Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.5125 del 16/02/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 28675-2015 r.g. proposto da:

INTESA SANPAOLO s.p.a., (cod. fisc. P. Iva *****), con sede in *****, in persona del legale rappresentante pro tempore Avv. Vittorio Politi, rappresentata e difesa, giusta procura speciale apposta in calce al ricorso, dall’Avvocato Maddalena Arlenghi, con cui elettivamente domicilia in Roma, Via XX Settembre n. 98, presso lo studio dell’Avvocato Sabrina Cerchi;

– ricorrente –

contro

MERKER s.p.a., in amministrazione straordinaria, in persona del legale rappresentante pro tempore il commissario straordinario Dott. L.G., rappresentata e difesa, giusta procura speciale apposta in calce al controricorso, dall’Avvocato Massimo Basilavecchia, con il quale elettivamente domicilia in Roma, alla Via Paolo Emilio n. 34, presso lo studio dell’Avvocato Quirino D’Angelo;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza della Corte di appello di L’Aquila, depositata in data 4.11.2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 2/12/2021 dal Consigliere Dott. Roberto Amatore.

RILEVATO

CHE:

1. Il Tribunale di Pescara con la sentenza n. 1154/2011 emessa in data 13.9.2011 rigettò la domanda revocatoria proposta ai sensi della L.Fall., art. 67, comma 2, presentata da MERKER s.p.a., in amministrazione straordinaria nei confronti di INTESA SANPAOLO s.p.a., rilevando in limine la carenza di legittimazione passiva della convenuta e compensando le spese di lite tra le parti.

2. Proposto gravame da parte di MERKER s.p.a., in a.s., avverso la predetta sentenza di primo grado, la Corte di appello di L’Aquila, accogliendo il gravame, ha dichiarato la legittimazione passiva dell’appellata INTESA SANPAOLO s p a e, accogliendo la domanda revocatoria avente ad oggetto le anticipazioni bancarie e le rimesse solutorie, ha condannato l’istituto di credito al pagamento della complessiva somma pari ad Euro 568.047,05, con ulteriore condanna al pagamento delle spese di lite del grado.

