Ai sensi art. 339 c.p.c., comma 3, Cpc, le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità sono appellabili esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia.
Ma cosa sono in particolare i "principi regolatori della materia"?
Alla domanda risponde la Terza Sezione Civile della Cassazione, con la sentenza n. 34432 depositata il 23 novembre 2022.
I principi regolatori della materia costituiscono enunciati desumibili dalla disciplina positiva complessiva della materia stessa, mentre non corrispondono a singole norme regolatrici della specifica materia in questione, né alle regole accessorie e contingenti che non la qualificano nella sua essenza.
Tali principi possono essere desunti anche dal singolo tipo di rapporto dedotto in giudizio. Ad esempio in un contratto di vendita di cose mobili, occorrerà osservare le norme fondamentali relative a tal tipo di rapporto, ed in ciò è adiuvato dalla frequenza di norme definitorie contenute nel codice o in altre leggi.
In relazione alla previsione dell'art. 339 c.p.c., comma 3, in base alla quale sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità a norma dell'art. 113, comma 2, sono appellabili esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia, i principi regolatori della materia non corrispondono a singole norme regolatrici della specifica materia in questione, né alle regole accessorie e contingenti che non la qualificano nella sua essenza, ma costituiscono enunciati desumibili dalla disciplina positiva complessiva della materia stessa.
L'applicazione del principio "iura novit curia", di cui all'art. 113 c.p.c., comma 1, fa salva la possibilità per il giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite, nonché all'azione esercitata in causa, ponendo a fondamento della sua decisione anche principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti, fermo restando, però, il divieto per il giudice di immutare gli elementi materiali che inverano il fatto costitutivo della pretesa, pronunciandosi su questioni non formanti oggetto del giudizio e non rilevabili d'ufficio.
Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.34432 del 23/11/2022
Fatto
1. Il signor A.N. (di seguito: "I' A.", odierno resistente) citò davanti al Giudice di pace di Chiaromonte la Acquedotto Lucano s.p.a. (di seguito: "l'Acquedotto", odierna ricorrente) al fine di sentirla condannare alla restituzione della somma indebitamente incassata di Euro 495,03. Ciò venne chiesto sul presupposto che, per l'erogazione del servizio idrico dal 1 gennaio 2003 al 31 agosto 2011, l' A. aveva corrisposto alla Acquedotto la somma di Euro 680,91. Tale somma non era però dovuta, giacché una parte di essa era stata calcolata sulla base di consumi presuntivi - non applicabili nel caso concreto dal momento che tra le parti non era mai stato sottoscritto alcun contratto che prevedesse una tale facoltà in capo alla società somministrante -, mentre un'altra parte (Euro 70,40) era riferita ad un'utenza mai attivata dall'Acquedotto.
Nel costituirsi, l'Acquedotto Lucano ammise che l'utenza cui si riferiva l'importo di Euro 70,40 non era attiva, ammise che tra le parti non era stato sottoscritto alcun contratto di somministrazione, il quale si sarebbe realizzato per fatti concludenti, e dichiarò che i criteri presuntivi applicati nel caso concreto per la determinazione dei consumi erano quelli previsti dagli artt. 36, 37, e 38 del regolamento del servizio idrico integrato, adottato con Delib. A.A.T.O. Basilicata 26 ottobre 2005, n. 10 (successivamente, quindi, all'instaurazione del rapporto di somministrazione tra le parti, avvenuta il 1 gennaio 2003). L'Acquedotto eccepì inoltre in compensazione del credito vantato dall' A. il debito che sarebbe maturato a carico di quest'ultimo per i futuri consumi relativi al rapporto di fornitura.
2. Con sentenza n. 117/2013 l'adito Giudice di pace accolse la domanda di ripetizione dell'indebito dell' A..
3. Avverso tale sentenza propose appello l'Acquedotto Lucano, lamentando che il giudice di prime cure: (i) aveva erroneamente dichiarato l'erroneità del criterio di calcolo presuntivo dei consumi previsto dalle disposizioni del regolamento del servizio unico sopra richiamato; (ii) aveva omesso di pronunciare sull'eccezione di compensazione; (iii) aveva erroneamente calcolato, in eccesso, la somma da restituire e, in difetto, la somma spettante per l'erogazione del servizio idrico; (iv) aveva ingiustamente condannato l'Acquedotto alle spese di lite.
