Se la natura di un bene immobile oggetto di comunione non ne permette un simultaneo godimento da parte di tutti i comproprietari, l'uso comune può realizzarsi o in maniera indiretta oppure mediante avvicendamento, ma che fino a quando non vi sia richiesta di un uso turnario da parte degli altri comproprietari, il semplice godimento esclusivo ad opera di taluni non può assumere la idoneità a produrre un qualche pregiudizio in danno di coloro che abbiano mostrato acquiescenza all'altrui uso esclusivo, salvo che non risulti provato che i comproprietari che hanno avuto l'uso esclusivo del bene ne abbiano tratto anche un vantaggio patrimoniale.
Corte di Cassazione, sez. II Civile, Sentenza n. 1738 del 20/01/2022
(Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere)
RAGIONI IN FATTO DELLA DECISIONE
Con citazione dell’8/7/2005 P.D., premettendo di essere figlia di P.T., deceduto in data *****, conveniva in giudizio la madre, R.E., ed i fratelli P.G. e L., assumendo che gli eredi non avevano provveduto all’integrale scioglimento della comunione ereditaria, in quanto i beni mobili di cui alla scrittura del 3/10/1994, tra i quali erano inclusi dei fucili, alcuni gioielli ed una collezione di medaglie, sicché, previo annullamento della denuncia di successione, era necessario procedere alla riassegnazione dei beni ancora in comunione, comprendendo sia i beni mobili che le giacenze sul conto cointestato alla madre ed al fratello.
Si costituiva R.E. che, oltre a dedurre di avere usucapito la proprietà dei beni mobili, in via riconvenzionale deduceva di essere titolare della quota di usufrutto di un terzo sull’immobile di proprietà dell’attrice, la quale andava condannata a versarle, per l’occupazione esclusiva la quota di frutti corrispondente al diritto vantato.
Si costituiva anche P.G. che a sua volta, chiedeva accertarsi l’usucapione dei beni mobili caduti in successione.
Il Tribunale di Treviso, con la sentenza n. 415 del 24/2/2009, rilevando che il patrimonio era stato oggetto di due distinti atti divisionali in data 22/9/1983 e 4/11/1996, rigettava la domanda attorea, accogliendo le domande riconvenzionali di usucapione avanzate dai convenuti; inoltre condannava l’attrice al pagamento della somma corrispondente alla quota di 1/3 del valore locativo del bene sul quale la madre vantava pro quota il diritto di usufrutto.
Avverso tale sentenza ha proposto appello P.D. e la Corte d’Appello di Venezia, con la sentenza non definitiva n. 958 del 29/4/2016, in parziale accoglimento del gravame principale, rigettava le domande di usucapione. Ancora rigettava la domanda di cui all’appello incidentale tardivo quanto alla domanda di rilascio del bene, avanzata da P.G., quale erede della madre, defunta nelle more del giudizio, e rimetteva la causa in istruttoria per lo scioglimento della comunione mobiliare e per la determinazione dell’indennità di occupazione.
In primo luogo, disattendeva la censura dell’appellante principale secondo cui la condanna al pagamento della quota parte dei frutti del bene dalla stessa occupato fosse stata emessa in violazione dell’art. 112 c.p.c., in quanto il Tribunale non aveva fondato la decisione su di un titolo contrattuale, ma aveva inteso assicurare alla convenuta il ristoro per il mancato godimento del bene, per la quota di usufrutto vantata.
Ancorché l’occupazione del bene non possa ritenersi un illecito dell’attrice, ciò non di meno non poteva esser negato il diritto dell’usufruttuaria a ricevere un compenso per il mancato godimento del cespite.
Aggiungeva che la dichiarazione del 2003, nella quale la madre comunicava, a fini fiscali, di avere concesso il bene, per la propria quota di usufrutto, in comodato gratuito a favore della figlia, costituiva un documento tardivamente prodotto, in quanto recante data anteriore alla stessa introduzione del giudizio, palesandosi in ogni caso inconferente, posto che, in assenza della fissazione di un termine di durata per il comodato, il comodante può richiedere la restituzione del bene senza limiti temporali.
Nella specie la comunicazione de qua non individuava alcun termine di durata e quindi la richiesta della convenuta avanzata in via riconvenzionale denotava la chiara volontà di far cessare il comodato, con il diritto quindi alla corresponsione della quota parte di frutti civili.
In merito poi alla decorrenza dei frutti, che il Tribunale aveva individuato nella data del 1/12/2001, allorché la figlia aveva cessato di corrispondere la parte dei canoni di locazione in passato percepiti, la Corte d’Appello rilevava che non poteva addursi a scusante il fatto che il bene fosse stato inizialmente interessato da lavori di ristrutturazione per essere stato poi adibito ad abitazione dell’attrice in un momento successivo, e ciò in quanto i lavori erano stati commissionati dalla stessa appellante, in vista del suo trasferimento nel bene, intento che non poteva privare la madre del diritto a ricevere i frutti dovuti per l’esistenza del diritto di usufrutto.
Erano poi infondate le critiche alla stima compiuta dall’ausiliario di ufficio e fatta propria dal Tribunale, palesandosi invece la necessità di aggiornare la stima sino alla data del decesso della madre, che aveva determinato anche il venir meno dell’usufrutto.
La morte dell’usufruttuaria implicava poi anche il superamento della richiesta di rilascio del bene avanzata da P.G., quale erede della madre.
Era invece meritevole di condivisione il motivo di appello che investiva l’accoglimento delle domande riconvenzionali di usucapione. E’ pur vero che dopo la morte del padre i fucili erano stati intestati al convenuto e che le medaglie e gli altri preziosi erano stati custoditi in una cassetta di sicurezza intestata alla madre ed al figlio, ma tale condotta, pur potenzialmente idonea a concretare un mutamento del possesso, si era accompagnata alla redazione di una scrittura, recante la sottoscrizione di entrambi i convenuti, che nel riconoscere l’appartenenza dei beni all’asse ereditario, valeva come atto interruttivo del termine per usucapire, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1165 e 2944 c.c..