La corte del merito ha ritenuto che: a) la legittimazione passiva di INTESA SANPAOLO s.p.a. dovesse essere rintracciata sulle base delle successive operazioni di incorporazioni e fusioni societarie degli originari soggetti giuridici percettori dei pagamenti oggetto della domanda revocatoria, rilevando che: i) l’intervenuta successione universale nei rapporti giuridici soggetta alle predette trasformazioni societarie non era stata interrotta – a differenza di quanto ritenuto nella sentenza di primo grado – dall’avvenuto conferimento di ramo d’azienda tra Banca Intesa San Paolo s.p.a. e Banca dell’Adriatico s.p.a. effettuato in data 16 giugno 2006, atto con il quale era stata conferita alla Banca dell’Adriatico s.p.a. la struttura organizzativa e produttiva corrispondente alla cd. dorsale adriatica; ii) dalla lettura dell’atto del 2006 era infatti emerso che non si era determinata una successione a titolo particolare del soggetto conferitario, disciplinata sia dalle norme codicistiche in tema di cessione d’azienda e sia dal T.U. n. 385 DEL 1993, art. 58 con la conseguenza che non si potesse predicare un trasferimento della titolarità passiva rispetto alle future azioni revocatorie, e ciò a fortiori qualora l’azione non si fosse già tradotta – come avvenuto nel caso di specie – in domanda giudiziaria; iii) l’azione revocatoria riveste invero natura costitutiva, con la conseguenza che solo il suo esito positivo potrebbe determinare la modificazione della posizione giuridica delle parti, generando l’obbligo di restituzione, dovendosi pertanto ritenere che siffatta iniziativa giudiziaria non avrebbe potuto costituire quel tipo di rapporto giuridico, debito o passività, suscettibile di trasferimento unitamente alla cessione del ramo di azienda sopra descritto; iv) in termine; generali e secondo gli insegnamenti di questa corte di legittimità, in tema di azioni revocatorie su rimesse fit, conto corrente bancario in favore di istituto di credito, la cui azienda sia stata poi ceduta ad altra banca, la legittimazione passiva sussiste in capo alla cessionaria, qualora risulti che con l’azienda bancaria siano state trasferite tutte le attività e passività aziendali, dunque anche i debiti futuri derivanti dall’azione revocatoria, in quanto azioni ad oggetto determinabile purché nell’atto della convenzione fossero identificabili gli eventuali debiti, risultanti dalla contabilità, in relazione ai pagamenti eseguiti dal debitore poi fallito; v) nel caso di specie, le parti non avevano indicato nell’atto traslativo del ramo d’azienda i debiti futuri riguardanti le eventuali iniziative revocatorie che ancora non erano state intraprese; vi) la diversa ricostruzione operata nella sentenza gravata non riusciva neanche a spiegare l’anomalia dell’accertamento dell’elemento soggettivo della scientia decoctionis in riferimento ad un soggetto terzo rispetto al giudizio; vii) anche le altre clausole negoziali confermavano l’interpretazione dell’atto di cessione d’azienda sopra richiamata, nel senso, cioè, di escludere il trasferimento della legittimazione passiva nelle future azioni revocatorie; b) occorreva pertanto revocare, ai sensi della L.Fall., art. 67, comma 1, n. 2, le anticipazioni bancarie quale meccanismo solutorio anomalo, e, ai sensi della L.Fall., art. 67, comma 2, le rimesse solutorie, per una complessiva somma pari ad Euro 568.047,05; c) sussisteva anche l’elemento soggettivo della scientia decoctionis, emergendo la conoscenza dello stato di insolvenza della MERKER s.p.a., in bonis, da plurimi elementi, quali la qualità professionale della banca che aveva accesso alla Centrale Rischi della Banca di Italia, l’ammontare complessivo del credito utilizzato (superiore, sin dal mese di gennaio 2002, ai fidi accordati), gli sconfinamenti di conto corrente, i dati di bilancio, gli insoluti e l’ipoteca giudiziale iscritta sugli immobili della debitrice.

2. La sentenza, pubblicata il 4.11.2015, è stata impugnata da Banca Intesa San Paolo s.p.a. con ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, cui la MERKER s.p.a., in amministrazione straordinaria, ha resistito con controricorso, con il quale ha anche presentato ricorso incidentale condizionato e non condizionato, al quale l’istituto di credito ha replicato con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

CONSIDERATO

CHE:

1. Con il primo motivo la società ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 58 e dell’art. 2560 c.c., in relazione alla questione dell’affermata sua legittimazione passiva relativamente alla proposta azione revocatoria. Osserva la ricorrente che la cessione tra banche, per come disciplinata dal D.Lgs. n. 385 sopra richiamato, ha ad oggetto letteralmente la cessione di “beni e rapporti giuridici individuabili in blocco”, senza distinzione tra rapporti in essere e rapporti già facenti capo alla cedente (ma che sorgeranno solo allorquando il soggetto legittimato decida di formalizzare la domanda), con la conseguenza che in tale categoria di rapporti occorre ricomprendere, anche secondo le indicazioni della giurisprudenza di legittimità, le azioni revocatorie fallimentari, posto che, già al momento della cessione dei predetti rapporti giuridici, dalla contabilità della banca cedente risulta normalmente il pagamento del soggetto poi fallito che consente di individuare tutti gli elementi del rapporto giuridico dal quale potrebbe derivare il relativo debito restitutorio. Evidenzia ancora la ricorrente che proprio la lettura degli artt. 4 e 8 dell’atto di conferimento chiarisce l’intervenuto trasferimento di tutte le “attività e passività connesse all’attività bancaria e finanziaria svolta, il tutto formante il ramo d’azienda descritto nella relazione di stima…, con ciò confermandosi la sua carenza di legittimazione passiva rispetto alla domanda revocatoria delle rimesse solutorie che avrebbe dovuto essere indirizzata alla banca cessionaria.

