Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.392 del 10/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Presidente –

Dott. CAPRIOLI Maura – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

Dott. LO SARDO Giuseppe – Consigliere –

Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11467-2020 proposto da:

CASEIFICIO MOUSE SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI REDENTORISTI 9, presso lo studio BFS & ASSOCIATI, rappresentata e difesa dall’avvocato GABRIELE SEPIO;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, *****, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 539/2/2019 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DEL MOLISE, depositata il 30/09/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 16/11/2021 dal Consigliere Relatore Dott. LORENZO DELLI PRISCOLI.

FATTI DI CAUSA

la parte contribuente proponeva ricorso avverso avvisi di accertamento IVA e IRPEG relativi agli anni d’imposta 1998 e 1999 mediante i quali l’Agenzia delle entrate procedeva alla ricostruzione induttiva di maggiori ricavi a carico della società contribuente presumendo una percentuale di resa del 13% per il latte e del 100% per la cagliata moltiplicando le quantità ottenute per i prezzi medi ponderati di vendita per i due anni d’imposta sulla base di verifiche nei confronti di aziende operanti nel medesimo settore nella stessa provincia;

la Commissione Tributaria Provinciale accoglieva il ricorso riducendo in via equitativa i maggiori ricavi accertati ma dichiarava legittimo il metodo di accertamento induttivo;

la Commissione Tributaria Regionale, su appello della parte contribuente, respingeva tale appello e accoglieva quello incidentale dell’Ufficio;

la Corte di Cassazione, con sentenza n. 20965 del 2015, cassava con rinvio la sentenza della Commissione Tributaria Regionale in quanto tale sentenza, nell’affrontare la questione della legittimità o meno dell’accertamento con il metodo induttivo, si è limitata a far proprie acriticamente le argomentazioni del giudice di primo grado;

la Commissione Tributaria Regionale, con giudizio riassunto per iniziativa della parte contribuente, affermava che correttamente l’Ufficio ha proceduto mediante metodo analitico induttivo in quanto è emerso che la società ricorrente ha lavorato un certo quantitativo di latte e cagliata e ha commercializzato i prodotti e sottoprodotti della lavorazione e non è stato dimostrato che la commercializzazione di tali prodotti sia avvenuta a prezzi inferiori a quelli di mercato allo scopo di penetrare lo stesso per cui si realizza la presunzione di cessione di beni non fatturati né a fini IVA né a fini reddituali, anche in considerazione della circostanza che sin dalla sua costituzione la società ha mostrato, attraverso i propri bilanci negativi e la non remunerabilità dei mezzi impiegati e degli sforzi finanziari per una gestione produttiva con assicurazione di equilibrio tra mezzi finanziari ed economici, cosicché si giunge a presumere legittimamente che si siano sottratti ricavi e del resto l’accertamento analitico induttivo può svolgersi anche quando, pur in presenza di scritture contabili formalmente corrette, queste possano considerarsi, in ragione della irragionevole antieconomicità della gestione imprenditoriale, del tutto inattendibili; infine la percentuale di resa del 13% per il latte e del 100% per la cagliata è stata determinata sulla base di verifiche nei confronti di aziende operanti nel medesimo settore nella stessa provincia.

La parte contribuente proponeva ricorso affidato a due motivi di impugnazione e in prossimità dell’udienza depositava memoria insistendo per l’accoglimento del ricorso mentre l’Agenzia delle entrate si costituiva con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo d’impugnazione la parte contribuente denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4, dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, dell’art. 111 Cost. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 4, per essere la motivazione meramente apparente in ordine alla verifica dell’effettiva sussistenza degli elementi presuntivi richiesti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, per legittimare un accertamento analitico induttivo;

con il secondo motivo d’impugnazione, la parte contribuente denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39 e degli artt. 2697,2727 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 3, per avere la sentenza impugnata erroneamente ritenuto che sussistessero gli elementi per procedere all’accertamento analitico induttivo, ossia presunzioni dotate dei requisiti di gravità, precisione e concoranza, del tutto assenti invece nel caso di specie.

