Quali sono i criteri per il risarcimento del danno dovuto al promissario acquirente, per effetto della mancata conclusione del contratto definitivo di compravendita immobiliare imputabile al promittente alienante?
Sul punto risponde la Cassazione, con l'ordinanza n. 32536 depositata il 4 novembre 2022.
Il calcolo del risarcimento è il seguente: la differenza tra il valore commerciale dell'immobile al momento in cui l'inadempimento è diventato definitivo, normalmente coincidente con quello di proposizione, sia pure in via subordinata, della domanda di risoluzione ovvero altro anteriore, ove accertato in concreto, ed il prezzo pattuito, oltre alla rivalutazione monetaria eventualmente verificatasi nelle more del giudizio.
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Il risarcimento del danno dovuto al promissario acquirente, per effetto della mancata conclusione del contratto definitivo di compravendita immobiliare imputabile al promittente alienante, effettivamente consiste nella differenza tra il valore commerciale dell'immobile al momento in cui l'inadempimento è diventato definitivo, normalmente coincidente (sulla scorta del principio generale espresso dall'art. 1225 c.c., secondo cui la prevedibilità del danno risarcibile deve essere valutata con riferimento al momento in cui il debitore, dovendo dare esecuzione alla prestazione e potendo scegliere fra adempimento e inadempimento, è in grado di apprezzare più compiutamente e, quindi, prevedere il pregiudizio che il creditore può subire per effetto del suo comportamento inadempiente) con quello di proposizione, sia pure in via subordinata, della domanda di risoluzione ovvero altro anteriore, ove accertato in concreto, ed il prezzo pattuito, oltre alla rivalutazione monetaria eventualmente verificatasi nelle more del giudizio.
Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n. 32536 del 04/11/2022
FATTI DI CAUSA
1.- Con citazione ritualmente notificata nell'anno 2008, V.P.L. conveniva, davanti al Tribunale di Lucca, R.L.F., in proprio e quale procuratore del fratello R.P.V., e chiedeva che il convenuto fosse condannato, all'esito dell'intervenuta pronuncia di condanna generica: a) alla restituzione della somma versata come caparra al momento della stipula del preliminare di vecchie Lire 15.000.000, pari a Euro 7.746,85, con rivalutazione ed interessi; b) al risarcimento del danno subito per lucro cessante, commisurato alla differenza tra il valore dell'immobile all'attualità della domanda (valutabile in un importo di circa Euro 550.000,00) e il prezzo come indicato nel preliminare; c) alla riparazione dell'ulteriore danno conseguente al mancato ingresso dell'immobile nel suo patrimonio, in ragione del corrispondente valore; d) al risarcimento del danno extra-patrimoniale ed esistenziale per lo stress subito e per le ripercussioni derivate sulla qualità della vita, in quanto costretto a rilasciare l'immobile destinato a sede della propria attività lavorativa; e) al riconoscimento del danno per la sospensione della propria attività professionale, a seguito del rilascio dell'appartamento; f) alla ripetizione dei costi sostenuti per lo sgombero dell'appartamento e per il reperimento e allestimento di altro bene, quale sede della propria attività professionale; g) alla restituzione degli esborsi effettuati per garantire il recupero del credito; h) alla rifusione del maggior danno patito per la perdita del valore di acquisto della moneta; con quantificazione complessiva di detti pregiudizi nell'importo di Euro 900.000,00.