Nella stima dei beni mobili, per i quali occorreva poi procedere alla divisione, andava incluso anche l’orologio, mancando la prova che lo stesso fosse stato effettivamente oggetto di furto, come invece sostenuto dal convenuto.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso P.D. affidato a sette motivi.
P.G. ha resistito con controricorso, proponendo a sua volta ricorso incidentale sulla base di quattro motivi.
P.D. ha resistito con controricorso al ricorso incidentale.
Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.
La Corte d’Appello di Venezia, con sentenza definitiva n. 741 del 4 aprile 2017, ha dichiarato lo scioglimento della comunione sui beni mobili, assegnando gli stessi in proprietà esclusiva a P.G., con obbligo a carico di questi del versamento del conguaglio pari ad Euro 2.165,09 a favore di ognuna delle sorelle P. ed in Euro 3.247,59 in favore degli eredi di R.E.; condannava poi l’attrice al pagamento in favore degli eredi di R.E. della somma di Euro 21.268,71 a titolo di indennità di occupazione.
La Corte d’Appello, dopo aver richiamato il contenuto della scrittura del 31/10/1995, contenente una descrizione dei beni mobili facenti parte dell’asse, riteneva di condividere la stima dell’ausiliario, essendo irrilevante che non fosse stato possibile visionare i gioielli, atteso il mancato rinvenimento della cassetta di sicurezza (essendo altresì irrilevante verificare chi ne avesse ritirato il contenuto, in quanto ove anche fosse stata raggiunta tale prova, non si sarebbe in ogni caso potuto verificare quali beni vi fossero inizialmente custoditi).
Sulla base della stima, e ritenuta la non comoda divisibilità dei beni mobili, ha ritenuto di assegnarli per l’intero a P.G., con obbligo di versare un conguaglio agli altri coeredi.
Quindi ha tenuto conto dell’aggiornamento della stima dell’indennità di occupazione, al netto delle somma già corrisposte dall’attrice.
Avverso la sentenza definitiva ha proposto ricorso per cassazione P.D. sulla base di otto motivi.
Gli intimati non hanno svolto attività difensiva in questa fase. La ricorrente ha depositato memorie in prossimità dell’udienza.
RAGIONI IN DIRITTO DELLA DECISIONE
1. Preliminarmente rileva il Collegio che occorre disporre la riunione dei ricorsi separatamente proposti avverso la sentenza non definitiva, inizialmente, e quella definitiva, successivamente, e ciò in applicazione del principio per cui i ricorsi per cassazione proposti contro sentenze che, integrandosi reciprocamente, definiscono un unico giudizio (come, nella specie, la sentenza non definitiva e quella definitiva) vanno preliminarmente riuniti, trattandosi di un caso assimilabile a quello – previsto dall’art. 335 c.p.c. – della proposizione di più impugnazioni contro una medesima sentenza (Cass. n. 9192/2017).
Sempre in via preliminare deve essere dichiarata l’inammissibilità dei primi sei motivi del ricorso proposto da P.D. avverso la sentenza definitiva, che sono di tenore identico ai primi sei motivi proposti avverso la sentenza non definitiva.
Infatti, essendosi la parte avvalsa della facoltà di ricorso immediato avverso la sentenza non definitiva, ed avendo in quella sede formulato le ragioni di censura avverso la prima sentenza, la reiterazione in sede di ricorso avverso la sola sentenza definitiva di critiche già sviluppate in occasione della proposizione del primo ricorso e non pertinenti rispetto allo specifico contenuto della sentenza successivamente impugnata, rende i motivi de quibus inammissibili per difetto di corrispondenza rispetto al contenuto della pronuncia specificamente gravata.
2. Il primo motivo del ricorso principale avverso la sentenza definitiva denuncia la violazione ed errata applicazione degli artt. 101,112,163 e 164 c.p.c., quanto all’accoglimento della domanda riconvenzionale della convenuta R. di pagamento della quota parte dei frutti non percetti del bene appartenente all’attrice.
Si assume che la domanda proposta trovava fondamento nell’allegazione di una condotta illecita in capo all’attrice, quale configurata dall’occupazione abusiva del bene, mentre la domanda è stata accolta in base ad una diversa qualificazione giuridica della domanda stessa, e cioè sul presupposto che fosse stato violato uno specifico accordo contrattuale in base al quale la figlia si era impegnata a versare alla madre la quota di un terzo del canone di locazione percepito.
Il motivo è infondato.
Va qui ribadito che la rilevazione ed interpretazione del contenuto della domanda è attività riservata al giudice di merito ed è sindacabile: a) ove ridondi in un vizio di nullità processuale, nel qual caso è la difformità dell’attività del giudice dal paradigma della norma processuale violata che deve essere dedotto come vizio di legittimità ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4; b) qualora comporti un vizio del ragionamento logico decisorio, eventualità in cui, se la inesatta rilevazione del contenuto della domanda determina un vizio attinente alla individuazione del “petitum”, potrà aversi una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, che dovrà essere prospettato come vizio di nullità processuale ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4; c) quando si traduca in un errore che coinvolge la “qualificazione giuridica” dei fatti allegati nell’atto introduttivo, ovvero la omessa rilevazione di un “fatto allegato e non contestato da ritenere decisivo”, ipotesi nella quale la censura va proposta, rispettivamente, in relazione al vizio di “error in judicando”, in base all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, o al vizio di “error facti”, nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. n. 11103/2020).
