LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –
Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –
Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 25006/2017 proposto da:
Lure Ltd, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Tacito n. 10, presso lo studio dell’avvocato Santucci Roberto, rappresentata e difesa dall’avvocato Azzarita Mario, giusta procura speciale per Notaio F.T.C. di Hong Kong (Cina), munita di apostille del 17.10.2017;
– ricorrente –
contro
ITC S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Viale Cortina d’Ampezzo n. 190, presso lo studio dell’avvocato Codini Francesco, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati Barletta Antonino, Strano Giuseppe, giusta procura in calce la controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3719/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 23/08/2017;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 01/12/2021 dal Cons. Dott. NAZZICONE LOREDANA.
FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello di Milano con sentenza del 23 agosto 2017 ha respinto l’impugnazione avverso la decisione del Tribunale della stessa città, che aveva rigettato le domande proposte da Lure Ltd., società con sede legale nelle *****, contro la ITC s.r.l., volte al risarcimento del danno per l’inadempimento al contratto di licenza concluso il 4 agosto 2010 tra la dante causa di quest’ultima e la G.F. s.p.a. in amministrazione straordinaria.
Avverso questa sentenza propone ricorso la Lure Ltd., affidato a sette motivi ed illustrato da memoria.
Si difende con controricorso la ITC s.r.l., con deposito anche della memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – I motivi del ricorso vanno così riassunti:
1) violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 270 del 1999, artt. 62 e 63, in relazione all’art. 12 preleggi, in quanto la sentenza impugnata ha ritenuto il mancato subentro della cessionaria dell’azienda anche nel contratto di licenza per cui è causa, mentre tali articoli non sono volti a limitare l’oggetto della cessione del ramo d’azienda delle grandi imprese, in deroga all’art. 2558 c.c., ma solo a fissare regole di tipo procedimentale;
2) violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., in quanto la sentenza ha motivato riferendosi alle condizioni previste nel disciplinare autorizzato dal Ministero dello sviluppo economico, documento tuttavia dal giudice non conosciuto, in quanto non depositato in atti;
3) violazione e falsa applicazione degli artt. 1326 e 1372 c.c., perché il contratto si forma con l’incontro dei consensi e ha forza di legge tra le parti, mentre la corte d’appello ha ritenuto formatasi la volontà delle stesse secondo quanto individuato nella procedura pubblicistica che aveva preceduto la conclusione del contratto, e nell’accordo, sottoscritto il giorno 11 marzo 2011 fra le parti, il contratto di licenza di Lure Ltd. era stato espressamente menzionato;
4) violazione e falsa applicazione dell’art. 2558 c.c., il quale prevede, come effetto naturale, il subentro in tutti i contratti aziendali, senza che, nella specie, sussista nessuna clausola di esclusione della licenza de qua, al contrario espressamente menzionata in allegato;
5) violazione e falsa applicazione dell’art. 1 preleggi, in quanto in tal modo la corte d’appello ha violato la regola in tema di gerarchia delle fonti, attribuendo al D.M. 26 aprile 2010, di approvazione del disciplinare, il potere di derogare all’art. 2558 c.c.;
6) violazione e falsa applicazione degli artt. 1362,1363 e 1367 c.c., in quanto in tal modo la corte del merito ha omesso di valorizzare la lettera degli accordi, la portata complessiva delle clausole ed il principio di conservazione degli effetti dell’atto;
7) omesso esame di fatto decisivo, consistente nel contenuto del regolamento di accesso al data room del complesso aziendale F., nel quale si afferma che le informazioni ivi contenute erano fornite al solo scopo di consentire la valutazione circa la formulazione di una proposta di acquisto del complesso aziendale e per condurre le trattative, nonché che alcune informazioni avrebbero potute essere aggiunte o rimosse dal sito: quindi, si trattava di accesso al sito protetto, istituito presso il Ministero, con finalità meramente informative per il potenziale acquirente, senza che la corte territoriale abbia esaminato tale fatto decisivo.