Al riguardo, l'attore esponeva: che, con contratto preliminare del 5 maggio 1984, R.L.F., in proprio e quale procuratore del fratello R.P.V., si era obbligato a vendergli l'appartamento di proprietà dei germani R., sito in (Omissis), al prezzo di vecchie Lire 75.000.000, fissando la data del 30 giugno 1984 per la stipula del contratto definitivo; che, al momento della stipula del preliminare, aveva corrisposto la somma di vecchie lire 15.000.000, a titolo di acconto e caparra confirmatoria; che, sempre alla data del preliminare, aveva ricevuto la materiale consegna dell'appartamento, che già conduceva in locazione, avendolo adibito a sede del proprio studio professionale; che il promittente alienante, in proprio e in qualità, aveva venduto il medesimo bene immobile di cui al preliminare, con atto rogato il 5 novembre 1984, in favore del figlio R.P.L., per il prezzo di vecchie lire 56.000.000 (che dichiarava di aver già ricevuto in precedenza); che, a seguito di quest'ultima compravendita, era insorto un contenzioso tra le parti avendo il promissario acquirente rivendicato l'esecuzione in forma specifica del preliminare e, in via subordinata, il risarcimento dei danni -; che detto contenzioso era stato definito dalla sentenza della Corte d'appello di Firenze n. 1504 del 4 ottobre 1997, con la quale era stata accertata la responsabilità dei fratelli R. per la mancata stipula del definitivo e, per l'effetto, era stata disposta la condanna degli stessi a risarcire il V. dei danni arrecati, da accertarsi in separato giudizio; che era stato costretto a rilasciare il suddetto immobile in data 7 ottobre 2008, a seguito dell'esecuzione per consegna o rilascio promossa dal proprietario del cespite, in ragione del titolo ottenuto nell'ambito di un processo instauratosi a seguito di notifica di atto di citazione per convalida di sfratto.
Si costituiva in giudizio R.L.F., in proprio e in qualità, il quale resisteva alla domanda, chiedendone il rigetto.
All'uopo, sosteneva: che l'unica pretesa che poteva effettivamente essere riconosciuta era la restituzione della caparra versata, senza la rivalutazione richiesta, trattandosi di debito di valuta e non di valore; che, per converso, non spettava alcun risarcimento del lucro cessante, atteso che era stata spiegata la sola domanda ai sensi dell'art. 2932 c.c., senza che fosse stata mai richiesta la risoluzione del preliminare; che le altre voci di danno invocate non erano diretta conseguenza della mancata stipula del definitivo.
Il Tribunale adito, con sentenza n. 1065/2012, depositata il 5 ottobre 2012, pur riconoscendo che il risarcimento del danno per inadempimento dovesse comprendere la perdita subita dal creditore e il mancato guadagno che ne fosse stato conseguenza diretta ed immediata, rigettava le domande proposte.
In proposito, la pronuncia di prime cure affermava: che la domanda di restituzione della somma versata a titolo di caparra non poteva essere accolta, in quanto la stessa non poteva configurarsi come danno conseguente all'inadempimento dei promittenti alienanti e, conseguentemente, doveva essere proposta come domanda di ripetizione di indebito; che il danno da lucro cessante non era stato in alcun modo dimostrato e, quindi, non poteva essere ammessa alcuna consulenza tecnica d'ufficio; che non ricorrevano i presupposti di legge per poter risarcire il danno da lesione di interessi non aventi connotati di rilevanza economica; che non potevano essere risarciti i danni inerenti alla momentanea sospensione dell'attività professionale e ai costi sostenuti per il rilascio e il reperimento di una nuova sede, in quanto difettava il nesso causale con la mancata stipula del definitivo; che, infine, non potevano essere riconosciute tutte le altre voci di danno pretese, in quanto indeterminate e imprecisate.
2.- Con atto di citazione notificato il 27 novembre 2012, V.P.L. proponeva appello e, all'uopo, lamentava: la violazione degli artt. 1218 e 1223 c.c., nella parte in cui il Giudice di primo grado aveva rigettato la richiesta di restituzione della caparra, in quanto era evidente che la perdita di tale somma fosse un danno derivante dall'inadempimento di controparte; l'erroneità della sentenza impugnata, nella parte in cui non aveva ammesso la consulenza tecnica d'ufficio e non aveva, dunque, riconosciuto il danno da lucro cessante, derivante dalla vendita a terzi dell'immobile in controversia; l'erroneità, altresì, della richiamata sentenza, nella parte in cui non era stato riconosciuto il danno derivante dalla sospensione dell'attività professionale, con i conseguenti costi sostenuti per il reperimento di altro immobile, atteso che la stipula del definitivo gli avrebbe permesso di continuare la propria attività senza dover eseguire alcun trasloco; infine, le lacune della pronuncia gravata, nella parte in cui non erano state riconosciute le altre voci di danno invocate.