Il primo motivo di impugnazione è infondato.

Secondo questa Corte infatti:

in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, non è più deducibile quale vizio di legittimità il semplice difetto di sufficienza della motivazione, ma i provvedimenti giudiziari non si sottraggono all’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111 Cost., comma 6, e, nel processo civile, dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4. Tale obbligo è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perché perplessa ed obiettivamente incomprensibile) e, in tal caso, si concreta una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (Cass. n. 22598 del 2018);

in tema di contenuto della sentenza, il vizio di motivazione previsto dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e dall’art. 111 Cost. sussiste quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, né alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (Cass. n. 3819 del 2020);

il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (Cass. n. 27899 del 2020; Cass. n. 23940 del 2017; Cass. SU n. 8053 del 2014);

in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, non è più deducibile quale vizio di legittimità il semplice difetto di sufficienza della motivazione, ma i provvedimenti giudiziari non si sottraggono all’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111 Cost., comma 6 e, nel processo civile, dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4. Tale obbligo è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perché perplessa ed obiettivamente incomprensibile) e, in tal caso, si concreta una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (Cass. n. 27899 del 2020; Cass. n. 22598 del 2018).

La sentenza della Commissione Tributaria Regionale affermando che correttamente l’Ufficio ha proceduto mediante metodo analitico induttivo in quanto è emerso che la società ricorrente ha lavorato un certo quantitativo di latte e cagliata e ha commercializzato i prodotti e sottoprodotti della lavorazione e non è stato dimostrato che la commercializzazione di tali prodotti sia avvenuta a prezzi inferiori a quelli di mercato allo scopo di penetrare lo stesso per cui si realizza la presunzione di cessione di beni non fatturati né a fini IVA né a fini reddituali, anche in considerazione della circostanza che sin dalla sua costituzione la società ha mostrato, attraverso i propri bilanci negativi e la non remunerabilità dei mezzi impiegati e degli sforzi finanziari per una gestione produttiva con assicurazione di equilibrio tra mezzi finanziari ed economici, cosicché si giunge a presumere legittimamente che si siano sottratti ricavi e del resto l’accertamento analitico induttivo può svolgersi anche quando, pur in presenza di scritture contabili formalmente corrette, queste possano considerarsi, in ragione della irragionevole antieconomicità della gestione imprenditoriale, del tutto inattendibili; infine la percentuale di resa del 13% per il latte e del 100% per la cagliata è stata determinata sulla base di verifiche nei confronti di aziende operanti nel medesimo settore nella stessa provincia – evidenziando in maniera ordinata e razionale i numerosi elementi che concordamente facevano ritenere che sussistessero i presupposti per procedere attraverso il metodo ricostruttivo del reddito analitico-induttivo e facendo altresì corretto riferimento al principio secondo cui l’accertamento analitico-induttivo può svolgersi anche quando, pur in presenza di scritture contabili formalmente corrette, queste possano considerarsi, in ragione della irragionevole antieconomicità della gestione imprenditoriale, del tutto inattendibili, ha fornito una motivazione circa il merito della lite chiara, ragionevole e coerente, che si colloca ben al di sopra del minimo costituzionale di motivazione di cui all’art. 111 Cost..

Il secondo motivo di impugnazione è parimenti infondato. Secondo questa Corte, infatti:

in tema di accertamento dei redditi di impresa, l’Ufficio può procedere a quello analitico-induttivo, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, anche in presenza di scritture formalmente regolari, ove la contabilità risulti complessivamente inattendibile sulla base di elementi indiziari gravi e precisi, come il sensibile scostamento delle percentuali di ricarico anche in relazione allo stesso periodo di imposta oggetto dell’accertamento (Cass. n. 32129 del 2018);

in tema di accertamento del reddito di impresa, ove la contabilità sia complessivamente inattendibile, è legittimo il ricorso al metodo analitico-induttivo, del D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, sulla base di elementi che consentano di accertare, in via presuntiva, maggiori ricavi, che possono essere determinati calcolando la media aritmetica o quella ponderata dei ricarichi sulle vendite (Cass. n. 18695 del 2018);