1.1 Il motivo è infondato.

1.1.1 Sul punto oggetto di discussione va premesso che, secondo la giurisprudenza espressa da questa Corte, in tema di azione revocatoria fallimentare, avente ad oggetto le rimesse su conto corrente a favore di una banca, la cui azienda sia poi stata ceduta ad altra banca, la legittimazione passiva sussiste in capo alla cessionaria ove risulti che con l’azienda bancaria siano state trasferite tutte le attività e passività aziendali, dunque anche i debiti futuri derivanti dall’azione revocatoria, in quanto obbligazioni ad oggetto determinabile, perché all’atto della convenzione erano identificabili gli eventuali debiti, risultanti dalla contabilità, in relazione ai pagamenti eseguiti dai debitori poi falliti (Sez. 1, Sentenza n. 17668 del 28/07/2010; v. anche Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 13308 del 28/05/2018). Sul punto si sono espresse anche le Sezioni Unite di questa Corte, affermando il principio secondo cui “Il cessionario dell’azienda è obbligato, ai sensi dell’art. 2560 c.c., comma 2, alla restituzione conseguente alla revoca fallimentare di un pagamento ricevuto dal cedente anteriormente alla cessione solo se tale debito risulti dai libri contabili obbligatori, sempre che sussista un’effettiva alterità soggettiva delle parti titolari dell’azienda (non ravvisabile, ad esempio, nelle ipotesi di trasformazione, anche eterogenea, della forma giuridica di un soggetto ed in quella di conferimento dell’azienda di un’impresa individuale in una società unipersonale) e salvo che il cessionario stesso abbia inteso assumere anche il futuro debito derivante dall’esercizio dell’azione revocatoria dei pagamenti risultanti dalla contabilità aziendale” (cfr. Cass. ss.uu. n. 5054 del 28/02/2017).

Ciò posto, risulta evidente dalla lettura della sentenza impugnata che la Corte territoriale si è attenuta ai principi di diritto ora ricordati (e qui riaffermati anche da questo Collegio), in tema di legittimazione passiva della banca cedente il ramo d’azienda, posto che il giudice di appello, con accertamento in fatto (qui neanche puntualmente sindacato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), ha evidenziato che la legittimazione passiva rispetto all’azione revocatoria in discussione non rientrava nell’oggetto del trasferimento interbancario”, avendo altresì precisato che “nel caso di specie, le parti in causa non hanno indicato né sono in grado di indicare precisamente nell’atto traslativo del ramo d’azienda un concetto di debito futuro, concernenti poi le eventuali iniziative revocatorie, ripetesi, all’epoca non ancora iniziate” (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata).

Ne consegue che, se per un verso, non è in alcun modo rintracciabile la denunciata violazione di legge posto che il pronunciamento impugnato ha applicato i principi di diritto affermati dalla giurisprudenza di questa Corte (per come sopra ricordati), per altro verso, risulta evidente che la censura proposta dalla ricorrente neanche coglie in pieno la ratio decidendi della motivazione qui contestata, riposando quest’ultima sulla corretta lettura dell’art. 58 t.u.b. e dell’art. 2560 c.c., in tema di trasferimento di rapporti giuridici attivi e passivi determinato da cessione di azienda ovvero di un suo ramo e sull’interpretazione, anch’essa involgente una valutazione in fatto da parte dei giudici del merito, dell’atto di conferimento del 16 giugno 2006.

1.1.2 Risulta, pertanto, evidente che l’esclusione dal conferimento del ramo d’azienda del debito restitutorio nascente dall’esperimento della successiva azione revocatoria non si fonda su una valutazione aprioristica di assoluta non trasferibilità del rapporto giuridico qui in discussione, quanto piuttosto sull’esegesi del predetto atto di conferimento, del contenuto di quest’ultimo e della volontà negoziale delle parti calata nel predetto documento, con la conseguente affermazione dell’esclusione della dedotta “onnicomprensività” del trasferimento aziendale interbancario.

Ne consegue ancora che la diversa lettura ed interpretazione avanzata dalla ricorrente delle sopra ricordate clausole convenzionali riguardanti il medesimo atto di conferimento del 16 giugno 2016 (artt. 4 e 8), prospettando un’esegesi alternativa a quella accolta dalla corte di merito, richiederebbe a questa Corte una nuova valutazione del merito della decisione, che invece è inibita al giudice di legittimità.