Decidendo sul gravame interposto, la Corte d'appello di Firenze, con la sentenza di cui in epigrafe, in parziale riforma della pronuncia impugnata, accoglieva in parte qua le domande proposte e, per l'effetto, condannava l'appellato, in proprio e in qualità, a pagare, in favore dell'appellante, la somma di Euro 7.746,85, a titolo di restituzione dell'importo versato al momento della stipula del preliminare di vendita del 5 maggio 1984, oltre interessi legali dalla data di notifica dell'atto di citazione introduttivo del giudizio definito in appello - con la sentenza di condanna generica depositata il 4 ottobre 1997 -, fino al saldo, compensando le spese di entrambi i gradi del giudizio.
A sostegno dell'adottata pronuncia la Corte territoriale rilevava, per quanto interessa in questa sede: a) che, sulla scorta della sentenza di condanna generica emessa in data 4 ottobre 1997, non poteva essere disconosciuto il diritto alla restituzione della somma versata a titolo di acconto, essendo tale pretesa conseguenza diretta dell'accertato inadempimento di controparte; b) che dovevano essere altresì riconosciuti gli interessi sul credito maturato, dalla data di notifica dell'atto di citazione introduttivo del giudizio conclusosi con la menzionata condanna generica, fino alla data dell'effettivo pagamento; c) che non poteva essere, invece, accolta la richiesta rivalutazione, in quanto si trattava di debito di valuta, non soggetto a rivalutazione monetaria, se non in termini di maggior danno, che avrebbe dovuto essere allegato e provato dal creditore; d) che doveva essere confermato il rigetto della pretesa di riconoscimento del danno da lucro cessante, consistente nella differenza tra il valore commerciale dell'immobile promesso in vendita e mai trasferito alla data della proposta domanda risarcitoria (recte nell'anno 2008) e il prezzo dichiarato nel preliminare; e) che, infatti, il risarcimento da lucro cessante doveva essere calcolato nella differenza tra il prezzo d'acquisto stabilito al momento della stipula del preliminare ed il maggior valore commerciale d'acquisto dell'immobile al momento in cui l'inadempimento del promittente venditore fosse divenuto definitivo; t) che, applicando il principio appena esposto al caso de quo, il danno da lucro cessante spettante all'appellante sarebbe stato teoricamente pari alla differenza tra il prezzo convento nel preliminare del 5 maggio 1984 ed il valore commerciale dello stesso alla data del 5 novembre 1984 di vendita dell'immobile a terzi; g) che, dunque, posto il breve lasso di tempo intercorso tra le due date, non era ipotizzabile un incremento di valore del bene, dovendosi, quindi, escludere l'esistenza del lucro cessante; h) che, in ultimo, doveva essere confermato il rigetto delle altre voci di danno richieste dall'appellante, in assenza di prove a supporto e in mancanza di elementi utili al fine di una determinazione equitativa.
3.- Avverso la sentenza d'appello ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, V.P.L.. Ha resistito con controricorso l'intimato R.L.F., in proprio e quale procuratore generale di R.P.V..
4.- Successivamente V.P.L. ha reiterato la notificazione dello stesso ricorso, contro cui ha resistito, con separato controricorso, l'intimato R.L.F., in proprio e quale procuratore generale di R.P.V., chiedendo che i due giudizi - intrapresi per effetto della duplice notifica - fossero riuniti.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.- In primis, deve essere dichiarata l'inammissibilità - perché tardiva - della memoria illustrativa depositata da parte ricorrente, ai sensi dell'art. 380-bis.1 c.p.c., lunedì 26 settembre 2022, a fronte dell'adunanza camerale fissata per il giorno 4 ottobre 2022.