Peraltro, come affermato dalle stesse sezioni Unite (Cass. S.U. n. 3041/2007) l’interpretazione della domanda deve essere diretta a cogliere, al di là delle espressioni letterali utilizzate, il contenuto sostanziale della stessa, desumibile dalla situazione dedotta in giudizio e dallo scopo pratico perseguito dall’istante con il ricorso all’autorità giudiziaria, essendo censurabile in sede di legittimità solo quando ne risulti alterato il senso letterale o il contenuto sostanziale dell’atto, in relazione alle finalità che la parte intende perseguire, e ciò sebbene, nel caso in cui, poi, venga dedotto il vizio di violazione dell’art. 112 c.p.c., e cioè del principio di corrispondenza tra chiesto e il pronunciato, la Corte di cassazione, essendo prospettato un “error in procedendo”, abbia il potere – dovere di procedere all’esame diretto degli atti giudiziari pregressi, onde acquisire gli elementi di giudizio necessari ai fini della pronuncia richiesta (Cass. n. 2148/2004).
La valutazione in merito al contenuto della domanda, non è condizionato dalle espressioni adoperate dalla parte ma deve accertare e valutare il contenuto sostanziale della pretesa, quale desumibile non esclusivamente dal tenore letterale degli atti ma anche dalla natura delle vicende rappresentate dalla medesima parte e dalle precisazioni da essa fornite nel corso del giudizio, nonché dal provvedimento concreto richiesto, con i soli limiti della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e del divieto di sostituire d’ufficio un’azione diversa da quella proposta (Cass. n. 13602/2019; Cass. n. 8225/2004; Cass. n. 7322/2019).
Le censure formulate, alla luce di tali considerazioni, risultano evidentemente prive di fondamento.
Come si ricava dalla lettura degli scritti difensivi di entrambe le parti, nei quali sono riportate anche le conclusioni formulate in sede di domanda riconvenzionale dalla madre, quest’ultima ebbe ad evidenziare l’esistenza del proprio diritto di usufrutto pro quota sull’immobile oggi di proprietà della ricorrente principale, avanzando, oltre alla domanda di rilascio del bene, anche quella di pagamento di un’indennità per l’occupazione abusiva del bene da parte dell’attrice e/o a titolo di risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., a partire dal mese di ***** o in subordine dal *****.
L’utilizzo in sede di conclusioni della congiunzione disgiuntiva “o” denota con evidenza come in realtà la domanda non si fondasse esclusivamente su di una pretesa responsabilità aquiliana della attrice, ma che, ferma restando la circostanza dedotta dell’occupazione esclusiva del bene e del mancato versamento, come in passato avvenuto, della quota parte dei frutti prodotti dal bene, la richiesta mirasse a conseguire tale corrispettivo a titolo di indennità o in alternativa a titolo risarcitorio.
Il passaggio della sentenza di primo grado, come riportato nello stesso ricorso principale, riferito ad un accordo tra madre e figlia per il pagamento della quota dei canoni di locazione, lungi dal denotare un’adesione alla tesi secondo cui la pretesa avesse carattere esclusivamente contrattuale, mira invece a fornire la ricostruzione dei pregressi rapporti intercorsi le parti ed a chiarire che l’accordo di cui riferiscono i testi era cronologicamente correlato al periodo in cui il bene era locato a terzi. L’interesse così manifestato della convenuta a godere di una parte dei canoni percetti confortava quindi la conclusione che, anche una volta cessata la locazione ed iniziata l’occupazione del bene da parte dell’attrice, non potesse ritenersi che lo stesso interesse fosse venuto meno e che quindi fosse legittima la pretesa indennitaria della convenuta, ancorché la condotta della figlia non potesse essere qualificata in termini di illiceità.
3. Il secondo motivo del ricorso principale contro la sentenza non definitiva lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1102 c.c., in quanto la Corte d’Appello ha affermato l’esistenza di un obbligo ex lege in capo al comproprietario che utilizzi il bene comune di corrispondere un’indennità all’altro comproprietario non utilizzatore.
Si adduce che in realtà tale obbligo va negato allorché un comunista si serva del bene comune e che manca una norma che per tale ipotesi imponga all’utilizzatore di dover compensare gli altri comproprietari.
L’attrice non ha mai impedito l’uso del bene anche alla madre, che non ha mai avanzato una richiesta di uso turnario.
Il terzo motivo del medesimo ricorso principale denuncia la violazione ed errata applicazione dell’art. 820 c.c., avendo la sentenza giustificato l’accoglimento della domanda sulla base dell’art. 820 c.c..
I rapporti tra comunisti invece sono regolati dall’art. 1102 c.c., sicché non è applicabile la previsione di cui all’art. 820 c.c., che al comma 3, esplicita come i frutti siano dovuti in caso di godimento altrui, espressione che sottende l’utilizzo da parte di soggetto diverso dal comproprietario.
I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono fondati nei termini di cui in motivazione.
In primo luogo, ed anche in risposta alle deduzioni formulate in controricorso, secondo cui nella fattispecie sarebbe inappropriato il richiamo alle regole dettate per la comunione, occorre ricordare che, a seguito degli accordi intervenuti in sede divisionale quanto al patrimonio immobiliare, R.E. aveva conservato su di un bene, per il resto attribuito alla figlia D., la sola quota di usufrutto pari ad un terzo, con la conseguenza che le facoltà di godimento del bene competevano ad entrambe, e precisamente per la quota di due terzi, in capo alla figlia, a titolo di piena proprietaria, e per la residua quota a favore della R., in quanto usufruttuaria. Al fine di ricondurre anche tale fattispecie alla disciplina della comunione appare pertinente il richiamo alla giurisprudenza di questa Corte che, in relazione alla normativa vigente anteriormente all’entrata in vigore della riforma del diritto di famiglia di cui alla L. n. 151 del 1975, in base alla quale il coniuge superstite, nella sua qualità di legatario “ex lege”, era investito, sin dal momento dell’apertura della successione del coniuge, di un diritto reale che gli consentiva di partecipare a pieno titolo alla comunione ereditaria, ha affermato che in tal modo viene a determinarsi una comunione incidentale di godimento tra gli eredi ed il predetto coniuge, usufruttuario pro-quota di tutti i beni indivisi facenti parte del compendio ereditario (così Cass. n. 1085/1995).