in tema di accertamento con metodo analitico induttivo, la circostanza che un’impresa commerciale dichiari, per più annualità, un volume di affari inferiore agli acquisti ed applichi modestissime percentuali di ricarico sulla merce venduta (nella specie, anche sottocosto) costituisce una condotta anomala, di per sé sufficiente a giustificare, da parte dell’Amministrazione finanziaria, una rettifica della dichiarazione, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, sicché il giudice tributario, per poter annullare l’accertamento, deve motivare con validi argomenti le ragioni che giustifichino il comportamento del contribuente, non esauribili nel richiamo alla mera libertà di impresa riguardo alla propria politica commerciale (Cass. n. 15019 del 2020);

in tema di rettifica dei redditi d’impresa, l’accertamento di un maggior reddito derivante dalla vendita di immobili, compiuto con metodo analitico induttivo ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, lett. d), secondo periodo, può fondarsi sulla sproporzione tra ricavi e costi, con operatività in perdita dell’imprenditore, in quanto costituente, in assenza di spiegazioni del contribuente, elemento indiziario grave e preciso della sottofatturazione dei corrispettivi e di un comportamento contrastante con i criteri di economicità e con gli scopi propri dell’attività imprenditoriale (Cass. n. 4410 del 2020);

nel giudizio tributario, una volta contestata dall’Erario l’antieconomicità di una operazione posta in essere dal contribuente che sia imprenditore commerciale, perché basata su contabilità complessivamente inattendibile in quanto contrastante con i criteri di ragionevolezza, diviene onere del contribuente stesso dimostrare la liceità fiscale della suddetta operazione ed il giudice tributario non può, al riguardo, limitarsi a constatare la regolarità della documentazione cartacea. Infatti, è consentito al fisco dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere minori costi, utilizzando presunzioni semplici e obiettivi parametri di riferimento, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente, che deve dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate a fronte della contestata antieconomicità (Cass. n. 25257 del 2017);

in materia di IVA, l’Amministrazione finanziaria, in presenza di contabilità formalmente regolare ma intrinsecamente inattendibile per l’antieconomicità del comportamento del contribuente, può desumere in via induttiva, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, commi 2 e 3, sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, il reddito del contribuente utilizzando le incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, incombendo su quest’ultimo l’onere di fornire la prova contraria e dimostrare la correttezza delle proprie dichiarazioni (Cass. n. 26036 del 2015).

La Commissione Tributaria Regionale si è attenuta ai suddetti principi laddove – affermando che correttamente l’Ufficio ha proceduto mediante metodo analitico induttivo in quanto è emerso che la società ricorrente ha lavorato un certo quantitativo di latte e cagliata e ha commercializzato i prodotti e sottoprodotti della lavorazione e non è stato dimostrato che la commercializzazione di tali prodotti sia avvenuta a prezzi inferiori a quelli di mercato allo scopo di penetrare lo stesso per cui si realizza la presunzione di cessione di beni non fatturati né a fini IVA né a fini reddituali, anche in considerazione della circostanza che sin dalla sua costituzione la società ha mostrato, attraverso i propri bilanci negativi e la non remunerabilità dei mezzi impiegati e degli sforzi finanziari per una gestione produttiva con assicurazione di equilibrio tra mezzi finanziari ed economici, cosicché si giunge a presumere legittimamente che si siano sottratti ricavi e del resto l’accertamento analitico induttivo può svolgersi anche quando, pur in presenza di scritture contabili formalmente corrette, queste possano considerarsi, in ragione della irragionevole antieconomicità della gestione imprenditoriale, del tutto inattendibili; infine la percentuale di resa del 13% per il latte e del 100% per la cagliata è stata determinata sulla base di verifiche nei confronti di aziende operanti nel medesimo settore nella stessa provincia – per un verso ha ritenuto che si potesse ricorrere all’accertamento analitico induttivo anche di fronte ad una contabilità tenuta in maniera formalmente corretta quando, come nel caso di specie, sussistano elementi quali l’irragionevole antieconomicità della gestione dedotta da una molteplicità di indizi gravi, precisi e concordanti, e per un altro verso ha fatto un corretto uso dei principi in ordine alla corretta distribuzione degli oneri della prova, in quanto, una volta riconosciuta la sussistenza dei suddetti indizi gravi, precisi e concordanti, non ha riscontrato elementi, quale ad esempio avrebbe potuto essere la prova – non fornita – della fissazione da parte della società contribuente di prezzi inferiori a quelli comunemente praticati sul mercato, che avrebbero potuto orientare circa la non sussistenza dei presupposti per ricorrere all’accertamento analitico induttivo.