Si costituì l' A., eccependo: (i) l'inammissibilità dell'appello sotto vari profili; (ii) l'inapplicabilità degli artt. 1339 e 1374 c.c., non potendosi inserire nella disciplina del rapporto di somministrazione de quo automaticamente le norme del regolamento del servizio idrico, in quanto questo non era un regolamento in senso tecnico, e, nell'ipotesi in cui fosse stato ritenuto tale, richiese la disapplicazione per contrasto con l'art. 23 Cost. e artt. 1173 e 1321 c.c.; (iii) l'inapplicabilità dell'art. 1560 c.c., poiché al momento della stipula del contratto per fatti concludenti non era stato determinato il normale fabbisogno del somministrato; (iv) l'illegittimità dei consumi presuntivi, poiché tra le parti non era mai stato sottoscritto alcun contratto prevedesse tale facoltà in capo alla Acquedotto; (v) La mancata prova, gravante sulla società somministrante, dei consumi effettivi relative al periodo contestato.
4. Con sentenza n. 429/2018, depositata il 18/12/2018, oggetto di ricorso, il Tribunale di Lagonegro ha ritenuto preliminare ed assorbente rispetto ad ogni altra questione quella relativa all'ammissibilità dell'appello. In motivazione si osserva che l'art. 113 c.p.c., comma 2, prevede che "il giudice di pace decide secondo equità la causa in cui il valore non eccede millecento Euro, salvo quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalità di cui all'art. 1342 c.c.".
In virtù del disposto dell'art. 339 c.p.c., comma 3, tali sentenze sono appellabili esclusivamente "per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia". Il Tribunale ha motivato al riguardo che, secondo l'orientamento pacifico della giurisprudenza di legittimità, il combinato disposto delle norme sopra richiamate va interpretato nel senso che le sentenze del giudice di pace in cause di valore non eccedente Euro 1.100,00 devono considerarsi tutte pronunciate secondo equità, tranne quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi mediante moduli o formulari ai sensi dell'art. 1342 c.c. (Cass., SS.UU., 16/6/2006, n. 13917). Il Tribunale ha escluso che il tema decidendum del giudizio ad esso sottoposto a fosse inquadrabile in tale ambito, richiamando un ulteriore arresto della S.C. in base al quale "in tema di impugnazione delle sentenze del giudice di pace, pronunciate secondo equità, l'appello per violazione dei principi regolatori della materia è inammissibile, ai sensi dell'art. 342 c.p.c., qualora non indichi i principi violati e come la regola equitativa individuata dal giudice di pace si ponga con essi in contrasto" (Cass., ord. 11/2/2014, n. 3005).
Soltanto nella memoria di discussione - continua la motivazione del Tribunale - parte appellante ha riqualificato quale motivo di appello relativo alla violazione dei principi regolatori della materia il criterio di cui all'art. 1560 c.c., relativo al computo della prestazione, e l'omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c. in ordine ad una eccezione di merito. In ogni caso, a parte la tardività di tale riqualificazione, il Tribunale ha ritenuto che nemmeno tali censure potessero essere qualificate come attinenti ai principi regolatori della materia, in quanto riguardanti la regolamentazione specifica della disciplina (sostanziale ovvero processuale) di riferimento. Di conseguenza, il Tribunale ha dichiarato inammissibile l'appello, compensando integralmente le spese di lite.
5. Avverso la predetta sentenza n. 429/2018, la società Acquedotto Lucano s.p.a. propone ricorso per cassazione fondato su due motivi. L' A. resiste con controricorso.
6. La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell'art. 380-bis 1 c.p.c.; mentre il Pubblico Ministero non ha depositato le proprie conclusioni, la ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo deduce, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 4, "Error in procedendo. - Nullità della sentenza impugnata in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) per violazione degli artt. 10,14 e 35 c.p.c., art. 113 c.p.c., comma 2 e dell'art. 339 c.p.c. atteso che il Tribunale di Lagonegro ha erroneamente ritenuto inammissibile l'appello proposto dalla odierna deducente nonostante la decisione assunta dal Giudice di Pace di Chiaromonte non poteva (sic) essere considerata come resa secondo equità necessaria per il superamento dei limiti di valore di Euro 1.100,00 previsto dall'art. 113 c.p.c., comma 2". Il ricorrente censura la sentenza del Tribunale (di seguito anche: "la sentenza") in quanto essa non avrebbe correttamente applicato le disposizioni relative alla determinazione del valore della controversia, con conseguente erronea dichiarazione di inammissibilità dell'appello.