Cass. n. 355/2011 ha altresì chiarito che tale comunione incidentale di godimento tra diritti qualitativamente eterogenei comporta che la cosa è goduta per una quota dagli eredi a titolo di proprietà e per l’altra dal legatario a titolo di usufrutto (in termini analoghi Cass. n. 3097/1974; Cass. n. 3294/1968; Cass. n. 3313/1984).
Sebbene nel caso di specie il concorso dei due diritti eterogenei non derivi dalle vicende successorie di cui alla normativa previgente, ma da un accordo intervenuto tra le parti, deve del pari ritenersi insorta una comunione impropria di godimento, per la quale, quanto alle modalità di uso appaiono correttamente invocabili anche le disposizioni espressamente dettate in tema di comunione, tra cui quella di cui all’art. 1102 c.c..
Ma l’applicazione di tale disciplina non preclude il diritto del comunista che non abbia fatto uso del bene a conseguire un indennizzo per effetto del godimento esclusivo dell’altro contitolare.
E’ affermazione ricorrente nella giurisprudenza di questa Corte quella secondo cui (cfr. Cass. n. 7881/2011) il condividente di un immobile, che durante il periodo di comunione abbia goduto del bene in via esclusiva senza un titolo giustificativo, deve corrispondere agli altri i frutti civili, quale ristoro della privazione della utilizzazione “pro quota” del bene comune e dei relativi profitti, con riferimento ai prezzi di mercato correnti dal tempo della stima per la divisione a quello della pronuncia (conf. Cass. n. 7716/1990; Cass. n. 20394/2013; Cass. n. 17876/2019), aggiungendosi che siffatto diritto, corrispondente al corrispettivo “pro quota” del godimento esclusivo, prescinde da comportamenti leciti o illeciti altrui (Cass. n. 10896/2005). E’ stato altresì chiarito, e ciò in risposta alla deduzione circa la violazione della previsione di cui all’art. 820 c.c., che i frutti civili, dovuti dal comproprietario che abbia utilizzato, in via esclusiva, un bene rientrante nella comunione, hanno, ai sensi dell’art. 820 c.c., comma 3, la funzione di corrispettivo del godimento della cosa e possono essere liquidati con riferimento al valore figurativo del canone locativo di mercato (Cass. n. 5504/2012), sicché non può trovare fondamento la pretesa di limitare la previsione de qua al solo godimento che intervenga da parte di soggetti diversi da quelli che già vantino diritti pro-indiviso sul bene fruttifero.
E’ pur vero che la sottrazione del godimento potrebbe avvenire con modalità tali, come ad esempio mediante l’esercizio di una condotta violenta, tale da concretare altresì la commissione di un fatto illecito (cfr. sul punto Cass. n. 14213/2012, secondo cui in tal caso la sottrazione delle facoltà dominicali di godimento e disposizione del bene, è risarcibile, sotto l’aspetto del lucro cessante, non solo con il lucro interrotto, ma anche con quello impedito nel suo potenziale esplicarsi, ancorché derivabile da un uso della cosa diverso da quello tipico, aggiungendo che tale danno è da ritenersi “in re ipsa”, potendo essere comunque quantificato in base ai frutti civili che l’autore della violazione abbia tratto dall’uso esclusivo del bene, imprimendo ad esso una destinazione diversa da quella precedente), ma è innegabile che l’uso esclusivo dell’immobile, ove le caratteristiche dello stesso non ne consentano una fruizione congiunta anche da parte dell’altro comunista, eccede sicuramente dalle modalità di uso di cui all’art. 1102 c.c., e legittima la richiesta, quanto meno a titolo indennitario, di ristoro del mancato godimento, e ciò sia quando il bene si presenti fruttifero tramite la concessione in godimento a titolo oneroso a terzi, sia allorché la fruizione avvenga, ed in maniera esclusiva, da parte di uno solo o alcuni dei comunisti (conf. Cass. n. 19215/2016).
In tal senso è stato affermato che (Cass. n. 5156/2012) sussiste la violazione dei criteri stabiliti dall’art. 1102 c.c., in ipotesi di occupazione dell’intero immobile ad opera del comproprietario e la sua destinazione ad utilizzazione personale esclusiva, tale da impedire all’altro comproprietario il godimento dei frutti civili ritraibili dal bene, con conseguente diritto ad una corrispondente indennità.
Tuttavia ritiene il Collegio che debba darsi continuità al principio per il quale, se la natura di un bene immobile oggetto di comunione non ne permette un simultaneo godimento da parte di tutti i comproprietari, l’uso comune può realizzarsi o in maniera indiretta oppure mediante avvicendamento, ma che fino a quando non vi sia richiesta di un uso turnario da parte degli altri comproprietari, il semplice godimento esclusivo ad opera di taluni non può assumere la idoneità a produrre un qualche pregiudizio in danno di coloro che abbiano mostrato acquiescenza all’altrui uso esclusivo, salvo che non risulti provato che i comproprietari che hanno avuto l’uso esclusivo del bene ne abbiano tratto anche un vantaggio patrimoniale (Cass. n. 24647/2010; Cass. n. 2423/2015).
La Corte d’Appello, riprendendo le considerazioni già spese dal Tribunale, ha ricordato che ancor prima che la figlia iniziasse a godere personalmente del bene, la madre aveva conseguito la propria quota parte dei canoni di locazione, ma non può trarsi da tale circostanza, che si correla alla regola per la quale il comunista che gestisce la locazione del bene comune agisce come utile gestore degli altri comunisti, anche una conclusione circa la opposizione della usufruttuaria pro quota al godimento esclusivo del bene in proprio da parte della figlia, essendo invece necessario correlare l’insorgenza del diritto a ricevere una quota parte dei frutti alla esternata opposizione alla condotta posta in essere dall’odierna ricorrente, che viene individuato nelle conclusioni della comparsa di risposta in primo grado, e ribadito in controricorso, nella missiva del 17 giugno 2003, con la quale la defunta R. aveva sollecitato in via stragiudiziale la figlia a corrisponderle la somma dovuta quale corrispettivo per la mancata fruizione della propria quota di usufrutto, denotando a tal fine un’evidente avversione all’uso esclusivo da parte della figlia, ritenuto come tale in contrasto con la previsione di cui all’art. 1102 c.c..
Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere cassata quanto all’individuazione della data di decorrenza dell’obbligo dell’attrice di corrispondere una quota parte dei frutti civili del bene, in corrispondenza dell’uso esclusivo fattone, per l’epoca anteriore alla detta missiva, dovendo il giudice di rinvio quindi rideterminare le somme dovute a tale titolo dalla ricorrente 4. Il quarto motivo del ricorso principale avverso la sentenza non definitiva denuncia la violazione ed errata applicazione dell’art. 345 c.p.c., nonché degli art. 1803 e 1810 c.c..
Si lamenta che la Corte distrettuale abbia ritenuto tardiva la produzione documentale della comunicazione datata 2003, con la quale la madre dichiarava di avere concesso l’usufrutto in comodato gratuito alla ricorrente.
I giudici di appello hanno ritenuto che tale produzione fosse tardiva, avendo ad oggetto un documento di data anteriore alla stessa introduzione del giudizio, ma si evidenzia che l’effettiva conoscenza di tale documento era avvenuta solo alla fine del 2009, a seguito di apposita istanza avanzata al Comune, originario destinatario della comunicazione.
Inoltre, si aggiunge che la documentazione sarebbe stata comunque utilizzabile ai fini della decisione, in quanto ritenuta prova indispensabile, in base alla formulazione dell’art. 345 c.p.c., applicabile ratione temporis.
La disamina di tale documento, unitamente alle dichiarazioni di analogo tenore rese dalla convenuta anche nel 2011 e nel 2016 avrebbero quindi dovuto indurre a ravvisare l’esistenza di un comodato, senza che però fosse intervenuta alcuna richiesta di restituzione del bene, con l’impossibilità di poter, quindi, richiedere il versamento di un’indennità.
Il motivo è in parte assorbito per effetto dell’accoglimento dei primi due motivi, in relazione al periodo che precede la detta richiesta del 17 giugno 2003, mentre è infondato per il periodo successivo.
Rileva la Corte che alla fattispecie risulta effettivamente applicabile la previsione di cui all’art. 345 c.p.c., nella versione anteriore alle modifiche apportate dal legislatore nel 2012, con l’effetto che in appello erano ammesse nuove prove, anche di carattere documentale, ove ritenute indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero ove la parte avesse dimostrato di non aver potuto proporle o produrle prima.
La motivazione dei giudici di appello con il riferimento alla sola formazione della comunicazione de qua in epoca anteriore all’introduzione del giudizio appare idonea ad escludere solo una delle due eccezioni all’ingresso di nuove prove in appello, contenendo un’implicita valutazione di negligenza della parte quanto al rinvenimento della stessa solo nel corso del giudizio, allorché erano già maturate le preclusioni istruttorie, ma manca una specifica motivazione quanto alla valutazione di indispensabilità, avendo però la Corte preferito direttamente valutare la non indispensabilità della prova ai fini della decisione della controversia.
Non ignora il Collegio come le Sezioni Unite di questa Corte abbiano chiarito che nel giudizio di appello, costituisce prova nuova indispensabile, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., comma 3, nel testo previgente rispetto alla novella di cui al D.L. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, quella di per sé idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio oppure provando quel che era rimasto indimostrato o non sufficientemente provato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado (Sez. U., Sentenza n. 10790 del 04/05/2017).
Tuttavia, la sentenza ha motivato rilevando che, ove anche si fosse attribuita rilevanza a tale comunicazione, il comodato dallo stesso comprovato sarebbe stato oggetto di risoluzione per effetto dell’espressa richiesta di rilascio formulata dall’usufruttuaria in via riconvenzionale, attesa la mancanza di una indicazione circa la durata del contratto di comodato.
Trattasi di motivazione che nella sostanza mira a rendere anche contezza delle ragioni, fondate sulle ulteriori emergenze probatorie in atti, per le quali la prova così offerta non appariva comunque idonea a sovvertire l’esito della domanda riconvenzionale.
Inoltre non deve trascurarsi la circostanza che la sentenza d’appello abbia ritenuto che la dichiarazione della R. era stata resa a soli fini fiscali (e ciò ragionevolmente al fine dell’esonero del pagamento delle tasse) e che tale inerenza del documento ad esigenze di natura solo fiscale non è adeguatamente contrastata nel motivo, escludendo quindi che il documento possa valere anche nei rapporti civilistici tra madre e figlia, soprattutto alla luce del contenzioso in atto, che porterebbe a privare di rilevo le dichiarazioni asseritamente rese nel 2011 e nel 2016).
Trattasi peraltro di argomentazione che non risulta specificamente oggetto di censura da parte della ricorrente.
5. Il quinto motivo del ricorso principale avverso la sentenza non definitiva denuncia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa disamina di plurimi fatti decisivi, in quanto la Corte d’Appello non avrebbe tenuto conto che la R. non aveva mai chiesto un uso turnario del bene, che la ricorrente non aveva tratto alcun vantaggio dall’uso esclusivo, che l’intesa con la madre prevedeva la corresponsione solo della quota di canoni in caso di locazione a terzi e che una volta cessata la locazione l’immobile era stato concesso in comodato gratuito.
Il motivo è assorbito per effetto dell’accoglimento del secondo e del terzo motivo di ricorso.
6. Il sesto motivo del ricorso principale avverso la sentenza non definitiva lamenta la violazione degli artt. 1120,820 e 1004 c.c., nella parte in cui sono stati riconosciuti i frutti alla madre anche per il periodo tra il mese di marzo del 2002 e quello di aprile del 2003, senza considerare che durante tale periodo l’immobile non era stato occupato dall’attrice, essendo in corso radicali interventi di manutenzione, lavori che dovevano presumersi effettuati anche nell’interesse dell’usufruttuaria.
