LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE T
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GRECO Antonio – Presidente –
Dott. MOCCI Mauro – Consigliere –
Dott. CAPRIOLI Maura – rel. Consigliere –
Dott. LO SARDO Giuseppe – Consigliere –
Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 5911-2020 proposto da:
FURNO OREFICERIA SRL, in persona delle legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI LAURI n. 11, presso lo studio dell’avvocato GIORGIO DE ANGELIS, rappresentata e difeso dall’avvocato PASQUALE TARRICONE;
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, (C.F. *****), in persona Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope legis;
– resistente –
avverso la sentenza n. 5999/22/2019 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della CAMPANIA, depositata l’08/07/2019;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 20/10/2021 dal Consigliere Relatore Dott. MAURA CAPRIOLI.
FATTO E DIRITTO
Considerato che:
l’Agenzia delle Entrate ricorreva contro la decisione della CTR della Campania in epigrafe assumendo, con un motivo, violazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., ed omessa o insufficiente motivazione su fatto controverso decisivo, per aver il giudice d’appello ritenuto – a fronte delle documentate allegazioni dell’Ufficio, atte a dimostrare l’esistenza di maggiori ricavi non contabilizzati ai fini Iva, Irpef ed Irap per il 2005 da parte della Furno Oreficeria Srl – la pretesa infondata con una inadeguata valutazione degli elementi forniti ed in assenza di idonei elementi contrari da parte della contribuente.
La Suprema Corte accoglieva con sentenza n. 22164/2017 il ricorso rilevando che la CTR nonostante la pluralità degli elementi allegati dall’Ufficio (un utile esiguo, pari a 9.096,00 Euro da ripartire tra tre soci; elevati conferimenti in capitale, pari ad oltre 178.000,00 Euro; incongruenza dei ricavi con lo studio di settore applicabile; incongruenza rispetto ai ricavi ottenuti da altro esercizio di analoghe dimensioni e localizzazione; elevato costo del personale, pari ad oltre il doppio dell’utile, e in assenza di ogni giustificazione da parte della contribuente), si fosse limitata ad esaminare, negandone la rilevanza probatoria in termini dogmatici, uno solo di questi (l’elevato costo del personale), ed ha completamente trascurato tutte le ulteriori circostanze acquisite al giudizio, mentre i requisiti della gravità, precisione e concordanza vanno ricavati in relazione al complesso degli indizi, che sono soggetti a una valutazione di sintesi articolata e globale (v. da ultimo Cass. n. 12002 del 2017).
La Società Furno Oreficeria Srl riassumeva il giudizio avanti alla CTR della Campania la quale con sentenza nr 5999/2019 rigettava l’appello della contribuente.
Il Giudice del rinvio rilevava che l’accertamento induttivo disposto dall’Agenzia delle Entrate era giustificato dagli scostamenti rispetto agli studi di settore sia con riferimento ai ricavi(inferiori a quelli derivanti dall’applicazione dello Studio oltre il 15%) sia con riferimento al reddito (inferiore a quello desumibile dallo studio per il 2,97%).
Osservava poi che altro elemento assolutamente non conciliabile con una ragionevole e non antieconomica attività aziendale era rappresentato dal costo del personale pari al doppio del reddito di impresa.
Sottolineava infine che una percentuale di ricarico del 26,35% appariva incongrua per difetto sia obbiettivamente sia con riferimento alle caratteristiche dell’attività (un attività di gioielleria che si rivolge ad una clientela con capacità finanziarie medio-alte) e che viceversa doveva considerarsi ragionevole e plausibile il ricarico applicato dall’Ufficio nella misura del 50% del costo del venduto trovando lo stesso conferma nel ricarico dichiarato da altra gioielleria di Apice nell’anno 2005.
Rilevava che il reddito percepito da ciascuno dei tre soci era talmente esiguo da rendere l’attività commerciale antieconomica.
Avverso tale decisione la società contribuente propone ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo, illustrato da memoria, cui resiste solo formalmente l’Agenzia delle Entrate.
Si denuncia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 55, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Si sostiene che le ipotesi tassative per le quali è previsto il ricorso all’accertamento induttivo non ricorrerebbero nel caso in esame sicché la CTR avrebbe violato il disposto dell’art. 39, richiamato in rubrica applicandolo ad una ipotesi non consentita dalla legge.
Si lamenta che la percentuale di ricarico non sarebbe stata motivata dall’Agenzia limitandosi ad affermare che la percentuale applicata all’odierna ricorrente era stata desunta da quella applicata ad altra gioielleria esercente l’attività in un altro paese della medesima provincia.
Si evidenzia che non vi sarebbe un riferimento alla media del settore né alla valutazione delle merci acquistate.
Le questioni veicolate attraverso l’articolato profilo di censura investono da un lato i presupposti che legittimano l’accertamento induttivo e dall’altro la percentuale di ricarico applicata dall’Ufficio e considerata congrua dall’Amministrazione.