Al riguardo il ricorrente espone che: (i) secondo gli artt. 10 e 14 c.p.c. il valore della controversia che abbia ad oggetto denaro si individua in base alla domanda proposta dall'attore; in particolare, secondo l'art. 14 c.p.c., il valore della domanda inerente beni mobili o denaro si determina in base alla somma indicata o al valore dichiarato dall'attore; in mancanza di indicazione dichiarazione, la causa si presume di competenza del giudice adito; (ii) inoltre, in base all'art. 10 c.p.c. si cumulano le domande proposte contro la stessa parte, mentre non si cumulano le domande proposte contro parti diverse ovvero le domande reciproche, e specificamente la domanda principale e quella riconvenzionale (iii) tuttavia, per determinare il valore della domanda riconvenzionale valgono gli stessi principi di cui all'art. 14 c.p.c., e quindi esso si determina in base al valore della somma indicata dal convenuto in riconvenzionale; (iv) la stessa regola opera nel caso in cui il convenuto, per paralizzare la domanda dell'attore, sollevi formale eccezione (riconvenzionale) di compensazione; (v) determinare il valore dell'eccezione di compensazione ha estrema rilevanza sia ai fini della competenza per valore del giudice, sia in relazione all'importo di Euro 1.100 fissato dall'art. 113 c.p.c., comma 2, quale limite entro il quale il Giudice di pace può decidere secondo equità ai sensi dell'art. 113 c.p.c., comma 2; (vi) nel caso in questione, con la propria comparsa di costituzione davanti al Giudice di pace, l'Acquedotto odierno ricorrente, allo scopo di paralizzare la domanda attorea, eccepì formalmente (in via riconvenzionale) la compensazione con altri crediti maturati nei confronti dell' A. per ulteriori consumi successivi a quelli per i quali quest'ultimo propose domanda di ripetizione dell'indebito, il cui importo - certo nell'an debeatur, ma indeterminato nel quantum - sarebbe risultato dovuto corso di causa in base ai documenti e alle prove che sarebbero state fornite dall'Acquedotto stesso; (vii) tale eccezione non venne minimamente considerata dal Giudice di pace, che accolse la domanda dell' A. senza pronunciarsi sull'eccezione dall'Acquedotto. Sicché quest'ultimo chiese nel giudizio di secondo grado la riforma della sentenza per violazione dell'art. 112 c.p.c., riproponendo davanti al Tribunale tale eccezione (ai fini dell'autosufficienza, il ricorrente riproduce alle pp. 13-14 del ricorso il contenuto del secondo motivo di appello sottoposto al Tribunale); (viii) poiché il credito opposto in compensazione ha un titolo diverso rispetto a quello azionato dall'attore - nel senso che il contratto di fornitura è stato dato per esistente dall'Acquedotto e assunto invece come inesistente dall' A. -, risulterebbe evidente trattarsi di eccezione di compensazione in senso proprio; (ix) in conclusione, il Tribunale avrebbe omesso di considerare, in violazione degli 10, 14 e 35 c.p.c. che l'odierno ricorrente aveva sollevato formale eccezione (riconvenzionale) di compensazione di importo indeterminato - ma determinabile in base ai documenti sarebbero stati versati in corso di causa -, e che tale eccezione avrebbe avuto l'effetto portare il valore della causa ad importo superiore a quello del limite di competenza del Giudice di pace previsto dall'art. 7 c.p.c., e perciò superiore ad Euro 1.100,00, con la conseguenza che la sentenza del Giudice di pace non poteva essere considerata resa secondo equità (non ricorrendo il limite di valore previsto dal citato art. 113 c.p.c., comma 2), bensì resa secondo diritto.
Pertanto, avverso detta sentenza, contrariamente a quanto statuito dal Tribunale, poteva essere proposto l'appello ordinario, non ricorrendo l'ipotesi di cui all'art. 339 c.p.c., comma 3. L'error in procedendo lamentato dal ricorrente con il motivo in questione consisterebbe nell'avere il Tribunale dichiarato erroneamente inammissibile l'appello, in tal modo integrando una lesione del diritto del ricorrente il quale, a causa di tale errore, ha subito il rilevante e irreparabile pregiudizio di non aver potuto esercitare pienamente i propri poteri processuali, ed ottenere lo scrutinio e la decisione nel merito dell'appello a cui aveva diritto.