Anche tale motivo è assorbito per effetto dell’accoglimento del secondo e del terzo motivo di ricorso.
7. Il settimo motivo del ricorso principale avverso la sentenza non definitiva denuncia la nullità della sentenza per la violazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 244 c.p.c., stante l’inammissibilità delle prove testimoniali assunte nel giudizio di primo grado.
Si deduce che la Corte d’Appello ha omesso di pronunciarsi sul motivo di appello che concerneva l’inammissibilità delle prove testimoniali assunte in primo grado, in quanto dirette a dimostrare l’esistenza di un accordo tra le parti per il pagamento delle rendite, in contrasto con il tenore della domanda che invece era correlata ad un’occupazione abusiva.
Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.
E’ inammissibile nella parte in cui denuncia l’erroneità dell’ammissione di prove testimoniali senza però indicare con adeguata specificità a quali prove si faccia riferimento ed in particolare quali circostanze sarebbero state riferite dai testi.
E’ infondato in quanto, avendo correttamente la sentenza impugnata, alla luce di quanto esposto in occasione della disamina dei primi due motivi del ricorso principale, inquadrato la domanda indennitaria, non potendosi di converso ritenere che fosse stata accolta una domanda avente ad oggetto un diritto di fonte contrattuale, la motivazione resa sul punto quanto alla corretta qualificazione della domanda contiene un implicito rigetto anche del motivo di appello che contestava l’ammissibilità e la rilevanza della prova testimoniale ammessa.
8. Il primo motivo del ricorso incidentale denuncia la nullità della sentenza per la violazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in quanto la Corte d’Appello non avrebbe integralmente trascritto le conclusioni rese dal difensore di P.G. dalle quali emergeva anche l’eccezione di inammissibilità della domanda di divisione e dell’eccezione di controparte di interruzione del tempo utile ad usucapire.
Da tale omissione è derivata anche l’assenza di motivazione su tali eccezioni con la conseguente nullità della sentenza.
In particolare, quanto alla domanda di divisione si evidenzia che la stessa è stata tardivamente proposta nel corso del giudizio di primo grado ed è stata estesa anche a beni diversi da quelli riportati nelle conclusioni della parte, essendosi inclusi tutti i beni mobili di cui alla scrittura del 31/10/1995.
Il terzo motivo del ricorso incidentale denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., per avere omesso la sentenza di pronunciarsi sulle eccezioni di tardività della domanda di divisione e dell’eccezione di interruzione del tempo utile ad usucapire.
I motivi, che per la loro connessione possono essere congiuntamente esaminati, sono in parte inammissibili ed in parte infondati.
Sono inammissibili nella parte in cui denunciano la violazione dell’art. 112 c.p.c., quanto all’omessa pronuncia su eccezioni di carattere processuale.
Infatti, in disparte il rilievo per cui la stessa decisione sulla domanda ed eccezione di cui si contesta la tardività equivale ad un implicito rigetto dell’eccezione di inammissibilità, occorre richiamare il costante orientamento di questa Corte secondo cui non è denunziabile ex art. 112 c.p.c., la pretesa omessa disamina di un’eccezione di carattere processuale (cfr. da ultimo Cass. n. 321/2016) a mente del quale il mancato esame da parte del giudice di una questione puramente processuale non è suscettibile di dar luogo al vizio di omissione di pronuncia, il quale si configura esclusivamente nel caso di mancato esame di domande od eccezioni di merito, ma può configurare un vizio della decisione per violazione di norme diverse dall’art. 112 c.p.c., se, ed in quanto, si riveli erronea e censurabile, oltre che utilmente censurata, la soluzione implicitamente data dal giudice alla problematica prospettata dalla parte (conf. Cass. n. 22860/2004).
Sono altresì infondati, in quanto, nel far richiamo alle considerazioni svolte in occasione della disamina del primo motivo del ricorso principale di P.D., deve ritenersi incensurabile la valutazione compiuta dal giudice di appello circa la corretta identificazione della domanda proposta dall’attrice, nel senso che la stessa fosse una domanda di divisione e che comprendesse tutti i beni mobili di cui alla scrittura del 31/10/1995.
Depongono in tal senso le conclusioni di cui all’atto introduttivo del giudizio, quali enucleate sia nel ricorso che nel controricorso, dalle quali si ricava in maniera univoca come l’attrice, nel dolersi dell’omessa considerazione dei beni mobili caduti in successione negli accordi divisionali già conclusi, intendesse procedere ad una riassegnazione dei beni stessi (cfr. punto 2 delle conclusioni), con l’attribuzione della quota in precedenza non assegnata, stante il riferimento a sopravvenienze di “liquidi e mobili” (cfr. punto 5 delle conclusioni), e con la condanna dei convenuti a restituire all’attrice la quota parte dei beni stessi.
Non appare obiettivamente contestabile che la domanda proposta avesse il chiaro intento di conseguire la divisione anche dei beni mobili non ricompresi nella divisione già avvenuta, palesandosi in tal modo evidentemente destituita di fondamento l’eccezione di tardività della sua proposizione.
Analogamente, quanto all’oggetto della divisione, è chiara la volontà della parte di includere nella stessa tutti i beni che non erano stati già in precedenza oggetto di divisione, dovendosi attribuire all’elencazione contenuta in sede di conclusioni un carattere di mera esemplificazione dei beni da prendere in esame, non potendosi anche ricavare una volontà di rinunciare alla divisione dei beni mobili invece non espressamente menzionati.