2. – La corte territoriale ha ritenuto che, sulla base degli atti prodromici, di natura pubblicistica – il programma di cessione predisposto dai commissari straordinari, l’autorizzazione del Ministero dello sviluppo economico, il c.d. disciplinare della procedura di cessione di cui al D.M. 26 aprile 2010, l’offerta vincolante presentata per l’acquisto, il parere del comitato di sorveglianza e la autorizzazione finale del Ministero, secondo i termini e le condizioni indicate – che precedettero il contratto di cessione di azienda, stipulato in data 11 marzo 2011, così come previsto dal D.Lgs. n. 270 del 1999, artt. 62 e segg., si debba individuare l’oggetto del contratto di cessione di azienda, intercorso tra le parti, come “rappresentato dal “complesso aziendale F.”, nei termini e alle condizioni previste dal “disciplinare” autorizzato dal ministero”, e che solo in relazione ad esso vi fu l’offerta vincolante e la manifestazione della volontà delle parti, che vollero ricomprendere nella cessione solo l’oggetto in tal modo individuato.
Dell’oggetto dell’accordo, pertanto, non faceva parte il contratto di licenza, concluso solo il 4 agosto 2010, successivamente ai detti atti prodromici ed al disciplinare.
In tal senso ha ritenuto integrata la fattispecie di cui al patto contrario ex art. 2558 c.c..
Inoltre, ha ritenuto che il contratto di cessione d’azienda stipulato in data 11 marzo 2011 conferma, nel suo contenuto, tale conclusione: sia perché l’allegato 3.3.5 menziona solo in modo generico la “Lure Limited”, senza indicare il tipo di contratto, la data di stipulazione ed il suo contenuto; sia perché nella clausola 3.3.6, intitolata “attivi esclusi del ramo”, si afferma che il “corrispettivo rinveniente nella licenza cinese Lure Limited” sarebbe rimasto nella disponibilità della cedente, lasciando ciò intendere che la licenza si riferisse appunto ad un contratto ormai scaduto.
3. – Deve prendersi in esame l’eccezione di inammissibilità del ricorso per nullità della procura, sollevata dalla controricorrente.
La ITC s.r.l. ha eccepito la nullità della procura alle liti della società ricorrente, sul rilievo che mancherebbe la traduzione asseverata dell’autentica di tale procura e della apostille, compiute dal notaio di ***** e che il notaio non ha assunto responsabilità in merito ai contenuti dei documenti autenticati.
L’eccezione è infondata sotto ogni profilo.
3.1. – Va osservato che, in base al disposto della L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 12, a tenore del quale il processo civile che si svolge in Italia è regolato dalla legge italiana, la procura alle liti utilizzata in un giudizio celebrato nel nostro Stato, anche se rilasciata all’estero, è disciplinata dalla legge processuale italiana, la quale, tuttavia, nella parte in cui consente l’utilizzazione di un atto pubblico o di una scrittura privata autenticata, rinvia al diritto sostanziale.
Sicché, in tali evenienze, la validità del mandato deve essere riscontrata, quanto alla forma, alla stregua della lex loci. A tal fine occorre però che il diritto straniero conosca, quantomeno, gli istituti e li disciplini in maniera non contrastante con le linee fondamentali che lo caratterizzano nell’ordinamento italiano e che consistono, quanto alla scrittura privata autenticata, nella dichiarazione del pubblico ufficiale che il documento è stato firmato in sua presenza e nel preventivo accertamento dell’identità del sottoscrittore (Cass. sez. un., ord. 13 febbraio 2008, n. 3410; Cass. 14 novembre 2008, n. 27282; Cass. 19 luglio 2018, n. 19321, non massimata).
Orbene, la Convenzione dell’Aja riguardante l’abolizione della legalizzazione di atti pubblici stranieri è stata conclusa il 5 ottobre 1961 ed è stata ratificata dall’Italia con L. 20 dicembre 1966, n. 1253.
Essa si applica agli atti pubblici – così come definiti dall’art. 1, che sono stati redatti sul territorio di uno Stato contraente e che devono essere prodotti sul territorio di un altro Stato contraente.
Ai sensi dell’art. 2, “Ciascuno Stato contraente dispensa dalla legalizzazione gli atti cui si applica la presente Convenzione e che devono essere prodotti sul suo territorio…”.
Per l’art. 3, “L’unica formalità che possa essere richiesta per attestare l’autenticità della firma, la qualifica della persona che ha sottoscritto l’atto e, ove occorra, l’autenticità del sigillo o del bollo apposto a questo atto, è l’apposizione dell’apostille di cui all’art. 4, rilasciata dall’autorità competente dello Stato dal quale emana il documento”.