2. Il secondo motivo deduce, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 4, "Error in procedendo. - Nullità della sentenza impugnata in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) per violazione dell'art. 113 c.p.c., commi 1 e 2 e dell'art. 339 c.p.c., comma 3 atteso che il Tribunale di Lagonegro ha erroneamente ritenuto inammissibile l'appello proposto dall'odierna deducente senza considerare che attraverso i motivi di appello proposti l'odierna esponente aveva dedotto la violazione dei principi regolatori della materia processuale sostanziale". Il ricorrente censura la decisione del Tribunale in quanto essa, in violazione degli artt. 113 e 339 c.p.c., e in violazione dei principi regolatori della materia processuale e sostanziale da esso ricorrente dedotti in sede di appello, ha omesso di considerare che l'appello proposto conteneva, a differenza di quanto statuito dal Tribunale, motivi a tutti gli effetti assimilabili a "violazione dei principi regolatori della materia e/o del processo" che, come tali, avrebbero consentito al Tribunale di riqualificare l'appello da ordinario a vincolato e/o limitato, rendendolo di conseguenza perfettamente ammissibile alla luce dell'art. 339 c.p.c., comma 2. In ciò consisterebbe l'error in procedendo denunciato dal ricorrente, al quale conseguirebbe la nullità della sentenza impugnata in quanto comportante violazione dei principi che regolano il giusto processo.
Più nel dettaglio. Il ricorrente espone che (A) con il primo motivo di appello, egli dedusse espressamente: (i) la violazione degli art. 1339 e 1374 c.c. e D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, artt. 33 e 34 per avere il Giudice di pace erroneamente dichiarato l'inapplicabilità dei criteri di calcolo presuntivi dei consumi previsti nel regolamento del servizio idrico richiamato al punto 1 della porzione espositiva che precede, nonché la illegittimità degli stessi criteri, ed ancora la violazione dell'art. 132 c.p.c. per omessa e/o carente motivazione su tale punto decisivo della controversia, atteso che il giudice di pace avrebbe affermato apoditticamente l'illegittimità e la vessatorietà di tali criteri senza fornire alcuna motivazione sul punto. (ii) La violazione da parte del giudice di pace dell'art. 1560 c.c., che stabilisce, in materia di somministrazione, il criterio generale e suppletivo secondo il quale, in caso di mancata pattuizione del quantitativo minimo della prestazione da erogare, va ritenuto che le parti si siano riferite al criterio del "normale fabbisogno". Si tratterebbe di un principio regolatore della materia, dal quale il giudice di pace non avrebbe potuto prescindere, e la cui violazione rientrerebbe della tipologia dei casi deducibili come gravame ex art. 339 c.p.c., comma 3, (B) Con il secondo motivo di appello, venne dedotta l'omessa pronuncia sull'eccezione di carenza di interesse e di compensazione sotto il profilo della violazione dell'art. 112 c.p.c., in quanto dette eccezioni, ritualmente sollevate dalla difesa del ricorrente nella comparsa di risposta davanti al giudice di pace, sono state totalmente ignorate nella decisione impugnata. Anche in questo caso, si tratterebbe di vizio denunciabile ai sensi dell'art. 339 c.p.c., comma 3, (C) Con il terzo motivo di appello, venne dedotta la violazione, nella sentenza impugnata, dei principi generali che regolano l'indebito oggettivo e l'arricchimento senza causa, in quanto il Giudice di pace, nell'accogliere la domanda dell' A., in violazione di tali principi, ha omesso di valutare che i consumi addebitati a quest'ultimo risultavano da letture eseguite e documentate, ed erano quindi basati su consumi effettivi. Sicché la restituzione delle somme ordinata in sentenza era errata sia per violazione dei principi che regolano l'indebito oggettivo (in quanto tali somme erano state versate dall' A. quale corrispettivo per consumi effettivi e nient'affatto indebiti), sia in violazione dei principi che regolano l'arricchimento senza causa (in quanto la restituzione di tali somme avrebbe comportato un ingiusto arricchimento dell' A., consistente nell'ingiustificato vantaggio delle prestazioni idriche erogategli senza il corrispondente obbligo di versare alcun corrispettivo).
Anche in questo caso, deduce il ricorrente, si configura la violazione di principi generali regolatori della materia, dai quali il Giudice di pace non poteva discostarsi neppure nel caso di giudizio secondo equità, come tali deducibili ai sensi dell'art. 339 c.p.c., comma 3.
Il Tribunale, ritenendo l'insussistenza dei presupposti della dedotta conversione da appello ordinario in appello vincolato e/o limitato ai sensi dell'art. 339 c.p.c., comma 3, e comunque dichiarando che le violazioni denunciate dal ricorrente con il proposto appello non potevano essere considerate in alcun modo quali violazioni dei principi regolatori della materia, avrebbe omesso di valutare, nonostante l'espressa deduzione in tal senso formulata dall'odierno ricorrente nelle note autorizzate depositate, se l'atto di appello proposto avesse o meno, in concreto, i requisiti previsti dall'art. 339 c.p.c., comma 3.