Infatti, l'art. 155 c.p.c., comma 4, diretto a prorogare al primo giorno non festivo il termine che scada in un giorno festivo, ed il successivo comma 5 del medesimo articolo, introdotto dalla L. n. 263 del 2005, art. 2, comma 1, lett. f), e diretto a prorogare al primo giorno non festivo il termine che scada nella giornata di sabato, operano anche con riguardo ai termini che si computano "a ritroso" (come, nella specie, quello previsto dall'art. 380 bis.1 c.p.c., introdotto dal D.L. n. 168 del 2016, conv., con modif., in L. n. 197 del 2016), ovvero contraddistinti dall'assegnazione di un intervallo di tempo minimo, prima del quale deve essere compiuta una determinata attività. Tale operatività, peraltro, deve correlarsi alle caratteristiche proprie di siffatto tipo di termine, producendo il risultato di individuare il dies ad quem dello stesso nel giorno non festivo cronologicamente precedente rispetto a quello di scadenza, in quanto, altrimenti, si produrrebbe l'effetto contrario di una abbreviazione dell'intervallo, in pregiudizio delle esigenze garantite dalla previsione del termine medesimo (Cass. Sez. 6-3, Ordinanza n. 7068 del 12/03/2020; Sez. 6-2, Ordinanza n. 21335 del 14/09/2017; Sez. 3, Sentenza n. 14767 del 30/06/2014).
Nella specie, fissata la camera di consiglio per il 4 ottobre 2022 e scadendo, pertanto, il termine di dieci giorni per il deposito di memorie sabato 24 settembre 2022, è tardivo il deposito delle memorie contemplate da tale norma avvenuto lunedì 26 settembre 2022, giacché il detto termine doveva intendersi prorogato a ritroso sino al venerdì 23 settembre 2022.
Ancora in via preliminare, i due ricorsi notificati in successione (rispettivamente il 7/11 dicembre 2017 e il 25/26 gennaio 2018), che hanno lo stesso contenuto, devono essere trattati unitariamente.
Infatti, nel caso in cui una sentenza sia stata impugnata con due successivi ricorsi per cassazione, è ammissibile la proposizione del secondo, anche quando contenga nuovi e diversi motivi di censura, purché la notificazione dello stesso abbia avuto luogo nel rispetto del termine breve decorrente dalla notificazione del primo, e l'eventuale improcedibilità di quest'ultimo non sia stata ancora dichiarata, non comportando la mera notificazione del primo ricorso la consumazione del potere d'impugnazione (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 11513 del 11/05/2018; Sez. 5, Sentenza n. 21145 del 19/10/2016; Sez. L, Sentenza n. 13267 del 06/06/2007).
Ad abundantiam, si evidenzia che nella fattispecie, ai sensi dell'art. 369 c.p.c., comma 1, anche rispetto al primo ricorso il deposito è stato tempestivo, essendo avvenuto il 22 dicembre 2017.
2.- Tanto premesso, con il primo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione degli artt. 1218,1223 e 1453 c.c., e art. 115 c.p.c., per avere la Corte d'appello negato la ricorrenza di un danno da lucro cessante sulla scorta dell'erroneo presupposto che il prezzo del bene si identificasse con il suo valore di mercato e alla stregua dell'erroneo assunto secondo il quale non ci sarebbe alcuna rivalutazione da riconoscere, a fronte del breve distacco temporale decorso tra la stipula del preliminare in data 5 maggio 1984 e la stipula della vendita in favore di terzo del 5 novembre 1984.
Deduce, sul punto, l'istante che l'affermazione del Giudice del gravame circa la coincidenza del prezzo pattuito liberamente dalle parti con il valore commerciale del bene, corrente al momento in cui la prestazione avrebbe dovuto essere adempiuta, non sarebbe stata supportata da alcun riscontro e non avrebbe trovato alcun fondamento negli atti di causa, non potendosi, anzi, astrarre dalla stima del valore commerciale del bene, quale presupposto imprescindibile per procedere a un qualsivoglia calcolo dell'ammontare del pregiudizio subito.
Peraltro, nonostante il breve periodo trascorso tra il maggio 1984 e il novembre 1984, in tale lasso temporale di circa sei mesi si sarebbe sicuramente verificato un incremento positivo del valore commerciale, che - anche se modesto - non avrebbe potuto ritenersi inesistente, tenuto conto almeno della mera rivalutazione monetaria.
3.- Con il secondo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione degli artt. 1218,1223 e 1453 c.c., e art. 115 c.p.c., per avere la Corte di merito erroneamente ritenuto che il danno subito dal promissario acquirente consistesse nella differenza tra il valore commerciale del bene oggetto della promessa al momento della proposizione della domanda di risoluzione del contratto e il prezzo pattuito, mentre nella fattispecie nessuna domanda di risoluzione era stata spiegata, avendo il promissario acquirente proposto domanda di esecuzione in forma specifica del contratto preliminare.
