio 2004, n. 1989), il giudice ordinario abbia cognizione piena, estesa alla verifica incidentale di legittimità sugli atti di rimozione della fase concorsuale, da cui deriverebbe la caducazione, per invalidità civilistica, del contratto stipulato tra le parti.
Valendo altresì il principio già espresso da questa S.C. secondo cui “nelle controversie relative a rapporto di lavoro pubblico privatizzato, la pregiudiziale amministrativa (da ritenersi configurabile anche in presenza del nuovo testo dell’art. 295 c.p.c., che pure non ne reca più l’esplicita menzione) può astrattamente sussistere solo nel caso in cui il giudice amministrativo sia chiamato a definire questioni di diritto soggettivo nell’ambito di attribuzioni giurisdizionali esclusive, ma non nel caso di controversia avente ad oggetto l’impugnazione di provvedimenti a tutela di interessi legittimi, potendo il giudice ordinario disapplicare tali provvedimenti, a tutela dei diritti soggettivi influenzati dagli effetti degli stessi” (Cass. 23 gennaio 2018, n. 1607; Cass. 3 agosto 2018, n. 20491), sicché, anche ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63, comma 1, u.p., non ha rilievo la pendenza del giudizio amministrativo tra le parti, peraltro avente ad oggetto diretto non l’atto di ritiro L. n. 241 del 1990, ex art. 21-novies, ma l’affermazione del TAR (emessa nell’annullare il precedente atto di ritiro assunto ai sensi dell’art. 21-septies) della sussistenza di macroscopici vizi nell’originario concorso.
7.2 Ciò posto, si osserva che, in effetti, il quinto motivo di ricorso, attraverso il rinvio alle difese svolte presso il Consiglio di Stato ed il richiamo ad esse in primo e secondo grado, contiene, ove letto unitariamente con il riepilogo di tali profili contenuto a pag. 6 e 7 del ricorso per cassazione, un’indicazione di profili di asserita illegittimità dell’atto amministrativo di ritiro in autotutela.
7.3 D’altra parte, seppure la sentenza impugnata abbia omesso di pronunciare sui vizi dedotti, così violando l’art. 112 c.p.c., ciononostante non può aversi la cassazione di essa, se il profilo trascurato sia comunque da ritenere giuridicamente infondato (Cass., S.U., 2 febbraio 2017, n. 2731).
7.4 In proposito, l’esistenza di vizi macroscopici dell’originaria procedura concorsuale, già evidenziati anche dal TAR, esclude qualsiasi rilevanza decisiva dei profili di illegittimità prospettati dalla ricorrente.
Basti rilevare come ISMA abbia fatto constare che la C. collaborava con lo studio legale di uno dei Commissari d’esame, tra l’altro risultato destinatario di incarichi da parte dell’Azienda, sia prima che dopo quel concorso.
A fronte di ciò, il presunto vizio dell’atto di autotutela finalizzato ad annullare, anche su tale base, il concorso, è indicato nel ricorso per cassazione sulla base di profili irrilevanti o generici.
Il fatto – desumibile dalle dichiarazioni rese dall’avv. Napoli all’Ispettorato, quali riportate nel ricorso per cassazione nella parte riepilogativa degli asseriti profili di illegittimità del ritiro degli atti concorsuali – che la C. collaborasse a quello studio professionale per le proprie competenze in materia di diritto canonico ed ecclesiastico, nulla muta rispetto alla ricorrenza di un interesse comune, estraneo rispetto a quello della P.A., tra il legale-Commissario e la candidata del concorso che la prima era chiamata ad esaminare; così come il fatto che la C. non avesse “mai fornito consulenza a qualsivoglia titolo” o non avesse svolto “alcun tipo di incarico” – oltre a non escludere espressamente che attraverso quel rapporto esterno la C. potesse avere seguito propri clienti – neppure esclude che la possibilità di fruire della prestazioni della C. presso quello studio, manifestata attraverso il corrispondente sito web, vi fosse e, con essa, ricorresse il conflitto di interessi, che è comunque situazione rilevante anche solo in termini di pericolo.