Deduce il ricorrente che, qualora il Tribunale avesse correttamente applicato tali principi, si sarebbe certamente reso conto che l'appello, per come effettivamente proposto, aveva dedotto con i primi tre motivi (riportati integralmente dal ricorrente, ai fini dell'autosufficienza, alle pp. 18-28 del ricorso) la violazione dei principi regolatori della materia sostanziale e processuale, con la conseguenza che l'appello, contrariamente a quanto statuito dalla sentenza impugnata, doveva ritenersi ammissibile come appello vincolato e/o limitato ai sensi dell'art. 339 c.p.c., comma 3.
3. Il controricorso. Nel proprio controricorso l' A., al fine di comprovare l'ammissibilità e/o infondatezza del ricorso, deduce una serie di argomenti che si può omettere di riportare, in quanto oggetto dello scrutinio di questo Collegio relativo ai due motivi di ricorso.
4. Sul primo motivo di ricorso. Al riguardo va premesso che la violazione dei principi regolatori del giusto processo è rilevante (solo) se incide sul contenuto della decisione: "In tema di ricorso per cassazione, la censura concernente la violazione dei "principi regolatori del giusto processo" e cioè delle regole processuali ex art. 360 c.p.c., n. 4, deve avere carattere decisivo, cioè incidente sul contenuto della decisione e, dunque, arrecante un effettivo pregiudizio a chi la denuncia. (Nella specie, il ricorrente ha dedotto la violazione dei principi regolatori del giusto processo in relazione all'irritualità della forma con cui l'atto di integrazione del contraddittorio era stato notificato, senza evidenziare in alcun modo quale pregiudizio la violazione denunciata avrebbe arrecato; la S.C., enunciando l'anzidetto principio, ha ritenuto la censura inammissibile ex art. 360 bis c.p.c., n. 2)" (così Cass., sez. III, 26/9/2017, n. 22341). Il ricorrente, pur facendo presente, nell'esposizione del primo motivo, di aver chiesto, nel giudizio di secondo grado, la riforma della sentenza di primo per violazione dell'art. 112 c.p.c. (punto (1.4) del primo motivo di ricorso), non deduce tale violazione nella rubrica del motivo.
4.1 Ciò può essere superato dal fatto che "la configurazione formale della rubrica del motivo di gravame non ha contenuto vincolante per la qualificazione del vizio denunciato, poiché è solo la esposizione delle ragioni di diritto della impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura" (Cass., 2/9/2016, n. 17514). In effetti, la violazione dell'art. 112 c.p.c. si desume comunque dalla parte espositiva del motivo, e ciò consente, in base al principio di conservazione dell'atto processuale, di ritenere fondata la doglianza integrando la rubrica con quanto ricavabile nell'espositiva del motivo. Come statuito da Cass., Sez. Un., 24/7/2013, n. 17931: "Il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall'art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l'esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l'omessa pronuncia, da parte dell'impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 con riguardo all'art. 112 c.p.c., purché il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorché sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge".
4.2 Attraverso la lettura dell'atto di appello (in questa sede correttamente riproposto in adempimento degli oneri di allegazione alle pagg. 18-28 del ricorso), è possibile riscontrare come, in corrispondenza al secondo motivo di appello (pag. 18 del ricorso) l'appellante dedusse effettivamente la violazione delle norme sul processo, e in particolar modo dell'art. 112 c.p.c., lamentando che il primo giudice non aveva emesso alcuna pronuncia sull'eccezione di carenza di interesse e di compensazione ritualmente sollevata dall'odierno ricorrente nella comparsa di risposta depositata in primo grado (punti 11.3 e II. 4, riportati a p. 13 del ricorso).
Il Collegio osserva che non può ragionevolmente dubitarsi che l'art. 112 c.p.c. (nella parte in cui impone al giudice di pronunciarsi su tutta la domanda e le eccezioni proposte dalle parti, e non oltre i limiti di esse) detti una norma fondamentale sul processo, sì che la denuncia della relativa violazione in sede di appello vale con certezza a soddisfare i requisiti di specificità necessari ai fini dell'ammissibilità del gravame su tale specifico punto.
In ogni caso, il motivo è sicuramente fondato sotto altro profilo. In effetti il Tribunale, avendo fatto erronea applicazione delle disposizioni processuali richiamate nel presente motivo di ricorso, relative alla determinazione del valore del giudizio e alla conseguente esclusione del limite posto dall'art. 339 c.p.c., comma 3, ha integrato una violazione del diritto di difesa dell'odierno ricorrente, con la conseguenza che ricorrono i presupposti per invocare la cassazione della pronuncia ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Il motivo va pertanto accolto.