Per l'effetto, sarebbe spettato al creditore l'integrale risarcimento del danno, all'esito di una valutazione che non escludesse le conseguenze successive determinate dall'iniziale inadempimento e tenuto conto altresì dell'aumento di valore del bene negli anni seguenti rispetto al tempo in cui l'adempimento si era cristallizzato divenendo definitivo, ossia computando la differenza di valore all'epoca della quantificazione del danno, risalente al periodo in cui era passata in giudicato la sentenza di condanna generica.
4.- Con il terzo motivo il ricorrente si duole, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, della violazione degli artt. 1218,1223 e 1453 c.c., e art. 115 c.p.c., per avere la Corte territoriale erroneamente disconosciuto l'applicazione alla fattispecie dei principi in materia di risarcimento sostitutivo della prestazione inadempiuta, il che avrebbe postulato, in presenza di un inadempimento qualificato come definitivo, la corresponsione di una somma di denaro equivalente al valore della prestazione inadempiuta, fermi restando gli ulteriori danni complementari.
Ad avviso dell'istante, il risarcimento del danno avrebbe dovuto essere inteso come surrogato della prestazione non adempiuta, ossia in funzione sostitutiva della prestazione in natura, con la conseguenza che avrebbe dovuto essere riconosciuto il risarcimento del danno nella misura equivalente al valore dell'immobile al momento dell'accertamento del nocumento, con la correlata spettanza della rivalutazione monetaria.
5.- I riepilogati mezzi di critica possono essere scrutinati congiuntamente, in quanto avvinti da evidenti ragioni di connessione logica e giuridica (attenendo al tema comune del mancato riconoscimento del danno da lucro cessante, conseguente all'inadempimento del preliminare, perfezionatosi attraverso la vendita a terzi del cespite promesso all'avente diritto).
5.1.- Dette censure sono fondate nei termini che seguono.
5.2.- In sintesi, la ricostruzione fattuale segue il seguente percorso: all'esito della stipulazione in data 5 maggio 1984 di un preliminare di vendita immobiliare, i promittenti alienanti, in spregio all'impegno assunto con il predetto contratto preliminare, hanno venduto il cespite in favore di un terzo, con rogito del 5 novembre 1984 (evidentemente all'acquisto in favore del terzo è seguita la trascrizione dell'atto). Quindi, la domanda di esecuzione in forma specifica proposta ai sensi dell'art. 2932 c.c., (evidentemente trascritta successivamente alla trascrizione dell'atto di vendita) non ha trovato accoglimento (e così la connessa domanda di accertamento della simulazione della vendita in favore del terzo). Nondimeno, la Corte d'appello di Firenze, con sentenza n. 1504/1997, depositata il 4 ottobre 1997 (divenuta definitiva), pur negando la fondatezza della domanda ex art. 2932 c.c., ha accolto la domanda subordinata di condanna generica al risarcimento dei danni. All'esito, è stato intrapreso un nuovo giudizio per la liquidazione del danno ammesso con condanna generica. La pronuncia impugnata ha riconosciuto la sola restituzione dell'acconto versato a titolo di caparra confirmatoria. Ha, per converso, negato il danno da lucro cessante e ciò sulla scorta del seguente assunto: 1) tale nocumento si è potenzialmente cristallizzato all'epoca in cui l'inadempimento è divenuto definitivo, ossia al momento in cui si è perfezionato l'effetto traslativo in favore del terzo in data 5 novembre 1984; 2) tale ipotetico pregiudizio si sarebbe tradotto nella differenza tra il valore commerciale del bene al tempo in cui l'inadempimento è divenuto definitivo e il prezzo stabilito nel preliminare del 5 maggio 1984; 3) sull'implicito presupposto che il prezzo concordato nel preliminare corrispondesse al suo reale valore di mercato dell'epoca, è stato escluso che si fosse materializzato alcun pregiudizio nel breve lasso di tempo decorso dalla stipula del preliminare sino al perfezionamento della vendita in favore del terzo (lasso temporale pari a un semestre), presumendosi, dunque, che il valore al momento della vendita non fosse mutato.