Quanto, invece, all’eccezione di interruzione del tempo utile ad usucapire, rileva il Collegio che trattasi di eccezione in senso lato, come si ricava da Cass. Sez. U., n. 15661/2005, a mente della quale, poiché nel nostro ordinamento le eccezioni in senso stretto, cioè quelle rilevabili soltanto ad istanza di parte, si identificano o in quelle per le quali la legge espressamente riservi il potere di rilevazione alla parte o in quelle in cui il fatto integratore dell’eccezione corrisponde all’esercizio di un diritto potestativo azionabile in giudizio da parte del titolare e che, quindi, per svolgere l’efficacia modificativa, impeditiva od estintiva di un rapporto giuridico suppone il tramite di una manifestazione di volontà della parte (da sola o realizzabile attraverso un accertamento giudiziale), l’eccezione di interruzione della prescrizione integra un’eccezione in senso lato e non in senso stretto e, pertanto, può essere rilevata d’ufficio dal giudice sulla base di elementi probatori ritualmente acquisiti agli atti, dovendosi escludere, altresì, che la rilevabilità ad istanza di parte possa giustificarsi in ragione della (normale) rilevabilità soltanto ad istanza di parte dell’eccezione di prescrizione, giacché non ha fondamento di diritto positivo assimilare al regime di rilevazione di una eccezione in senso stretto quello di una controeccezione, qual è l’interruzione della prescrizione.
Ne consegue che, stante il rinvio alle norme in tema di prescrizione che la disciplina dell’usucapione compie ai sensi dell’art. 1165 c.c., deve reputarsi che anche l’eccezione di interruzione del termine utile ad usucapire (nella specie per effetto del riconoscimento dell’altrui diritto da parte del preteso usucapiente), sia rilevabile dal giudice anche d’ufficio, ove emerga dagli elementi di prova a sua disposizione, e ciò senza che esistano preclusioni per la pendenza del giudizio in appello, posto che l’art. 345 c.p.c., pone il divieto di eccezioni nuove solo per quelle in senso stretto (cfr. Cass. S.U. n. 10531/2013), e che ciò renda quindi in ogni caso infondata l’eccezione di tardività della relativa eccezione.
9. Il secondo motivo del ricorso incidentale denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2702 c.c., con contraddittorietà della motivazione ed omesso esame di un documento decisivo per la controversia.
Assume parte ricorrente incidentale che la Corte d’Appello ha disatteso la domanda riconvenzionale di usucapione, attribuendo rilevanza alla scrittura data 31/10/1995, alla quale ha assegnato efficacia interruttiva del termine utile ad usucapire, assumendo lapidariamente che fosse stata sottoscritta sia da P.G. che da R.E..
In realtà il documento si compone di due dichiarazioni, di cui una riferibile al solo P.G., e da questi sottoscritta, concernente l’individuazione dei beni mobili per i quali è stata avanzata domanda di usucapione, e l’altra comune anche alla madre, relativa però ai titoli asseritamente facenti parte dell’asse ereditario.
La sottoscrizione materna è da intendersi riferita solo a questa seconda dichiarazione e non investe anche la prima, con la conseguenza che non poteva ritenersi che vi fosse stato un riconoscimento anche da parte della madre circa l’appartenenza all’asse dei beni mobili di cui era chiesta in via riconvenzionale l’usucapione.
L’affermazione della Corte d’Appello, secondo cui la dichiarazione sarebbe stata sottoscritta da entrambi i convenuti è quindi erronea in quanto palesemente contrastante con il tenore del documento.
Il motivo è fondato.
Effettivamente la scrittura oggetto della censura si compone di due autonome parti, di cui una riferibile unicamente al ricorrente incidentale in proprio, e cioè per la parte strettamente attinente al riconoscimento dell’appartenenza all’asse ereditario paterno dei beni mobili di cui era stata richiesta l’usucapione, ed un’altra invece riferibile ad entrambi i sottoscrittori dell’atto, e cioè anche ala madre, concernente invece il diverso riconoscimento dell’appartenenza all’asse ereditario di titoli.
Nonostante la diversa paternità delle due dichiarazioni, sia pure contenute dal punto di vista formale in un unico documento, la sentenza gravata ha attribuito il riconoscimento della natura comune dei beni mobili anche alla madre, in contrasto però con il tenore letterale dell’atto, ponendo tale affermazione a supporto decisivo del rigetto della domanda di usucapione che era stata avanzata oltre che da P.G. anche dalla genitrice.
E’ stata quindi erroneamente assegnata efficacia interruttiva a detto atto anche per la pretesa avanzata in via riconvenzionale dalla madre, né potrebbe sostenersi che il tenore del documento in realtà avalli la conclusione secondo cui il possesso dei beni mobili ivi elencati sarebbe attribuibile al solo P.G., ancorché la custodia fosse avvenuta materialmente in una cassetta di sicurezza cointestata ai due convenuti, in quanto tale argomento contrasta con la ulteriore affermazione contenuta in sentenza circa l’interversione ed il mutamento del titolo del godimento dei beni avvenuto ad opera di entrambi i convenuti.
Il motivo deve quindi essere accolto, e la sentenza va cassata in relazione allo stesso, dovendo il giudice di rinvio rivalutare la domanda di usucapione avanzata dalla madre, alla luce della non riferibilità del detto riconoscimento anche alla R..
10. Il quarto motivo del ricorso incidentale denuncia la violazione degli artt. 165 e 2944 c.c., quanto al rigetto della domanda di usucapione decennale o ventennale.
Si assume che erroneamente la Corte d’Appello ha attribuito efficacia interruttiva alla dichiarazione del 31/10/1995, in quanto, in disparte il profilo relativo alla sottoscrizione di cui al secondo motivo di ricorso incidentale, la mera affermazione che i beni facessero parte dell’asse ereditario non impedisce che possano poi essere usucapiti.
Il motivo è destituito di fondamento (essendo in parte assorbito per effetto dell’accoglimento del secondo motivo, limitatamente alla posizione della R.), in quanto mira a contestare l’accertamento in fatto operato dalla Corte d’Appello circa la portata effettuale della dichiarazione de qua, che riferendo di un’attuale appartenenza dei beni menzionati all’asse ereditario di P.T. rende non implausibile la soluzione ermeneutica alla quale è approdato il giudice di merito secondo cui, sebbene il possesso fosse stato esercitato esclusivamente dai convenuti, lo stesso non era supportato anche da una volontà di escludere il compossesso degli altri coeredi, stante il riconoscimento della perdurante appartenenza dei beni all’asse relitto.