Secondo l’art. 5, “L’apostille è apposta su richiesta del firmatario o del portatore dell’atto. Debitamente compilata, essa attesta l’autenticità della firma, la qualifica della persona che ha sottoscritto l’atto e, ove occorra, l’autenticità del sigillo o del bollo apposto a questo atto. La firma, il sigillo o il bollo che figurano sull’apostille sono dispensati da qualsiasi attestazione”.
Dal rapporto esplicativo della suddetta Convenzione risulta che l’apostille non attesta la veridicità del contenuto dell’atto sottostante.
Tale limitazione degli effetti giuridici derivanti dalla Convenzione dell’Aja ha lo scopo di preservare il diritto degli Stati firmatari di applicare le proprie regole in materia di conflitti di leggi quando devono decidere sul peso da attribuire al contenuto del documento postillato (cfr. Corte Europea diritti dell’uomo, sentenza 24 gennaio 2017, n. 25358-12).
3.2. – Nella specie, sin dall’inizio è stata prodotta la procura speciale, in lingua cinese e con traduzione in lingua italiana, mentre in allegato al ricorso la parte ricorrente ha depositato la procura speciale autenticata dal notaio mediante certificazione in lingua inglese, con l’ulteriore forma legale di autenticità del documento costituita dalla apostille, quale certificazione di convalida sul piano internazionale di autenticità dell’atto. La traduzione in lingua italiana della certificazione notarile e della apostille è stata prodotta in giudizio, ai sensi dell’art. 372 c.p.c..
Va rilevato che la procura in questione è stata rilasciata in ***** ed apostillata, in conformità alla Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961, mediante cioè il rilascio, da parte dell’organo designato dallo Stato di formazione dell’atto, di un attestato idoneo a che l’atto venga riconosciuto ed accettato come autentico.
Del pari, è stata allegata la certificazione notarile, concernente l’attività svolta dal notaio, contenente l’attestazione che la firma era stata apposta in sua presenza, da persona di cui egli aveva accertato l’identità. Ed è stata prodotta la traduzione in lingua italiana.
Deve dunque darsi atto della regolarità della procura.
Non si tratta, si noti, di una sanatoria dell’atto mediante la sua rinnovazione (per l’esclusione di quest’ultima in cassazione, essendo prescritta ex art. 365 c.p.c., l’esistenza di una valida procura speciale quale requisito di ammissibilità del ricorso, cfr. Cass. 11 giugno 2018, n. 15073, in motiv.), ma del deposito di documento rilevante ai fini dell’ammissibilità.
E’ stato chiarito (cfr. es. Cass. 4 aprile 2018, n. 8174; Cass. 29 maggio 2015, n. 11165) che la procura speciale alle liti rilasciata all’estero è nulla, agli effetti della L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 12, relativo alla legge regolatrice del processo, ove non sia allegata la traduzione dell’attività certificativa svolta dal notaio, e cioè l’attestazione che la firma sia stata apposta in sua presenza da persona di cui egli abbia accertato l’identità.
Ma, nella specie, l’atto notarile di conferimento della procura consta di un certificato, apostillato e con relativa traduzione in lingua italiana, nonché contenente l’attestazione della firma apposta in presenza del notaio e della sua attività identificativa del soggetto che l’ha apposta.
4. – I motivi di ricorso sono nella sostanza tutti volti a contestare l’interpretazione che la corte territoriale ha reso con riguardo al contratto concluso inter partes nel marzo 2011.
Le censure non possono trovare accoglimento.
4.1. – Ed invero, non vi è stata violazione del D.Lgs. n. 270 del 1999, artt. 62 e 63, né dell’art. 2558 c.c. (primo e quarto motivo di ricorso): la sentenza impugnata non ha affermato che tali norme abbiano ex lege limitato il disposto dell’art. 2558 c.c., creandovi un’eccezione, ma ha solo ammesso che la volontà delle parti possa derogare, come l’incipit dell’art. 2558 c.c., consente, all’automatico passaggio.
Dunque, la regola della cessione ex lege dei contratti di azienda che non abbiano carattere personale, di cui all’art. 2558 c.c., vige solo “se non è pattuito diversamente”, come prevede l’esordio di tale disposizione: e tale diverso accordo è ravvisabile in ipotesi di cessione di azienda da parte dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, ai sensi del D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270, artt. 62 e 63, allorché – secondo l’insindacabile accertamento del giudice del merito, nel rispetto degli artt. 1362 c.c. e segg. – risulti che la volontà delle parti sia stata limitata alla cessione del compendio aziendale nella consistenza risultante nel corso del procedimento previsto dalle norme menzionate, senza rilievo dei contratti successivamente conclusi.