Relativamente al primo aspetto va ricordato che la giurisprudenza costante di questa Corte ha chiarito che, pur in presenza di contabilità formalmente regolare, i ricavi possano essere ritenuti falsi anche in base alla loro sproporzione, per difetto, rispetto ai costi e che, in tale contesto, sia possibile un accertamento analitico-induttivo, il quale tenga conto delle poste passive indicate dal contribuente, per ricostruire i ricavi effettivi (cfr. Sez. 5, Sentenza n. 20422 del 21/10/2005, Rv. 585383-01, secondo cui l’accertamento analitico-induttivo, è sempre legittimo quando l’esposizione dei ricavi sia talmente ridotta rispetto ai costi da indurre a ritenere antieconomica la gestione). In particolare è stato da tempo chiarito che “l’accertamento con metodo analitico-induttivo, con quale il fisco procede alla rettifica di singoli componenti reddituali, ancorché di rilevante importo, è consentito, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), pure in presenza di contabilità formalmente tenuta, giacché la disposizione presuppone, appunto, scritture regolarmente tenute e, tuttavia, contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della completezza e fedeltà della contabilità esaminata” (ex multis: Cass., sez. 5, n. 33508 del 2018; n. 20060 del 2014); egualmente, in materia di IVA, è stato soggiunto che “l’Amministrazione finanziaria, in presenza di contabilità formalmente regolare ma intrinsecamente inattendibile per l’antieconomicità del comportamento del contribuente, può desumere in via induttiva, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, commi 2 e 3, sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, il reddito del contribuente utilizzando le incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, incombendo su quest’ultimo l’onere di fornire la prova contraria e dimostrare la correttezza delle proprie dichiarazioni” (cfr., Sez. 6-5, Ordinanza n. 26036 del 30/12/2015, Rv. 638202-01; eadem, Sez. 5. Ordinanza n. 25217 del 11/101/2018; n. 32624 del 2019).
Nella sentenza impugnata, la CTR si è attenuta ai suddetti principi, in quanto ha ritenuto che gli elementi posti a base dell’accertamento dall’Ufficio giustificassero il ricorso a tale forma di accertamento e ciò sulla base degli scostamenti dagli Studi di settore sia con riferimento ai ricavi che al reddito sia con riguardo al costo del personale pari al doppio del reddito netto di impresa.
Sul punto la CTR ha invocato e fatto applicazione di corretti principi giuridici per cui, in tema di accertamento induttivo del reddito di impresa, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), il convincimento del giudice in ordine alla sussistenza di maggiori ricavi non dichiarati da un’impresa commerciale può fondarsi anche su una sola presunzione semplice, purché grave e precisa, la valutazione della cui rilevanza, peraltro, nell’ambito del processo logico applicato in concreto, non è sindacabile in sede di legittimità ove sorretta da motivazione adeguata e logicamente non contraddittoria (v. Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 30803 del 22/12/2017 Rv. 646681 – 01).
In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, mentre, viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, fra l’altro sottratta al sindacato di legittimità e la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 8315 del 04/04/2013 Rv. 626129 – 01; Sez. 5, Sentenza n. 26110 del 30/12/2015 Rv. 638171 – 01; Sez. 1 -, Ordinanza n. 24155 del 13/10/2017 Rv. 645538 – 03); il che dimostra la inammissibilità del motivo nel caso specifico poiché la ricorrente ha preso in esame esclusivamente la valutazione della fattispecie concreta da parte del giudice di appello, invocando un diverso scrutinio delle risultanze processuali, al fine di escludere la gravità e la concordanza degli elementi presuntivi che, secondo la sentenza impugnata, avrebbero giustificato l’accertamento analitico – induttivo, attraverso un riesame dei dati fattuali, lo scostamento dagli studi di settore e l’antieconomicità dell’attività svolta e i rilevanti apporti economici conferiti dai soci che non è consentito nel giudizio di legittimità.
Con riguardo, poi, alla sotto-censura concernente la mancata indicazioni delle ragioni che hanno condotto l’Amministrazione finanziaria ad affermare la misura del ricarico utilizzando come parametro di riferimento non le medie del settore ma una percentuale casualmente individuata, anch’essa è inammissibile sotto molteplici profili, giacché: (1) da un lato, nel silenzio della gravata decisione sul punto, parte ricorrente non ha trascritto, ai fini della specificità del motivo, come la doglianza in questione sarebbe stata proposta nei precedenti gradi di merito.; (2) dall’altro, essa comunque disvela un (inammissibile) vizio motivazionale non dedotto.
Alla stregua delle considerazioni sopra esposte il ricorso va dichiarato inammissibile.
Nessuna determinazione in punto spese stante il mancato svolgimento dell’attività difensiva da parte dell’Agenzia delle Entrate.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 20 ottobre 2021.
Depositato in Cancelleria il 18 gennaio 2022