5. Sul secondo motivo di ricorso. A tale riguardo, va premesso che, a fronte di un unico e isolato precedente di questa Corte (Cass., Sez. I, sentenza 27/07/2015, n. 15678) - incline ad escludere che il giudice d'appello possa dichiarare l'inammissibilità del gravame (sotto il profilo della mancata specificazione del principio regolatore della materia in ipotesi violato), se tale principio regolatore possa ricavarsi in via interpretativa dalla lettura dell'atto d'appello - questo Collegio ritiene di far proprio (e di riproporre al fine di assicurarne continuità) il ben più consolidato e nutrito orientamento della giurisprudenza di legittimità che, muovendo dal principio di cui all'art. 342 c.p.c. (là dove impone la necessaria specificità dei motivi di appello), ha escluso che possa ritenersi ammissibile un appello avverso una sentenza del Giudice di pace pronunciata secondo equità in cui non siano espressamente specificati i principi regolatori della materia che si assumono violati.
Sul punto, questa Corte ha già avuto modo di sottolineare come, in tema di giudizio di equità, i principi informatori della materia non rappresentano una regola di giudizio, ma una limitazione del potere discrezionale nel determinare la regola equitativa del caso concreto, giacché il risultato della scelta operata dal giudice, pur potendo non coincidere con quello raggiunto dàl legislatore, dovrà necessariamente rispettare i principi ai quali questi si è ispirato nel disciplinare la materia. Pertanto, il ricorso che denunci la violazione di un principio informatore della materia deve con chiarezza indicare specificamente quale sia il principio violato, e come la regola equitativa individuata dal giudice di pace si ponga in contrasto con esso, trattandosi di principi che - non essendo oggettivizzati in norme - devono essere prima individuati da chi ne lamenta la violazione e soltanto successivamente verificati dal giudice di legittimità prima nella loro esistenza e quindi nella loro eventuale violazione (Cass., Sez. III, 19/10/2021, n. 28934; Cass., Sez. III, 19/10/2021, n. 29935: entrambe in controversie del tutto analoghe a quella odierna. In precedenza, in ordine cronologico, cfr. Cass., Sez. 2, ord. 9/11/2020, n. 25020; Cass., Sez. 6, ord. 25/01/2018, n. 1932; Cass., Sez. 6, ord. 23/03/2017, n. 7500; Cass., sez. 3, 7/03/2017, n. 5627; Cass., Sez. 3, 21/06/2016, n. 12735; Cass., sez. I, 27/07/2015, n. 15678; Cass., Sez. 6, ord. 3/11/2014, n. 23333; Cass., Sez. 6, ord. 11/02/2014 n. 3005; Cass., Sez. II, 9-42010, n. 8466; Cass., 10/01/2007, n. 284).
5.1 Orbene, nel caso di specie, il ricorrente ha puntualmente (e diffusamente) fornito specifica indicazione dei principi regolatori asseritamente violati dalla pronuncia impugnata. Il tema è trattato al p. 11.6.1 del ricorso, e può essere sintetizzato come segue.
Il ricorrente premette che i "principi regolatori della materia" di cui all'art. 339 c.p.c., comma 3 consistono nei principi giuridici essenziali sui quali si fonda una determinata materia, desumibili dall'esame della disciplina normativa ad essa inerente, e che costituiscono le regole fondamentali della stessa materia che il legislatore ha inteso fissare e che, in quanto tali, rappresentano il limite invalicabile del giudizio di equità necessaria consentito dall'art. 113 c.p.c., comma 2, al giudice di pace nelle cause di valore inferiore ad Euro 1.100,00. Segue l'esposizione dei principi che il ricorrente denuncia violati dalla sentenza impugnata.
Con riferimento al II motivo di appello (con il quale era stata dedotta la violazione dell'art. 112 c.p.c. per non avere il giudice di pace esaminato l'eccezione di compensazione ritualmente sollevata dall'odierno ricorrente), il Tribunale ha manifestamente disatteso il principio, ripetutamente affermato dalla S.C., secondo il quale la deduzione in sede di appello della violazione dell'art. 112 c.p.c. - ovvero quando la sentenza di primo grado viene espressamente censurata per avere omesso l'esame e la pronuncia sull'eccezione e/o sulla domanda ritualmente proposte - configura di per sé "violazione dei principi regolatori della materia processuale", in quanto tale rilevante ai sensi dell'art. 339 c.p.c., comma 3, e immediatamente riconoscibile dal giudice di merito a prescindere dalla formulazione usata.