5.3.- Esposti nei termini anzidetti i punti salienti della vicenda, si rileva che il risarcimento del danno dovuto al promissario acquirente, per effetto della mancata conclusione del contratto definitivo di compravendita immobiliare imputabile al promittente alienante, effettivamente consiste nella differenza tra il valore commerciale dell'immobile al momento in cui l'inadempimento è diventato definitivo, normalmente coincidente (sulla scorta del principio generale espresso dall'art. 1225 c.c., secondo cui la prevedibilità del danno risarcibile deve essere valutata con riferimento al momento in cui il debitore, dovendo dare esecuzione alla prestazione e potendo scegliere fra adempimento e inadempimento, è in grado di apprezzare più compiutamente e, quindi, prevedere il pregiudizio che il creditore può subire per effetto del suo comportamento inadempiente) con quello di proposizione, sia pure in via subordinata, della domanda di risoluzione ovvero altro anteriore, ove accertato in concreto, ed il prezzo pattuito, oltre alla rivalutazione monetaria eventualmente verificatasi nelle more del giudizio (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 18498 del 30/06/2021).
Senonché, nella fattispecie, come correttamente ritenuto dalla sentenza d'appello, l'inadempimento è divenuto in concreto definitivo con la vendita in favore del terzo, all'esito della debita trascrizione dell'atto ex art. 2652 c.c., n. 2, (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 22979 del 11/11/2015; Sez. 2, Sentenza n. 14714 del 30/08/2012; Sez. 3, Sentenza n. 25016 del 10/10/2008; Sez. 3, Sentenza n. 22384 del 29/11/2004).
Ne' il fatto che sia stata invocata ex ante dal promissario acquirente l'esecuzione specifica - e non la risoluzione per inadempimento - impedisce di determinare il danno sulla scorta dei criteri giurisprudenziali stabiliti per il caso di risoluzione del preliminare. E ciò perché, in conseguenza del rigetto ex post della domanda ex art. 2932 c.c., alla stregua dell'impossibilità giuridica della produzione degli effetti del definitivo (attesa l'intervenuta soluzione del conflitto in ragione della priorità della trascrizione dell'atto traslativo in favore del terzo rispetto alla trascrizione della domanda di esecuzione in forma specifica), ne è disceso un pregiudizio insanabile del diritto all'adempimento (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 42 del 05/01/1998; Sez. 3, Sentenza n. 13282 del 16/12/1992; Sez. 3, Sentenza n. 915 del 02/02/1983), con la sostanziale equiparazione dello stato del preliminare ad un suo scioglimento (o comunque ad una condizione di quiescenza, non suscettibile di evolvere nella stipula del definitivo).
All'esito, il risarcimento di detto danno si materializza nella differenza tra il valore commerciale del bene, da determinarsi con riferimento al momento in cui l'inadempimento è divenuto definitivo, ed il prezzo pattuito, tenendo conto della rivalutazione dell'importo previsto in contratto solo nell'ipotesi in cui il prezzo non sia stato pagato (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 28375 del 28/11/2017), oltre al riconoscimento, sulla differenza così determinata, degli effetti della svalutazione monetaria intervenuta nelle more del giudizio (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17688 del 28/07/2010; Sez. 2, Sentenza n. 1956 del 30/01/2007).
Per contro, la Corte territoriale è incorsa in una duplice indebita presunzione: A) ha presunto che il prezzo stabilito nel preliminare corrispondesse al suo valore reale; B) ha ancora presunto che nel lasso temporale di un semestre il valore del bene non si fosse incrementato. Tali presunzioni non sono assistite da alcun elemento di supporto, ai sensi dell'art. 2729 c.c..
Tanto più che, in linea teorica, i concetti di prezzo pattuito e di valore commerciale (o di mercato) non coincidono: il prezzo di vendita si sostanzia nella somma di denaro in ordine alla quale le parti si sono accordate per addivenire alla produzione dell'effetto traslativo; il valore di mercato corrisponde alla stima più adeguata rispetto agli interessi dell'acquirente e del venditore, ottenibile sul mercato in una data specifica, ovvero nel preciso istante in cui è stata effettuata la valutazione dell'immobile a cui si riferisce.