Per il resto le doglianze della società ricorrente investono il merito della vicenda il cui esame è precluso in sede di legittimità (cfr., ex multis, Cass. 18611 e 15276 del 2021): in particolare infatti il ricorrente non si limita a contestare la sussunzione del fatto come accertato dal giudice di merito nell’ipotesi normativa, ma contesta in radice la ricostruzione del fatto così come illustrata dal giudice di merito, cosicché può richiamarsi quanto affermato da Cass. n. 680 del 2020, secondo cui la critica al ragionamento presuntivo svolto dal giudice di merito sfugge al concetto di falsa applicazione quando si concreta o in un’attività diretta ad evidenziare soltanto che le circostanze fattuali in relazione alle quali il ragionamento presuntivo è stato enunciato dal giudice di merito, avrebbero dovuto essere ricostruite in altro modo (sicché il giudice di merito è partito in definitiva da un presupposto fattuale erroneo nell’applicare il ragionamento presuntivo), o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica semplicemente diversa da quella che si dice applicata dal giudice di merito, senza spiegare e dimostrare perché quella da costui applicata abbia esorbitato dai paradigmi dell’art. 2729, comma 1 c.c. (e ciò tanto se questa prospettazione sia basata sulle stesse circostanze fattuali su cui si è basato il giudice di merito, quanto se basata altresì su altre circostanze fattuali). In questi casi la critica si risolve in realtà in un diverso apprezzamento della ricostruzione della quaestio facti, e, in definitiva, nella prospettazione di una diversa ricostruzione della stessa quaestio e ci si pone su un terreno che non è quello dell’art. 360 c.p.c., n. 3 (falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1), ma è quello che sollecita un controllo sulla motivazione del giudice relativa alla ricostruzione della quaestio facti (Cass., Sez. Un., nn. 8053 e 8054 del 2014; Cass. SU n. 1785 del 2018; da ultimo Cass. n. 22366 del 2021, secondo cui con riferimento agli artt. 2727 e 2729 c.c., spetta al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità).

Deve altresì rilevarsi che, per contestare le circostanze fattuali affermate dalla Commissione Tributaria Regionale, la ricorrente fa riferimento a elementi fattuali che non sono trascritti nel corpo del ricorso, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso stesso: in effetti, il principio di autosufficienza – prescritto, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, – è volto ad agevolare la comprensione dell’oggetto della pretesa e del tenore della sentenza impugnata, da evincersi unitamente ai motivi dell’impugnazione: ne deriva che il ricorrente ha l’onere di operare una chiara esposizione dei fatti funzionale alla piena valutazione di detti motivi in base alla sola lettura del ricorso, al fine di consentire alla Corte di cassazione (che non è tenuta a ricercare gli atti o a stabilire essa stessa se ed in quali parti rilevino) di verificare se quanto lo stesso afferma trovi effettivo riscontro, anche sulla base degli atti o documenti prodotti sui quali il ricorso si fonda, la cui testuale riproduzione, in tutto o in parte, è invece richiesta quando la sentenza è censurata per non averne tenuto conto (Cass. n. 24340 del 2018; Cass. n. 17070 del 2020).

I motivi di impugnazione sono pertanto entrambi infondati e il ricorso va conseguentemente rigettato; le spese seguono la soccombenza.

PQM

rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, che liquida in Euro 7.800, oltre a spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 16 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2022

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