Sul punto occorre infatti ricordare che costituisce principio fermo nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 c.c. e ss. – qui, peraltro, neanche evocate dalla ricorrente -, avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Sez. 3, Sentenza n. 28319 del 28/11/2017; Sez. 1, Ordinanza n. 16987 del 27/06/2018).

Ne consegue il complessivo rigetto del primo motivo di censura.

2. Con il secondo mezzo si deduce violazione e falsa applicazione del R.D. n. 267 del 1942, art. 67 degli artt. 2697,2727 e 2729 c.c. e dell’art. 115 c.p.c., comma 2, nonché dei principi generali in tema di presunzioni e di onere della prova relativamente all’esclusione della sussistenza della conoscenza dello stato di insolvenza da parte della banca, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 Si stigmatizza da parte della ricorrente l’erroneità della decisione impugnata laddove la stessa avrebbe affermato che la conoscenza dello stato di insolvenza dovesse considerarsi presunta iuris et de iure L.Fall., ex art. 67. Evidenzia ancora la ricorrente che la corte di appello avrebbe errato comunque nella valutazione indiziaria del presupposto della scientia decoctionis, non avendo considerato i cd. indizi “interni” e fondando tale giudizio su una perizia di parte prodotta in giudizio dalla procedura e dunque priva di alcun valore probatorio, senza invece considerare le puntali critiche mosse alla controparte sulla valutazione dei dati estraibili dai bilanci, dalle schede della centrale rischi e dall’altra documentazione prodotta. Si osserva che, per gli operatori bancari, per affermare la ricorrenza del presupposto soggettivo dell’azione revocatoria, non basterebbe un’astratta conoscibilità oggettiva accompagnata da un presunto dovere di conoscere e che proprio la decisione della banca di concedere nuovo credito avrebbe deposto nel senso di escludere la conoscenza da parte di quest’ultima dello stato di insolvenza della società in bonis.

2.1 Il motivo – per come articolato – è inammissibile.

2.1.1 Corre l’obbligo subito di precisare che la corte territoriale non ha affatto affermato che la conoscenza dello stato di insolvenza dovesse ritenersi presunto iuris et de iure, avendo al contrario affidato ad una valutazione degli indizi allegati dalle parti lo scrutinio – involgente un giudizio tipicamente di merito (non più censurabile in questa sede) – relativo alla sussistenza o meno del presupposto soggettivo della scientia decoctionis nel caso esaminato.

2.1.2 Nel resto la censura si compone di un’articolata richiesta di rivalutazione e rilettura degli elementi indiziari che, involgendo, come detto, una riedizione del giudizio di merito, non è più consentita in questa sede decisoria di legittimità.

Sul punto la ricorrente allega e deduce invero un vizio di violazione e falsa applicazione degli indici normativi già sopra ricordati in rubrica.

E’ utile ricordare che giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa e’, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Sez. 1, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019; Sez. 1, Ordinanza n. 24155 del 13/10/2017; Sez. L, Sentenza n. 195 del 11/01/2016).

Orbene, la società ricorrente propone proprio un’erronea ricognizione della questio facti da parte della corte distrettuale, evidenziando che la lettura corretta degli elementi indiziari allegati dalle parti (schede centrale rischi; dati di bilancio; sconfinamenti sul conto corrente; fidi bancari; etc.) deponesse per una diversa soluzione della decisione, senza neanche prospettare ed approfondire la questione della non corretta interpretazione ed applicazione delle norme di cui si deduce la violazione da parte della corte di appello.

Il motivo è dunque inammissibile.