Con riferimento al I motivo di appello, - con il quale era stata dedotta la violazione dell'art. 132 c.p.c. per non avere il Giudice di pace fornito alcuna motivazione sulle ragioni per le quali aveva ritenuto vessatori e illegittimi i criteri di calcolo presuntivi dei consumi previsti dal più volte menzionato regolamento della Regione Basilicata - il Tribunale ha omesso di considerare che, per effetto di tali rilievi, l'odierno ricorrente aveva in sostanza dedotto la violazione della "norma processuale fondamentale" rappresentata dall'art. 132 c.p.c., che prescrive, sotto pena di nullità della sentenza, l'obbligo di motivazione. Il Tribunale sarebbe incorso in ulteriori violazioni dei principi regolatori della materia sostanziale e processuale. Più precisamente.
Con riferimento al I e al II motivo di appello, era stata dedotta rispettivamente:
(i) la violazione degli artt. 1339 e 1374 c.c. e del D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, artt. 33 e 34 per avere il Giudice di pace erroneamente dichiarato l'inapplicabilità dei criteri di calcolo presuntivi dei consumi previsti nel più volte citato regolamento del servizio idrico integrato; in particolare, il principio di cui agli artt. 1339 e 1374 c.c., che dispone l'inserimento automatico nel contratto di clausole imposte dalla legge anche contro la volontà dei contraenti, risulta "principio regolatore della materia contrattuale", ed esprime l'esigenza di garantire l'uniformità della relativa regolamentazione con riferimento ad aspetti ritenuti inderogabili dal legislatore, in quanto tali sottratti all'autonomia privata (pp. 35-36 del ricorso);
(ii) la violazione da parte del Giudice di pace del principio di cui all'art. 1560 c.c., il quale stabilisce, in materia di somministrazione, il criterio generale e suppletivo secondo cui, in caso di mancata pattuizione del quantitativo minimo della prestazione da erogare, deve ritenersi che le parti si siano riferite al criterio del "normale fabbisogno"; anche in questo caso, si tratterebbe di "principio fondamentale regolatore della materia della somministrazione", applicabile analogicamente anche alla somministrazione di acqua potabile da parte del soggetto gestore del relativo servizio; tale principio infatti esprime l'esigenza, normativamente tutelata, di garantire a ciascun fruitore del servizio il quantitativo minimo inderogabile di acqua (p. 36, 3 p., del ricorso);
(iii) la violazione dei principi generali che regolano l'indebito pagamento e l'arricchimento senza causa, in quanto il Giudice di pace, nell'accogliere la domanda attorea, omise di valutare che i consumi addebitati alla odierna resistente risultavano da letture eseguite e documentate, ed erano quindi basati su consumi effettivi, sicché la condanna al pagamento in favore dell'attore, oltre che essere indebita, comportava anche un ingiustificato arricchimento di quest'ultimo. Ne conseguirebbe la violazione dei principi regolatori della materia delle obbligazioni e dei contratti (in materia di pagamento indebito oggettivo e di arricchimento senza causa), i quali affermano la regola generale secondo la quale nessuno è tenuto a pagare ad altri senza esservi obbligato e/o in mancanza di giusta causa (art. 2033 c.c.) e (correlativamente) la regola secondo la quale nessuno può legittimamente pretendere e/o trattenere un pagamento non dovuto gli in base ad un obbligo altrui valido legalmente e/o in base ad una giusta causa (art. 2041 c.c.).