Pur mirando, in via tendenziale, i due concetti ad equipararsi, non vi è una corrispondenza ontologica sul piano definitorio: così, a titolo esemplificativo, ai fini di rimarcare la distinzione tra i due concetti, si può vendere a 5 o a 10 o a 15 un bene che vale 10.
Mentre il prezzo costituisce l'esito dell'accordo raggiunto dalle parti, qualunque esso sia, il valore di mercato si estrinseca nell'effettivo pregio del cespite: quest'ultimo può essere ricavato mediante il metodo sintetico-comparativo, che si risolve nell'attribuzione al bene da stimare del prezzo di mercato di immobili "omogenei" (ossia del "giusto prezzo in una libera contrattazione"), con riferimento non solo agli elementi materiali (quali la natura, la posizione o la consistenza morfologica), ma anche alla loro condizione giuridico-urbanistica; ovvero mediante il metodo analitico-descrittivo, che si sostanzia nella ricostruzione dei costi, appunto analitici, di realizzazione del bene; ovvero mediante la media ponderata tra i due metodi.
Nel caso in disputa, la Corte distrettuale non ha argomentato le ragioni per le quali ha ritenuto che il prezzo convenuto nella promessa si identificasse con il valore effettivo del bene all'epoca. In mancanza di elementi indizianti di tale corrispondenza, avrebbe dovuto provvedere, in adesione alle richieste di parte, a determinare detto valore alla data del 5 novembre 1984, attraverso l'espletamento di apposita consulenza tecnica d'ufficio estimativa (tanto più che l'appellante aveva offerto elementi documentali, ossia le consulenze tecniche di parte prodotte all'udienza di precisazione delle conclusioni del giudizio di primo grado del 28 settembre 2012, da cui poteva desumersi, sebbene in un momento successivo, che il valore di mercato del cespite era notevolmente diverso dal corrispettivo pattuito).
Una volta fissato tale valore commerciale al 5 novembre 1984, avrebbe dovuto rivalutare il prezzo convenuto - limitatamente alla quota parte non versata di vecchie Lire 60.000.000 - dal 5 maggio 1984 al 5 novembre 1984. Sulla somma così ottenuta, con l'aggiunta della somma già corrisposta a titolo di acconto di vecchie lire 15.000.000, si sarebbe dovuta computare, alla data del 5 novembre 1984, la differenza tra valore commerciale e prezzo fissato, allo scopo di stabilire se vi fosse stato un danno da lucro cessante (an) e, in subordine, in che misura (quantum). Infine, sulla somma eventualmente risultante da tale differenza si sarebbe dovuta riconoscere la rivalutazione monetaria dal 5 novembre 1984 sino al momento della pronuncia.
Peraltro, quand'anche si fosse accertato che il valore di mercato alla data del 5 maggio 1984 fosse corrisposto al prezzo pattuito, si sarebbe dovuto verificare che tale valore non fosse mutato alla data del 5 novembre 1984. Anche tale verifica è del tutto mancata e all'inferenza circa la loro equivalenza non è stato sotteso alcun ragionamento induttivo basato su indizi gravi, precisi e concordanti.
6.- Con il quarto motivo il ricorrente prospetta, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione degli artt. 1218,1223 e 1453 c.c., e art. 115 c.p.c., per avere la Corte distrettuale negato il riconoscimento del danno ulteriore e complementare, consistito nel mancato ingresso del bene oggetto del preliminare nel patrimonio del promissario acquirente.
Ciò avrebbe consentito al ricorrente di godere del bene in via diretta o mediante concessione in detenzione a terzi, nelle forme previste dalla legge, con l'effetto che il danno figurativo rappresentato dalla perdita di utilità derivanti da tale mancata disponibilità, quale riflesso dell'inadempimento, avrebbe dovuto essere liquidato, sulla scorta dei criteri applicati dalla giurisprudenza per l'occupazione di un immobile senza titolo.
Ossia, a dire dell'istante, avrebbe dovuto essere riconosciuto un reddito pari al valore locativo del bene, risarcibile sulla scorta dei principi generali dell'ordinamento.
6.1.- La censura è infondata per due ordini di motivi.