3. Con il terzo motivo si censura il provvedimento impugnato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, per violazione e falsa applicazione della L.Fall., art. 67, degli artt. 2697,2727 e 2729 c.c., e dell’art. 115 c.p.c., comma 2, nonché dei principi generali in materia di presunzioni e di onere della prova, nonché per vizio di insussistenza e insufficienza della motivazione in ordine ad un fatto decisivo per l’esclusione della revocabilità delle rimesse. Osserva la ricorrente che la determinazione delle rimesse revocabili si sarebbe fondata solo sulla valutazione acritica delle risultanze di una consulenza di parte che non sarebbe stata in alcun modo verificata nel corso del giudizio, senza valutare in alcun modo le sue argomentazioni, spese per dimostrare la non revocabilità delle rimesse e delle anticipazioni bancarie ed in particolare la circostanza allegata relativa alla mancanza di scopertura rispetto all’affidamento accordato, profili quest’ultimi in relazione ai quali si sarebbe fornita da parte della corte di appello una motivazione inadeguata e insufficiente.

3.1 La censura è inammissibile per le medesime ragioni sopra evidenziate in riferimento al secondo motivo, e cioè, per aver la ricorrente, di nuovo, prospettato censure in fatto, come tali volte a sollecitare questa corte di legittimità ad una rilettura degli atti istruttori, questa volta per accreditare un diverso apprezzamento della circostanza relativa alla scopertura o meno dei conti correnti in cui erano confluite le rimesse di cui si contestava la natura solutoria.

3.1.1 Va, poi, precisato che, differentemente da quanto opinato dalla società ricorrente, la corte di merito ha indicato, per ogni singola rimessa, lo scoperto di conto corrente da contrapporre alla rimessa stessa, così evidenziando la natura solutoria e la revocabilità della stessa. Sicché non è condivisibile l’assunto relativo alla mancanza di motivazione sul punto qui da ultimo in discussione (cfr. pagg. 7-8 della sentenza impugnata).

Ne consegue il complessivo rigetto del ricorso principale.

4. Il rigetto del ricorso principale assorbe l’esame del ricorso incidentale condizionato.

5. Va accolto invece il ricorso incidentale della controricorrente incentrato sulla mancata regolamentazione delle spese di primo grado già compensate dal Tribunale.

5.1 Sul punto va ricordato che, in base al principio fissato dall’art. 336 c.p.c., comma 1, secondo il quale la riforma della sentenza ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata (cosiddetto effetto espansivo interno), la riforma della sentenza di primo grado determina la caducazione del capo della pronunzia (parzialmente riformata) che ha statuito sulle spese di lite, con la conseguenza che il giudice d’appello deve procedere d’ufficio ad un nuovo regolamento di tali spese, alla stregua dell’esito finale della lite (cfr. Sez. 2, Sentenza n. 13485 del 10/10/2000; sez. 2, Sentenza n. 5497 del 17/04/2002; Sez. L, Sentenza n. 13011 del 05/09/2003; Sez. L, Sentenza n. 9783 del 18/06/2003; Sez. L, Sentenza n. 18837 del 30/08/2010; Sez. 3, Sentenza n. 23059 del 30/10/2009; Sez. L, Sentenza n. 26985 del 22/12/2009; Sez. 2, Sentenza n. 28718 del 30/12/2013; Sez. L, Sentenza n. 11423 del 01/06/2016; Sez. 3, Ordinanza n. 9064 del 12/04/2018; Sez. 1, Ordinanza n. 14916 del 13/07/2020 Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 27056 del 06/10/2021).

Sulla base dei principi ora ricordati (e qui riaffermati), il ricorso incidentale presentato da MERKER s.p.a., in amministrazione straordinaria, va dunque accolto, in quanto la Corte di appello, dopo aver riformato la sentenza di primo grado (ove il Tribunale aveva provveduto alla compensazione delle spese di lite), avrebbe dovuto statuire anche in ordine alle spese del primo grado, oltre che su quelle relative al grado di appello, statuizione invece mancante.

Si impone pertanto la cassazione della sentenza impugnata limitatamente alla mancata statuizione sulle spese del primo grado.

PQM

rigetta il ricorso principale; dichiara assorbito il ricorso incidentale condizionato; accoglie il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata nei limiti di cui in motivazione e rinvia alla Corte di appello di L’Aquila che, in diversa composizione, regolerà anche le spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 2 dicembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 16 febbraio 2022

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