Non diversamente, costituivano senza dubbio elementi sintomatici di sviamento i ruoli di responsabile del procedimento e del trattamento dei dati personali che, rispetto a quel concorso, si erano radicati in capo alla C..
Sul punto, il profilo di asserita illegittimità della decisione di ritiro ancora indicato a pag. 6 del ricorso per cassazione, si limita alla generica affermazione del non avere la ricorrente svolto le attività proprie della procedura concorsuale, ma non contiene la negazione espressa dei ruoli formali, tra cui quello di r.u.p., in capo alla ricorrente. Ciò, tenuto conto del già precisato rilievo sul piano del mero pericolo del conflitto di interesse, esclude che quanto così addotto sia idoneo ad individuare un qualche concreto ed effettivo vizio di legittimità dell’atto di ritiro.
Su tali basi e tenuto conto che nel caso di specie il nuovo intervento in autotutela si è altresì mosso per dare attuazione all’effetto conformativo derivante dall’esplicita statuizione in tal senso del TAR (su tale effetto, v. Cass., S.U. 25 maggio 2021, n. 14322; Cons. Stato, sez. IV 14 giugno 2018, n. 3664), è palese l’assenza di decisivi elementi di vizio idonei ad inficiare la validità dell’atto di annullamento successivamente emesso ai sensi dell’art. 21-novies e che qui viene in rilievo.
7.5 Va – anzi – detto che ISMA, nel provvedere ex novo, ha avuto cura di valutare all’attualità, come prescritto dal TAR, l’interesse alla rimozione degli effetti del concorso, a tal fine considerando la gravità dell’accaduto ed il fatto che, ad esserne inficiata, fosse la nomina dell’unico dirigente in pianta organica, titolare di funzioni vicarie di Segretario Generale, con incidenza persistente delle illegalità originarie sul buon andamento della P.A..
Così come, per dare risposta alla questione sui tempi dell’atto di ritiro che aleggia in vari passaggi delle difese della C., è da escludere che essi abbiano in alcun modo decisivo rilievo.
Il ritiro è stato, infatti, attuato con immediatezza rispetto al provvedimento giudiziale di annullamento del precedente atto assunto L. n. 241 del 1990, ex art. 21-septies ed in piena coerenza rispetto all’effetto conformativo indotto da quanto precisato esplicitamente nella sentenza (esecutiva) del TAR quanto alla riedizione del potere di ritiro stesso.
Vale il principio per cui la sentenza di annullamento da parte dell’autorità giudiziaria amministrativa impone alla P.A. “un obbligo non sottoposto a termine” e “produce uno svolgimento interno delle situazioni giuridiche coinvolte di tipo preclusivo nel senso che l’amministrazione non può regolare la “vicenda diversa” in contrasto con il complessivo accertamento giudiziale già svolto in ossequio al…. canone di coerenza nell’esercizio del potere” (così Cass., S.U., 25 maggio 2021, n. 14322, con richiamo a Cons. Stato, sez. V, 11 marzo 2020, n. 1738).
E’, infine, parimenti evidente l’insussistenza di profili di affidamento tutelabile, stante il ruolo rivestito dalla stessa lavoratrice nella determinazione delle illegittimità riscontrate.
8. Il ricorso va quindi integralmente disatteso.
9. Può altresì esprimersi, in continuità con i precedenti in materia, il principio per cui “in tema di pubblico impiego privatizzato, l’annullamento in autotutela ai sensi della L. n. 241 del 1990, art. 21-novies di un concorso pubblico, per vizi di legittimità riscontrati dalla P.A. rispetto agli atti della selezione, determina la nullità originaria, sebbene accertata successivamente, del contratto di lavoro stipulato in esito alla conclusione del concorso stesso; nel giudizio instaurato dal lavoratore per la tutela del diritto soggettivo alla prosecuzione del rapporto conseguente a tale contratto il giudice ordinario ha il potere di disapplicare il provvedimento di annullamento solo se ed in quanto si ravvisino rispetto ad esso i vizi di legittimità propri degli atti amministrativi”.
10. Alla reiezione del ricorso segue la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 22 dicembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2022
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