5.2 Questa Corte è intervenuta a definire l'ambito entro il quale viene in rilievo l'applicazione da parte del Giudice di Pace dei "principi regolatori della materia", la cui violazione, unitamente a quella di norme costituzionali o comunitarie e di norme del procedimento, esaurisce l'elenco tassativo dei vizi denunciabili con l'appello proposto avverso le sentenze pronunciato secondo equità ai sensi dell'art. 113 c.p.c., comma 2, statuendo che "I principi regolatori non sono soltanto quelli ricavabili, per via di astrazione, dalla ratio sottesa alle singole norme (per reperire i quali, probabilmente, occorrerebbe una conoscenza sistematica dell'ordinamento che non appare consona al tipo di giudice che detti principi dovrebbe sapere ritrovare), ma sono quelli della materia, che non può identificarsi soltanto con gli istituti generali (il contratto; la responsabilità civile; la proprietà, etc.), bensì col singolo tipo di rapporto dedotto in giudizio. La materia è quella concreta della causa: per esemplo, un contratto di vendita di cose mobili. Il conciliatore dovrà osservare le norme fondamentali relative a tal tipo di rapporto, ed in ciò è adiuvato dalla frequenza di norme definitorie contenute nel codice o in altre leggi. Si tratta della configurazione essenziale del rapporto, delle norme costituenti le linee-guida della sua disciplina, senza le quali quel tipo di rapporto non sussiste; ovvero in forza delle quali il rapporto passa da una configurazione a un'altra (per esempio: la sottospecie della vendita con riserva di proprietà, rispetto alla vendita). E' evidente che il ricorrente non potrà limitarsi ad assumere l'esistenza del vizio, ma è necessario che indichi, sia pure in maniera generica, ma in modo tale da rendere intellegibile la censura, quali sono i principi regolatori che si ritengono violati e/o falsamente applicati. La Corte ha, innanzitutto, il compito di accertare se quelli dedotti (almeno implicitamente) dalla parte sono veramente i "principi regolatori della materia" di causa; se la risposta è negativa, il giudizio si fermerà a questo livello, perché si rientra nell'ambito della insindacabilità della decisione di equità. Se, invece, si tratta veramente di principi regolatori, accertata la sussistenza della dedotta violazione e/o falsa applicazione, dovrà enunciare il principio di diritto, ai sensi e con i poteri dell'art. 384 c.p.c. (commi 1 e 2)" (cfr. Cass., Sez. III, 7/3/2017, n. 5627; Cass., Sez. Un., 15/6/1991, n. 6794).
5.3 Al riguardo va osservato che taluni dei motivi di appello proposti dall'odierno ricorrente (come riportati al punto 5.1 che precede) integrano certamente violazioni delle norme sul procedimento, o violazioni di norme costituzionali, ovvero dei principi regolatori della materia, in conformità al disposto di cui all'art. 339 c.p.c., comma 3.
5.4 Questa Corte ha chiarito che, in materia di appello vincolato ex art. 339 c.p.c., comma 3, opera il principio iura novit curia, secondo il quale qualsiasi appello, anche se proposto nelle forme ordinarie, qualora abbia comunque i requisiti del menzionato art. 339 c.p.c., comma 3, resta comunque ammissibile in quanto doverosamente valutabile e/o riqualificabile come appello vincolato e/o limitato (Cass., 27/7/2015, n. 15678). Di conseguenza, come dedotto dal ricorrente, il Tribunale, in osservanza del principio sopra richiamato, attenendosi al contenuto dell'atto di impugnazione proposto dal ricorrente, avrebbe dovuto valutare se i motivi di appello rientrassero comunque - sotto il profilo sostanziale e previa riqualificazione - nelle ipotesi previste dall'art. 339 c.p.c., comma 3, e, in caso affermativo (vedi secondo motivo di ricorso), dichiarare ammissibile l'appello e deciderlo nel merito.
5.5 Ne consegue la fondatezza anche del secondo motivo.
6. Dalle considerazioni che precedono consegue l'accoglimento del ricorso, con cassazione della gravata sentenza e rinvio al giudice del merito, che si individua nel medesimo Tribunale di Lagonegro, ma in diversa composizione.
7. Questi, prima di provvedere sulle spese anche del presente giudizio di legittimità, procederà all'esame del merito della controversia, motivando adeguatamente in ordine a tutti i motivi di appello proposti dall'Acquedotto Lucano, anche in relazione alla loro conformità al disposto di cui all'art. 339 c.p.c., comma 3, attenendosi ai seguenti principi di diritto: (i) "In relazione alla previsione dell'art. 339 c.p.c., comma 3, in base alla quale sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità a norma dell'art. 113, comma 2, sono appellabili esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia, i principi regolatori della materia non corrispondono a singole norme regolatrici della specifica materia in questione, né alle regole accessorie e contingenti che non la qualificano nella sua essenza, ma costituiscono enunciati desumibili dalla disciplina positiva complessiva della materia stessa". (ii) "L'applicazione del principio "iura novit curia", di cui all'art. 113 c.p.c., comma 1, fa salva la possibilità per il giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite, nonché all'azione esercitata in causa, ponendo a fondamento della sua decisione anche principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti, fermo restando, però, il divieto per il giudice di immutare gli elementi materiali che inverano il fatto costitutivo della pretesa, pronunciandosi su questioni non formanti oggetto del giudizio e non rilevabili d'ufficio".
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso. Cassa e rinvia al Tribunale di Lagonegro, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella camera di Consiglio della Terza Sezione Civile, il 14 settembre 2022.
Depositato in Cancelleria il 23 novembre 2022
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