In primo luogo, il danno da risarcire al promissario compratore, ove sia accolta la domanda di risoluzione del contratto preliminare di vendita dallo stesso proposta per inadempimento del promittente venditore (ipotesi a cui deve essere equiparato il caso di specie, in cui comunque la domanda di adempimento specifico è stata disattesa con sentenza definitiva per impossibilità giuridica insanabile e, dunque, il preliminare non può trovare attuazione), non può comprendere i frutti della cosa promessa in vendita successivi alla domanda di risoluzione perché questa, comportando la rinuncia definitiva alla prestazione del promittente venditore ex art. 1453 c.c., comma 3, (o comunque l'impossibilità di ottenerla), preclude anche al promissario compratore di lucrare i frutti che dalla cosa avrebbe tratto dopo la rinuncia (Cass. Sez. 6-2, Ordinanza n. 11012 del 08/05/2018; Sez. 2, Sentenza n. 5063 del 29/04/1993).
In ogni caso, nella fattispecie il pregiudizio determinato in via differenziale, come esplicitato nell'esaminare i precedenti motivi, ingloba ogni danno da lucro cessante. Non può, per converso, essere riconosciuta un'autonoma voce di danno figurativo da generica perdita della disponibilità del cespite, in mancanza di elementi di supporto di tale invocato ulteriore nocumento, come è stato evidenziato dalla sentenza d'appello. Tale ulteriore voce risarcitoria non costituisce, pertanto, una conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento del promittente alienante e non è stata provata nella sua esistenza.
7.- Con il quinto motivo il ricorrente adduce, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione degli artt. 1224,2697 e 1385 c.c., e art. 115 c.p.c., per avere la Corte d'appello negato la natura di debito di valore della prestazione relativa alla disposta restituzione della caparra versata, valevole quale acconto, sì da non tenere conto della svalutazione monetaria sopravvenuta, sino alla liquidazione.
Secondo il ricorrente, tale ulteriore danno avrebbe dovuto essere riconosciuto in via presuntiva.
7.1.- La doglianza è infondata.
Infatti, con riguardo ad un contratto preliminare di compravendita l'obbligazione del promittente venditore di restituire al promissario acquirente la somma di denaro ricevuta come acconto-prezzo, a seguito della risoluzione del contratto preliminare, configura un debito di valuta, avente per oggetto la prestazione pecuniaria originaria, del tutto distinto dal risarcimento del danno spettante in ogni caso all'adempiente. Pertanto, tali restituzioni non sono soggette a rivalutazione monetaria, se non nei termini del maggior danno rispetto a quello ristorato con gli interessi legali di cui all'art. 1224 c.c., che va, peraltro, provato dal richiedente (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14289 del 04/06/2018; Sez. 3, Sentenza n. 5639 del 12/03/2014; Sez. 2, Sentenza n. 13339 del 07/06/2006; Sez. 2, Sentenza n. 6758 del 05/05/2003; Sez. 3, Sentenza n. 10373 del 17/07/2002; Sez. 2, Sentenza n. 3113 del 17/03/1995).
Ne' il creditore ha mai richiesto il risarcimento del maggior danno di cui all'art. 1224 c.c., comma 2, alla stregua del saggio medio di rendimento dei titoli di stato di durata infrannuale superiore al tasso di interessi nel periodo di mora, quantomeno allegando l'esistenza di detto saggio (Cass. Sez. 6-1, Ordinanza n. 22512 del 09/08/2021; Sez. 3, Sentenza n. 6684 del 19/03/2018; Sez. 5, Sentenza n. 11943 del 10/06/2016; Sez. 2, Sentenza n. 3029 del 16/02/2015).
8.- In definitiva, vanno accolti, nei sensi di cui in motivazione, il primo, secondo e terzo motivo del ricorso, mentre il quarto e quinto motivo vanno rigettati.
La sentenza impugnata va cassata, con rinvio della causa alla Corte d'appello di Firenze, in diversa composizione, che deciderà uniformandosi ai principi di diritto enunciati e tenendo conto dei rilievi svolti, provvedendo anche alla pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione accoglie, nei sensi di cui in motivazione, il primo, secondo e terzo motivo del ricorso, rigetta il quarto e quinto motivo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte d'appello di Firenze, in diversa composizione, anche per la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 4 ottobre 2022.
Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2022
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