11. Il settimo motivo del ricorso principale proposto avverso la sentenza definitiva denuncia la violazione dell’art. 194 c.p.c. e la violazione del contraddittorio ex art. 101 c.p.c., quanto allo svolgimento della CTU estimativa, con la nullità della sentenza per omessa pronuncia.
Assume la ricorrente che la Corte d’Appello nel prosieguo del giudizio, dopo la pronuncia della sentenza non definitiva, aveva disposto una CTU per la stima dei beni mobili ancora comuni e che il CTU aveva verificato che i beni da stimare erano presso l’abitazione del convenuto che però in occasione dell’accesso fissato si rifiutava di fare entrare in casa l’attrice.
Nonostante la mancata partecipazione della ricorrente, il CTU procedeva comunque alle operazioni di stima.
Depositata la bozza della perizia, l’attrice eccepiva l’illegittimità della propria esclusione dalle operazioni peritali, lamentando altresì che non erano state esaminate tutte le medaglie facenti parte dell’asse.
Aggiunge, altresì, che, ancorché dal verbale delle operazioni peritali emerga che le medaglie siano state prese temporaneamente in carico dall’ausiliario, e portate presso il suo ufficio, l’attrice non è stata invitata a prenderne visione.
Il motivo è fondato.
In tema di consulenza tecnica d’ufficio, ai sensi dell’art. 194 c.p.c., comma 2 e art. 90 disp. att. c.p.c., comma 1, l’espletamento di tutte le attività dell’ausiliario senza alcun coinvolgimento delle parti, alle quali sia mancata qualunque comunicazione sia del giorno, ora e luogo di inizio delle operazioni del consulente, sia di quelli della relativa prosecuzione, implica una lesione autoevidente delle potenzialità di difesa, valutata “ex ante” ed in via preventiva dal legislatore, dalla quale consegue la nullità della consulenza, che, se tempestivamente eccepita, non è sanata dalla mera possibilità di riscontro o verifica “a posteriori” dell’elaborato del consulente (nella specie, questa Corte – rilevando che tutte le operazioni erano state espletate dal consulente tecnico d’ufficio in assoluta solitudine, senza che alle parti fosse stata data la possibilità di presenziare neppure all’attività di presa d’atto e di studio preliminare della documentazione e di impostazione delle ulteriori attività – ha cassato la decisione di merito che, in ragione della possibilità di un controllo successivo sull’elaborato peritale, aveva respinto l’eccezione di nullità reiterata con l’appello; Cass. n. 26304/2020).
La mancata partecipazione della ricorrente alle operazioni peritali, nonostante la sua richiesta e la conduzione delle stesse senza contraddittorio comportano la nullità della CTU, con la cassazione della sentenza definitiva in parte qua.
12. L’ottavo motivo del ricorso principale avverso la sentenza definitiva denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, con la nullità della sentenza per omessa pronuncia.
Si deduce che il CTU non aveva potuto visionare i preziosi contenuti nella cassetta n. ***** della filiale dell’ex Banco Ambrosiano di Casale sul Sile, in quanto la banca aveva comunicato che la cassetta non era più esistente.
A fronte della richiesta della ricorrente di ordinare alla banca di esibire la richiesta di chiusura della cassetta, onde risalire al soggetto che aveva provveduto a tale operazione, la sentenza ha risposto che la richiesta era superflua in quanto, anche in caso di risposta della banca, non sarebbe stato possibile risalire al contenuto della cassetta.
Tuttavia, a pag. 10 della seconda comparsa conclusionale, il convenuto ha riferito che la cassetta n. ***** era stata spostata dalla filiale di ***** a quella di *****.
Tale circostanza che avrebbe permesso di appurare il contenuto della cassetta, necessario in vista della stima, non è stata presa in esame dalla Corte d’Appello, malgrado la richiesta di procedere alla verifica presso la nuova collocazione fosse stata proposta nella memoria di replica della ricorrente.
Il motivo, atteso l’accoglimento del motivo che precede, è assorbito, in quanto la questione potrà essere riproposta in sede di rinnovazione della CTU.
13. In conclusione vanno accolti il secondo ed il terzo motivo del ricorso principale avverso la sentenza non definitiva, essendo parzialmente assorbito il quarto motivo, assorbiti il quinto ed il sesto motivo e rigettati gli altri motivi; va poi accolto il secondo motivo del ricorso incidentale avverso la sentenza non definitiva, dovendosi cassare la sentenza non definitiva in relazione ai motivi accolti. Quanto al ricorso invece proposto avverso la sentenza definitiva, va accolto il settimo motivo, con assorbimento dell’attavo, risultando inammissibili gli altri motivi, il che comporta la cassazione anche della sentenza definitiva, quanto al motivo accolto.
Il giudice di rinvio, che si designa nella Corte d’Appello di Venezia in diversa composizione, provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
PQM
La Corte accoglie, nei limiti di cui in motivazione, il secondo ed il terzo motivo del ricorso principale ed il secondo motivo del ricorso incidentale avverso la sentenza non definitiva nei limiti di cui in motivazione, ed assorbiti il quarto, in parte, il quinto ed il sesto motivo del ricorso principale, e rigettati gli altri motivi del ricorso principale ed incidentale, cassa la sentenza non definitiva in relazione ai motivi accolti;
accoglie nei limiti di cui in motivazione il settimo motivo del ricorso proposto avverso la sentenza definitiva, ed assorbito l’ottavo e dichiarati inammissibili gli altri motivi, cassa la sentenza definitiva in relazione al motivo accolto;
rinvia per nuovo esame alla Corte d’Appello di Venezia in diversa composizione anche per le spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 10 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 20 gennaio 2022
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