4.2. – Non vi è stata violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. (secondo motivo), perché la sentenza impugnata ha deciso sulla base dei documenti in atti ed i riferimenti al disciplinare autorizzato dal Ministero dello sviluppo economico sono quelli contenuti nel contratto di cessione: come tali, appunto, dalla corte territoriale riportati nella sua motivazione.
4.3. – Per il resto, i motivi non colgono nel segno: invero, nella (sopra sinteticamente riportata) motivazione della corte territoriale, i documenti in atti sono stati esaminati al fine di trarne l’interpretazione complessiva del contratto e della volontà delle parti così manifestata, per concludere che la licenza de qua ne sia stata esclusa.
In tal modo, né è stato violato il disposto degli artt. 1326 e 1372 c.c., perché non è in discussione la formazione del contratto e la sua efficacia tra le parti; né l’art. 1 preleggi, in quanto la sentenza non ha certo affermato che un atto amministrativo prevalga sulla legge, ma ha utilizzato quanto risulta del contenuto dell’atto medesimo al fine di interpretare il contratto concluso; né ha violato i canoni di ermeneutica contrattuale, posto che, al contrario, ha attentamente esaminato proprio la lettera del negozio, ponendo in relazione una con l’altra clausola e valutando la corretta efficacia da attribuire al contratto stesso; né, infine, può dirsi ignorato un fatto decisivo, dato che i passaggi di detto “regolamento di accesso al data room” non sono tali, trattandosi di espressioni ovvie e generiche, che nulla tolgono all’articolato e completo ragionamento della sentenza impugnata.
Ogni altro rilievo della ricorrente finisce per impingere nella interpretazione del contratto, non ripetibile in questa sede.
Ed invero, come questa Corte ha condivisibilmente affermato, l’interpretazione del contratto costituisce giudizio di fatto, riservato al giudice del merito ed incensurabile in cassazione, se non per vizi attinenti ai criteri legali di ermeneutica o ad una motivazione carente o radicalmente contraddittoria (tra le tante, Cass. 12 maggio 2020, n. 8810; Cass. 22 gennaio 2019, n. 1547; Cass. 8 aprile 2016, n. 6924; Cass. 15 aprile 2013, n. 9070; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2465; Cass. 13 febbraio 2002, n. 2074). Ne’ la parte, che con il ricorso per cassazione intenda denunciare la violazione delle regole di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., può limitarsi alla mera contrapposizione tra la propria interpretazione e quella accolta nella sentenza impugnata (Cass. 20 febbraio 2020, n. 4460; Cass., 28 ottobre 2016, n. 21888; Cass. 15 novembre 2013, n. 25728; Cass. 20 novembre 2009, n. 24539).
Ne deriva che non sono utilmente deducibili in sede di legittimità errores in iudicando, che si risolvano nella mera denuncia della violazione degli artt. 1362 c.c. e segg., occorrendo invece che tale denuncia specifichi in qual modo detto giudice, nel ricostruire la portata degli accordi delle parti, abbia deviato dal canone interpretativo che si assume violato.
5. – Il principio di diritto che giova affermare e’, dunque, il seguente:
“La regola della cessione ex lege dei contratti di azienda che non abbiano carattere personale, di cui all’art. 2558 c.c., vige solo se non è pattuito diversamente, come prevede l’esordio di tale disposizione; e tale diverso accordo è ravvisabile in ipotesi di cessione di azienda da parte dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, ai sensi del D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270, artt. 62 e 63, allorché – secondo l’insindacabile accertamento del giudice del merito, nel rispetto degli artt. 1362 c.c. e segg. – risulti che la volontà delle parti sia stata limitata alla cessione del compendio aziendale, nella consistenza risultante nel corso del procedimento previsto dalle norme menzionate, senza rilievo dei contratti successivamente conclusi”.
6. – Le spese seguono la soccombenza.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore della controricorrente, liquidate in Euro 15.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15% sui compensi ed agli accessori di legge.
Sussistono i presupposti per il pagamento del contributo unificato di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 1 dicembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 5 gennaio 2022
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